- Ho conosciuto un ragazzo, oggi - disse Liselott dopo che eravamo rimasti in silenzio sino a sera. Diede a quelle parole una intonazione fastidiosa.

Poiché non accennavo a rispondere, continuò da sola: - Si chiama Valerio, è figlio di un anarchico fuggito da Cordoba al momento del colpo di mano. Vorrebbe che lo portassimo con noi a Madrid; cercherà suo padre, se necessario si arruolerà.

Mi dava disgusto quella finta indifferenza nel suo parlare, come se stesse raccontando di qualcosa accaduto in un ipermercato della periferia di Stoccolma. Non voleva dimostrare interesse per quel ragazzo, evidentemente; ma nel far ciò lo metteva in risalto senza intenzione. Tornai istintivamente con il pensiero al falangista malinconico che aveva danzato con lei nella piazza della chiesetta e mi immaginai per contrasto questo ragazzo come un essere spaurito, dagli occhi grandi e affamati di libertà, sul cui capo riccioluto Liselott potesse riversare una cascata di affetto materno in cambio del suo sesso immaturo.

- Lo porteremo con noi? - insisté Liselott dall'oscurità. Nessuno dei due si sentiva dell'umore adatto per accendere un lume.

- Non hai bisogno della mia approvazione - risposi. - Se ritieni sia giusto, lo porteremo.

Avevo messo una punta d'astio di troppo nel parlare, Lisa si era offesa. Lanciai un'occhiata fuori dalla finestra, verso le facciate buie delle case, sull'altro lato dalla strada. Udii Lisa che frusciava nell'oscurità, poi nessun rumore. Ancora un fruscio, il bisbiglio di qualcosa di morbido sul legno.

Accesi il lume. Liselott era in piedi accanto al letto, vestita solo dei calzini ricamati arrotolati alla caviglia e delle scarpette di vernice nera.

- Che hai? - domandò.

La luce della fiammella era terribilmente debole, ma calda e cauta sulla sua pelle setata. Disegnava ombre irriconoscibili sul corpo nudo: una striscia di ombra fra la spalla e la forma morbida del seno, una stella chiara tra i fianchi delicati, una rete di oro sulla fronte e sul collo, macchie di ombra sotto i ginocchi e lungo il profilo delle gambe.

Per la seconda volta, dopo l'occasione del nostro primo incontro, calò su di noi un istante senza tempo.

Non un suono, non un pensiero, non una dissonanza in tutta la situazione: nuovamente, Liselott aveva la funzione di catalizzatore, di fulcro dell'istante che io vivevo, del quale era parte superflua l'ambiente esterno. Per lei la prima volta era avvenuto il contrario: il catalizzatore ero stato io; ma stavolta mi accorsi che non ci fu momento perfetto per Lisa. Era stato essenziale il vederla nuda alla luce della lampada: mi ero trovato immerso in una situazione ideale, come solo Sartre ha saputo descrivere esattamente; Liselott, io, il lume, la finestra, i vestiti sul letto e sul parquet, il letto stesso non eravamo altro che attori in una recita, determinata nello spazio ma non nel tempo.

Fu questione di secondi, poi tutto svanì. Svanì quando mi alzai e mutò la forma delle luci e delle ombre sulla pelle di Lisa; cambiò la prospettiva ed il momento perfetto sfumò. Lei era rimasta in piedi davanti a me, con una espressione curiosa e divertita nelle pupille; il guardarla, così tenera e sottile, alta neppure sino al mio mento, mi fece affiorare le lacrime agli occhi. Senza una ragione arrivai a compatirla, a compatire me stesso che ero tanto simile a lei, a compatire tutta la nostra solitudine e la nostra disperazione.

- Andiamo a Madrid - dissi con voce rotta dall'emozione. - Partiamo domani, Lisa. Non possiamo restare e ammuffire a Cordoba: noi apparteniamo all'altra parte, alla Spagna che sta morendo.