Malgrado il sole, spirava sul ponte un vento gelido proveniente da nord, dalle Sierre centrali, dal fronte di Madrid. Rialzai il bavero del soprabito e affondai le mani nelle tasche. Stringendo i denti, tornai in città.
Cordoba era presidiata, trincerata, quasi assediata. L'esercito repubblicano era a poca distanza, troppo debole per attaccare durante tutta la durata della guerra. Avendo trascorso a Barcellona i primi mesi dal mio arrivo (la parola mesi è errata), poi a Madrid assediata dai falangisti, avevo deciso di passare da quest'altra parte della barricata per sapere come si vivesse nella Spagna nazionalista. Ufficialmente ero un giornalista, inviato speciale nell'anomalia temporale che aveva resuscitato dal passato una penisola iberica già morta, lanciando quella odierna chissà dove nel passato o nel futuro, o nel nulla.
Camminando soprappensiero, ero giunto sotto le finestre della pensione. Oltre i vetri Liselott mi fissava con la sua espressione indecifrabile, forse incurante, quasi certamente in attesa di qualche avvenimento che risolvesse l'inquietudine. Salii le scale sino alla mia stanza sotto gli occhi della padrona; per quella donna obesa e avvizzita io ero un essere misterioso, incomprensibile; Lisa ed io eravamo giunti dal futuro raccontando di cose assurde, di invenzioni impensabili, della fine della guerra.
Quando entrai nella stanza, Liselott era seduta sul letto e mi attendeva, sorridendo senza parlare, consumandomi con il suo sguardo inquisitore; non ce l'hai fatta, voleva dirmi. Sei andato fino al porte, ma non ce l'hai fatta ad attraversare il fronte da clandestino per cercare di raggiungere il nord, raggiungere l'Ebro per il grande passo, finalmente. Non sei riuscito neppure a gettarti nel fiume diceva ancora il suo sguardo, ma senza derisione; si trattava piuttosto di amarezza, comprensione e - perché no? - sollievo.
Tutto sommato, il tuffo nei flutti era fuori discussione: sia lei che io amavamo provocarci mentalmente in quel senso, stuzzicandoci l'uno con l'altra in cerca di una prova di coraggio per dimostrare che ciò che ci tratteneva a Cordoba o a Madrid o a Barcellona era solo curiosità e non codardia.
- Torniamo a Madrid - disse Liselott. Lo disse con tenerezza, quasi non fosse la constatazione di qualcosa di inevitabile ma un'idea tutta sua, un gingillo con il quale consolarsi della futilità di quanto le stava accadendo.
Come era diverso quel mondo da ciò che avevamo immaginato prima di attraversare i confini dell'anomalia. L'altalena aveva bloccato tutte le passioni, le lotte, la decisione degli spagnoli; la vita si trascinava, periodo dopo periodo, in uno stato di attesa che poteva benissimo durare in eterno e che andava logorando Liselott e me e quanti come noi, approfittando dell'occasione offerta dall'anomalia, erano giunti in quella Spagna scomparsa alla ricerca di qualcosa che nel nostro futuro era quasi impossibile trovare.
E Lisa chiedeva di tornare a Madrid. Nel prossimo momento di crisi che sarebbe giunto puntuale, di lì a ore o giorni, avrebbe sempre potuto ripetere che era meglio tornare a Madrid, che Madrid era più vicina all'Ebro. Come se laggiù o a Cordoba facesse differenza.
Non si aspettava una risposta e io non gliela diedi. Sedetti invece allo scrittoio estraendo dalla valigia il portatile e accantonando il blocco di fogli rigati e la penna a inchiostro, ai quali non ero più abituato.
Voltavo le spalle a Liselott; come esercizio mentale provai a ridisegnare con il pensiero i lineamenti del suo viso: gli occhi, gli zigomi gentili, i capelli chiarissimi che si aprivano sulla fronte girando intorno alle curve delicate degli orecchi fino sulla nuca, dove piegavano su se stessi e finivano stretti in un fermacapelli di cuoio, con uno stecchetto di legno. Liselott era svedese, corrispondente di un quotidiano dal nome impronunciabile, ma come nel mio caso l'attività giornalistica non era che un pretesto per la sua venuta in Spagna.
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