Fabio, ancora a letto, continuava a mormorare cazzo guardandosi braccia e gambe senza trovare il coraggio di toccarle. D'impulso, corsi in salotto e accesi la tivù.
Le immagini mi investirono come un fiume di carne umana macinata: a reti unificate veniva trasmesso quel che sembrava un bollettino di guerra, con immagini in rapida successione di ospedali affollati all'inverosimile, ingorghi di mezzi di soccorso e colonne d'autoblindo dell'esercito. Quando vidi chi era ad affollare gli ospedali, le gambe mi cedettero e arrancai, sfiatato, sino a sprofondare sulla poltrona.
C'era gente col corpo coperto o deformato da oscene protuberanze, grappoli di nei sul viso e cose simili a tentacoli o peni flosci sulle braccia; altri, inquadrati per un istante appena, parevano cumuli di scarti di macelleria. Lo speaker, con voce terrea, parlava di malattia, contagio, attacco terroristico, stato di emergenza, accavallando confusamente le parole come se non sapesse ciò che stava dicendo. In calce allo schermo scorrevano i numeri di telefono di non meglio precisati centri di crisi.
Solo a quel punto mi resi conto delle sirene. Sempre stordito, andai alla finestra, alzai l'avvolgibile e aprii i doppi vetri per guardare di sotto.
In strada una folla di persone s'accalcava intorno a un autobus con drappi bianchi disposti lungo le fiancate. Davanti c'erano due volanti dei carabinieri e militi a piedi che si sbracciavano, sbraitavano, prendevano a calci la gente, forse tentando di dirigerla da qualche parte o perché erano completamente impazziti. Un'ambulanza passò a sirene urlanti e per poco non travolse la folla. Lontano, in mezzo ai palazzi, vidi altre ambulanze, altra gente. E ingorghi di macchine che non potevano più andare da nessuna parte.
Tornai in camera di mio figlio in tempo per vederlo mettersi seduto e, un istante dopo, cominciare a sanguinare dal naso. Nadia si inginocchiò accanto al letto, gli strinse con forza le mani sporche e si mise a pregare a voce alta.
Il resto lo sapete: i medici e tutti gli altri cercarono di arginare i focolai che divampavano ma il contagio si diffuse ugualmente di corpo in corpo, di città in città, come le metastasi procedevano da una cellula all'altra sul corpo di mio figlio e di mia moglie.
Alla televisione si susseguirono i bollettini con direttive di coprifuoco e stati di emergenza vari. Furono chiusi tutti gli aeroporti e le stazioni ferroviarie, e l'esercito riempì le strade di posti di blocco per impedire a chiunque di spostarsi. Poi altre immagini di corpi tumefatti, proliferanti di tumori, che parevano rivoltati come guanti o che andavano plasmando la propria carne in nuove anatomie aberranti.
Man mano che apprendevo le conseguenze dell'infezione, immediatamente le riconoscevo su Nadia e Fabio che, a letto, si torcevano seguendo il ritmo dettato dagli spasmi di dolore. I nei continuarono a crescere, estendendosi, allungandosi, ingrassando. Nadia sviluppò sul ventre piccoli tentacoli di carne scura, turgidi al tocco. Il suo corpo, quando era ormai notte, era quasi interamente ricoperto da una sorta di crosta butterata ed elastica. A Fabio accadde qualcosa di simile: i nei della testa s'allungarono sino a sbucare tra i capelli a spazzola come tentacoli di lumaca. Continuando a crescere si rivelarono simili alle treccine rasta che aveva sempre desiderato e che Nadia gli aveva solennemente proibito. Allo stesso modo i nei sulle estremità e sul busto andarono disponendosi in forme che potevano ricordare dei tatuaggi tribali. Un'altra sua fissazione. I tatuaggi.
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