Io mi ricordo bene quando, un giorno d'aprile del 2045, il Grande Ponte sullo Stretto fu dichiarato finito. Ed ero là quando frettolosamente, qualche giorno dopo, fu organizzata la cerimonia di inaugurazione. Non c'era molta gente: un assessore della provincia di Salerno, un giornalista del Mattino, il responsabile dell'impresa che aveva completato quei lavori essenziali che erano necessari per dichiarare l'opera conclusa, qualche curioso, qualche parente.
Oh, in realtà il progetto era ben lontano dall'essere completato. Tutta la parte ferroviaria non era stata neanche iniziata, e gli svincoli che avrebbero dovuto collegare il ponte al complesso sistema di autostrade - mai costruite - si riducevano a frammenti di cemento lasciati a metà. Ma nessuno li avrebbe reclamati.
Almeno la strada ora collegava i due lati del mare. Dalla Sicilia alla Calabria attraverso una maestosa via disegnata nel cielo, a ottanta metri dall'altezza nel punto più alto.
Ero ancora un bambino quando erano cominciati i lavori. All'inizio avevano proceduto bene, poi avevano rallentato, mentre il paese doveva affrontare questioni ben più urgenti. Quasi finito, il grande ponte era rimasto semiabbandonato per un decennio, finché l'ultimo governo, con l'obiettivo di occupare i disoccupati aveva rilanciato il progetto e aveva mandato i poveracci a sudare tutto il sudabile.
Era bello, pensai, mentre lo osservavo stagliato contro il cielo e contro il mare. Era maestoso. Era appena finito, e aveva già il fascino delle maestose rovine dell'antichità. Guardandolo non riuscivo a pensare, come voleva la propaganda, a simboli del progresso come la torre Eiffel o la torre di Tokyo, ma piuttosto alle meraviglie dell'antichità, come le piramidi o la Sfinge.
Mentre me ne stavo con lo sguardo perso sul mare non mi ero accorto che la cerimonia era cominciata e finita in un attimo. L'assessore aveva tagliato il suo nastro e tutti si godevano l'ombra del banchetto allestito per il rinfresco, e fu allora che si intravvide la figura in lontananza.
La prima a notarla fu la figlia dell'assessore, ma nessuno le badò molto, perché aveva continuato a strillare per tutto il tempo, poveretta, così piccola doveva soffrire molto caldo. Ma poi anche Russo, quello del Mattino, aveva cominciato a indicare il ponte, là in fondo, dove c'era quel puntino nero.
A nessuno, devo dire, passò neanche per la testa di andare a vedere chi fosse. Troppo caldo, impensabile mettersi a camminare sotto il sole su quel cemento accecante, bollente. Tenemmo a bada la nostra curiosità, quindi, finché il puntino non divenne un puntino più grande, finché il puntino più grande non divenne una sagoma, e finché la sagoma non divenne un uomo su una cavalcatura.
E poi la cavalcatura, un grosso asino o forse un mulo, arrivò nello spiazzo dove ci trovavamo e l'uomo scese. Il suo volto lo ricorderò sempre: era riarso come la terra, una ragnatela di rughe, di crepe, che avevano scavato la sua pelle fino a farne uscire ogni traccia di umidità. Quell'uomo era secco. Non so dire che età avesse, forse trenta, forse cinquanta, forse cent'anni. Ne dimostrava un'eternità.
Ci fu un momento di silenzio mentre tutti lo fissavano a bocca aperta. Fu lui a parlare per primo.
- Mi chiamo Antonio. Vengo da vicino a Messina. Questo è il continente?
L'assessore fu il primo a riaversi e si avvicinò, tendendo la mano. - Sì, qui siamo dove c'era Reggio Calabria. E' il primo ad attraversare il nuovo Ponte sullo Stretto.
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