Eravamo un pomeriggio sdraiati tranquilli seminudi sulla lettopoltrona e lei giocherellava con una strana spilla dalle pietre verdi luccicanti punzecchiandomi sugli slip.
- La appunterò qui per ricordartelo. Guarda che è un'arma micidiale. Mi costa un occhio della testa. - Rideva.
E avevo sentito il foro negli slip, il ferro agghiacciante scorrere accanto al mio pene e poi lo scatto del bloccaggio.
- Dai, ci ho già pensato, e non mi va proprio!
- Allora premo una pietra, esce un veleno letale e addio...- Al solito sorriso sovrapponeva un velo malizioso capace di abbattere tutte le mie difese mentre scappava.
- Va bene! Ma smettila!
Mi ero alzato per rincorrerla in cucina dove abbiamo piluccato frutta e dolci e chiacchierato, dando per scontata oramai la scelta.
Ma io non potevo vivere sotto quell'incubo. Ci siamo rivestiti di corsa quando hanno chiesto un collegamento urgente quelli della palestra e lei è dovuta scappare.
Pioggia da non poter aprire gli occhi, battente con frustate di freddo. Fango pesante, tende e capanne sommerse da una melma rossastra. Fumo greve stenta ad alzarsi, dai radi fuochi dell'immenso campo, verso un cielo di cemento. Cani, bambini e vecchi vagano. In perenne ricerca. Tra pozzanghere di rifiuti. Tenendo qualche straccio in testa.
- Amico! Non puoi entrare! Il campo è già pieno. Cercati un altro posto!
Una faccia da contadino gonfia e fradicia da giorni di pioggia mi scruta ansiosa. Alzandosi stanco dalla sua pietra, il guardiano con in mano un nodoso bastone cerca di fermarmi.
- Cerco Blatz. Deve essere in questo campo.
- Blatz? Cosa vuoi da Blatz? - Cercava di sorridere con la sua dentiera marcia e deforme.
- Solo un saluto. Ero il suo aiutante.
- Il laboratorio è chiusa da tempo. A nessuno servivano più le sue carabattole. E' partito per i boschi di Tinia a cercare le ghiande.
- Andrò a dargli una mano.
Dietro le capanne e i mucchi di lamiera corrono fasci imponenti di fibre ottiche e cavi di potenza che scavalcano l'erba calpestata, le pozzanghere di escrementi e si infilano zigzagando tra le zampe degli sparuti animali al pascolo. Dalle valanghe di nuvole in fuga è uscito un sole violento. Le paludi esalano nuovo vapore. All'alta temperatura si aggiunge un'umidità soffocante. Al largo, nelle paludi, affiorano appena branchi di coccodrilli facendo tremolare le superfici d'argento e mercurio in scie lente e concentriche. Da ore trascino i miei stivali infangati sullo stradone che divide in due la baraccopoli da cui salgono grida, lamenti e miasmi. Sulla corona di montagne azzurrine respirano i boschi di Tinia. Il laboratorio di Blatz effettivamente era pieno di polvere e con i vetri delle vetrate basse in frantumi. Motori, protesi, sfasciume di robot accatastati, celle per le biocolture ammuffite, modelli antiquati di biocip sugli scaffali sbilenchi.
Sulle colline hanno abbattuto gli ultimi alberi per sistemare gli impianti. Escono dai cantieri le squadre esauste e subito entrano quelle pronte a far continuare senza soste il lavoro. Di notte e di giorno.
Su una lontana strada bianca che scende a precipizio dalle montagne, un gruppo di portatori che sembrano piccoli come formiche trotterella tenendo una barella tra loro.
Blatz generalmente non fa molte domande; in tasca ho grano bastante per motivarlo: dovrà costruire un robot acquatico che faccia la parte sporca del lavoro, che viaggi sotto il pelo dell'acqua, capace di aggredire all'improvviso.
Il quartetto viene correndo incontro senza guardarmi. Non portano un ferito ma un carico di vivande. Cerco di fermarli riuscendo invece solo a farli sbandare per un attimo.
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