Omelas e i limiti dell'utopia
Rileggo il racconto di Le Guin, ispirazione originaria che dà anche occasione a questo lavoro, e ritrovo molti di questi echi.
Un invito a immaginare, innanzitutto, che vuol mettere in pratica quell'idea di fantascienza come "esperimento del pensiero" di cui Le Guin parla, in quegli stessi anni, nei saggi di Il linguaggio della notte, con due antecedenti, uno riconosciuto e uno implicito.
Il riferimento implicito è al romanzo-saggio di H.G. Wells Un'utopia moderna (A Modern Utopia, 1905). L'utopia tradizionale, che lui chiama "statica" (classici come La città del sole di Tommaso Campanella, La nuova Atlantide di Francis Bacon, o un moderno esempio americano come Looking Backward di Edward Bellamy, del 1888), presenta mondi ideali ma chiusi e irraggiungibili, governati da una casta di eletti. Questi luoghi perfetti sono incapaci di immaginare il dissenso e il pensiero individuale, e incapaci di tollerare che altri abbiano, a modo loro, lo stesso diritto e lo stesso desiderio di accedere all'utopia. Ciò che è fuori dall'ideale, è bene che resti fuori. Dunque Wells immagina di immaginare, insieme al lettore, come potrebbe essere un'utopia diversa, perfettibile, "cinetica", capace di accogliere sempre nuovi obiettivi e di darsi sempre nuovi orizzonti. La sua speculazione, purtroppo, non viene portata fino in fondo: alla fine si raggiunge la perfezione assoluta, e la storia ricade nella casta dei "samurai", guide illuminate del mondo ideale. Ma quell'utopia "al condizionale" rimane una sfida che più avanti sarà raccolta, innanzitutto nell'"utopia ambigua" della stessa Le Guin, I reietti dell'altro pianeta (The Dispossessed, 1974).
Il riferimento diretto è a un'altra ipotesi immaginativa, uno scritto del 1891 del filosofo americano William James, The Moral Philosopher and the Moral Life (in italiano è in un'antologia tradotta da Piero Bairati, La volontà di credere, Rizzoli 1984). Lo stesso impulso che ci fa desiderare un mondo migliore, si chiedeva James, potrebbe sopportare la consapevolezza che il prezzo da pagare per l'utopia fosse "che una certa anima persa all'estremo margine delle cose conducesse una vita solitaria e di tormento"? Quell'utopia, per esistere, ha bisogno dell'esclusione: negli anni della polemica sull'imperialismo in Asia orientale, l'ipotesi è tutt'altro che astratta.
Come Wells, per quattro pagine Le Guin invita chi legge a immaginare con lei il mondo perfetto, con le sue gratificazioni, nelle condizioni materiali e nei rapporti interpersonali. Ma poi c'è la condizione che l'ha resa possibile. E nelle restanti quattro pagine l'invito è a immaginare la vita del ragazzino che (per qualche misteriosa ragione) deve restare eternamente condannato a vivere in una cella, espulso dal mondo e da qualunque contatto umano. La città di Omelas continua a esistere, sicura di sé e dei propri trionfi. Nel finale, l'ultimo invito dell'autrice è a immaginare che qualcuno non accetti lo stato di cose; tanti, soprattutto giovani, uno alla volta, si incamminano via dalla città: "Per gran parte di noi, il posto verso cui vanno è ancor meno immaginabile della città della felicità. Non so assolutamente come descriverlo. E' possibile che non esista. Ma sembrano sapere dove stanno andando, quelli che abbandonano Omelas".
Con qualche illusione in meno, negli anni dei movimenti controculturali e dell'opposizione alla guerra in Vietnam, nell'America di Le Guin non si può più immaginare che il ragazzino reietto scelga spontaneamente, come la Hester della Lettera scarlatta, di condurre quella vita, sacrificandosi nel nome del superiore bene della collettività. Di quell'America, Le Guin condivide miti e limiti, come il dropping out, l'uscita individuale dalla società. Soprattutto, il problema del modello proposto da "Omelas" è che si dà per scontato che il ragazzino sia perso per la comunità: il problema è che nessuno va a sentire la sua opinione, per capire come sarebbe fatta una città che li contenesse entrambi, che riconoscesse il suo diritto all'utopia. Questa è una delle domande a cui Le Guin proverà a rispondere in romanzi successivi come I reietti e Il mondo della foresta (The Word for World Is Forest, 1972). Una delle domande a cui, con urgenza sempre crescente, anche noi dovremmo provare a rispondere.
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