E, improvviso ma piacevole, mi tornò in mente il modo in cui l'avevo conosciuta, la prima settimana del mio arrivo a Cordoba. Abituato all'atmosfera da trincea di Madrid assediata su tre lati, alla mancanza di pane e di svago, rimasi sfavorevolmente colpito dalla vitalità irresponsabile di questa parte della barricata. Mi trovavo a una fiesta danzante organizzata in piazza, dinanzi al sagrato di una chiesa; una moltitudine di falangisti, miliziani e soldati regolari si contendevano il favore delle signorine accorse al richiamo della musica, le spalle protette da scialli intrecciati a mano dalle madri che osservavano vigili dall'alto dei balconi. Mi riempiva di nausea il pensiero che mentre oltre il fronte la gente soffriva per mancanza di pane, a causa dei campi di grano caduti nelle mani dei nazionalisti, da quest'altra parte, a Cordoba, a Burgos, a Santander, a Siviglia miliziani ottusi il cui grido di battaglia era ¡Viva la muerte! si divertivano al vespro dopo aver fucilato per tutto il giorno contadini, sindacalisti e repubblicani.

Il mio disgusto crebbe quando vidi la ragazza bionda ballare con un giovane graduato che immaginavo con la canna della pistola e la punta degli stivali macchiati di sangue. La ragazza era straniera, forse tedesca o scandinava: non esistono spagnole con un simile colore di capelli. Vestiva tuttavia come una spagnola, e se il suo corpo magro non conosceva alla perfezione i passi delle danze, cercava di ovviare con l'impegno. Al mio primo incontro con Liselott la disprezzai; la detestai perché si prostituiva con un macellaio, un macho triste dalla bustina nera sulle ventitré. Invidioso, geloso ancora a livello inconscio, la guardai ballare nella folla rumorosa finché la sera calò sulla piazza e si accesero i lampioni. Lo scialle sottile che la ragazza portava sulle spalle era scivolato inesorabilmente ad ogni movimento lungo le braccia e fino in terra, ma né lei né il suo cavaliere se ne erano accorti. Cadde ai loro piedi, avvolto su se stesso, e Lisa continuando a ballare lo calpestò senza vederlo.

Mi sentii male, all'improvviso. Là in terra, sul selciato della piazza, sotto i piedi della ragazza che ballava non c'era uno scialle ma il mio volto. Sentivo le suole delle sue scarpe battermi sugli zigomi, sulla fronte; sentivo i tacchi rompermi gli occhi, graffiarmi le guance, spezzarmi il naso. Lei non se ne accorgeva e continuava a passare e ripassare sul mio viso, un-due-tre, un-due-tre senza sosta a massacrarmi il volto, a strappare i capelli, a forarmi la lingua.

Mi alzai e barcollai sino a un vicolo laterale dove l'aria fredda mi fece riprendere. Mi tastai il viso, con il fiato in sospeso per il timore di ritirare la mano imbrattata di sangue. Niente, neppure un graffio. Eppure, per pochi attimi, avevo sentito i passi della ragazza sulla pelle come se fossi stato io lo scialle, e il fascista che lo sapeva benissimo continuava a girare in modo da far ruotare la ballerina sullo stesso punto.

Quando tornai nella piazza molta gente se n'era andata; anche Lisa. La immaginai mentre camminava abbracciata al suo cavaliere e rideva tenendo in mano lo scialle impolverato e sporco di sangue.

Mi sbagliavo. Con gran sollievo, scorsi il graduato con altri colleghi; la ragazza non era con lui, se ne era andata da sola.

* * *

La rividi il giorno seguente, di mattino, sotto la porta del Perdono. Io stavo uscendo dalla foresta di colonne della Moschea araba e avevo appena attraversato il patio degli Aranci quando la ballerina della sera precedente mi venne incontro dalla direzione opposta.