Avvertì che era una frase inutile, inadeguata.
Si alzò e prese Ylena sottobraccio. - Vieni ad aiutarmi - sussurrò.
In cucina prepararono il caffè. Altux decise che sarebbe rimasto con la famigliola fino al mattino: allora tutto il villaggio avrebbe saputo, e la casa si sarebbe riempita di amici. Il calore umano, pensò il sacerdote, avrebbe confortato la donna e i bambini, li avrebbe fatti sentire meno soli. Emise un lungo sospiro e la bambina lo guardò con gli occhi scuri tagliati a mandorla, tristi. Altux inventò un sorriso pieno d'affetto, prese il pentolino e versò del caffè nelle tazze.
- Lei pensa che nostro padre tornerà? - chiese improvvisamente Ylena mentre sorreggeva il vassoio.
Il reverendo depose il pentolino. - Forse tornerà - disse. - Da tre anni non abbiamo notizie dalla Terra, non sappiamo che cosa sia accaduto laggiù. Forse tuo padre è ancora vivo e magari un giorno potrà tornare, ma non dobbiamo illuderci.
Vide che la ragazza stava per piangere. Le accarezzò i capelli neri e corti tagliati alla maschietto. - Su, su - disse - portiamo il caffè prima che si raffreddi.
Quando uscì, il sole era già alto sopra le dune rosse che percorrevano l'orizzonte come onde d'un mare morto. Altux si incamminò per il viottolo, fra le ombre del villaggio; raggiunse la cappella color ocra, entrò nel vano del piccolo campanile e le mani gli tremarono mentre afferrava la corda e la campana iniziava a suonare. Ora il paesino sapeva.
Si sarebbero chiesti a chi era toccato, la voce avrebbe percorso in fretta le strade, i corridoi, le stanze. Tutti si sarebbero recati dalla piccola Svetlana.
Il reverendo lasciò andare la corda e la campana continuò a suonare da sola, sempre più lentamente. Sedette in un banco e rimase a fissare il Crocefisso.
Alle spalle, la porta si aprì cigolando e i passi echeggiarono fra le pareti mentre l'uomo veniva a sedersi al fianco del reverendo. Altux girò gli occhi stanchi, arrossati: vide che era Kowalsky, il dottore.
- Scusi se l'ho disturbata.
- No, niente. Questa casa è aperta a tutti. - Cercò di assumere un tono giovanile.
- Cercavo proprio lei, speravo che non fosse già andato a dormire.
- E' stato fortunato.
- Ho saputo che ha passato tutta la notte con la famiglia della piccola Svetlana.
- Sì.
- Ecco... - guardò il piccolo altare. - Ho paura. Ho paura che non ci sia niente da fare. Ho paura che non ci sia possibilità di arrestare l'epidemia.
- Pensa che moriremo tutti?
- Potrebbe accadere. Prima i ragazzi, poi noi. Adesso si è ammalato il giovane Sergej... Anche lui gli stessi sintomi: febbre marziana. Io non so come fare, io sono il dottore e per questo mi lasciarono su Marte quando tutti furono richiamati. Ma io non posso fare niente per nessuno... Non ho gli strumenti, non ho le medicine. - Fissò il pavimento.
- E' un virus?
- Sì, dev'essere un virus. Ho tentato con le analisi, con il microscopio - fece un gesto di impotenza - ma è un'attrezzatura da dilettanti, sulla Terra avrebbe fatto sorridere.
- Neanche io posso fare niente - sussurrò Altux.
- Già, ma lei ha la fede: per lei questo è solo un passaggio...
- Lei, Kowalsky, non ha fede?
Il sole iniziava a far capolino nella cappella, illuminando le pareti bianche e il pavimento color mattone.
- Lo sa bene che non ho fede. Mi ha mai visto a messa, la domenica?
- Beh, però lei adesso si trova in una chiesa.
- E' un altro discorso.
- E allora perché è venuto?
- Perché... Così, non so. - Appoggiò i gomiti alle ginocchia. - Forse pensavo che lei avesse una risposta. Un'idea assurda!
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