Quando le radici: Franco Ricciardiello
Franco Ricciardiello è noto ai lettori italiani soprattutto per i suoi romanzi apparsi nella collana Urania: Ai margini del caos (1998) e Radio Aliena Hasselblad (2002)...
Franco Ricciardiello: leggi la presentazione di Vittorio Catani
Vivid, la vida sigue,
los muertos mueren y las sombras pasan;
lleva quién deja, y vive él que ha vivido.
Yunques, sonad; enmudeced, campanas!
Antonio Machado
[Vivete, la vita continua,
i morti muoiono e le ombre passano;
prende chi lascia, e vive chi ha vissuto.
Incudini, suonate; tacete, campane!]
Mi fermai istintivamente in mezzo alla via, frugando per abitudine nelle tasche del soprabito. Quando me ne resi conto sfilai subito le mani e mi guardai intorno, sorpreso di trovarmi in quel luogo.
Senza volerlo stavo cercando, l'avevo capito, la tabacchiera d'argento lavorato. Da tre mesi, da quando cioè ero giunto in quell'inammissibile Spagna dell'autunno 1938, avevo promesso a me stesso di non toccare più tabacco. Mi guardai intorno come appena svegliato da una profonda ipnosi, da uno stato di sonnambulismo che mi aveva guidato per ore e ore nelle piazze e fra le case di Cordoba.
Mi trovavo all'angolo di due vicoli dalla larghezza appena sufficiente a lasciare passare un'automobile del mio tempo, se non fosse stato per i numerosi, bassi fusti metallici adibiti a vasi che occupavano metà marciapiede con gerani o con le foglie arcuate delle agavi; altri vasi in terracotta erano appesi a tutte le altezze lungo i muri bianchi, a fianco delle finestre protette da inferriate, ai balconcini, a lato e sotto il blasone in pietra incastonato all'angolo delle due vie, raffigurante un inquartato con lune crescenti e lame incrociate.
Il sole invernale riverberava sull'intonaco delle case a due piani, lasciando in ombra solo una striscia di marciapiede e quella parte del vicolo coperta da un ponticello che correndo all'altezza del soffitto del primo piano sosteneva gli edifici opposti e abbelliva quello scorcio di Spagna barocca e moresca. I gerani erano senza fiori, le agavi pallide; sotto l'ombra del ponticello un vecchio con larghi calzoni ruvidi, giacca grossolana e una coppola grigia rimaneva immobile a osservarmi.
Mossi alcuni passi incerti verso di lui, camminando sulla linea che divideva il marciapiede lastricato dal sottile contro del vicolo, pavimentato con ciottoli disposti a spina di pesce. Forse il vecchio non capì che ero straniero; forse furono le mie fattezze italiane a confonderlo, o forse al contrario si accorse subito che ero un pesce fuor d'acqua, un estraneo proveniente da un altro luogo e un altro tempo, nato decenni dopo quel mite pomeriggio andaluso.
Superai il vecchio; superai anche il crocefisso a grandezza naturale piantato nel cuore di una piazzetta e protetto da una bassa ringhiera metallica, oltraggiato dalle ingiurie e dalle sassate della rivoluzione e non ancora restaurato.
Non me la sentivo di tornare alla pensione da Liselott, di tornare al lavoro, di tornare all'inconcepibile irrealtà della Spagna del 1938. Camminai di buona lena sino al ponte romano sul Guadalquivir, che aveva sfidato due millenni di erosione. Il suo era stato un viaggio nel tempo usuale, provato, inevitabile: dalla sua costruzione al momento in cui ci trovavamo, la fine ottobre del 1938. Per giungere a quell'appuntamento, io avevo compiuto un viaggio temporale in direzione inversa, del tutto eccezionale, illegale e forse suicida. Non mi era occorsa alcuna macchina del tempo: era stato sufficiente attraversare la frontiera franco-spagnola in Catalogna e il 1938 mi aveva abbracciato, come previsto.
L'acqua del fiume scorreva ampia e placida sotto le arcate, oltre le rovine dei mulini arabi sul greto di sassi e fango. Sarebbe stata questione di un attimo scavalcare il parapetto del ponte, lasciarmi scivolare nell'acqua gelida, scura, profonda. Del resto, già arrivando in Spagna sentivo che non avrei mai fatto ritorno al mondo da cui venivo; cosa sarebbe accaduto di noialtri infiltrati quando l'altalena temporale fosse cessata, nessuno era in grado di prevederlo.
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