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Cadeva a grossi fiocchi, fitta fitta, come se il cielo si fosse dimenticato che all'orizzonte premevano le soglie di marzo.
Neve alle soglie di marzo...
Umberto era infagottato nel giaccone di pelle, imbottito con carta di giornale per arginare le cariche del vento che soffiava di straforo; tra le labbra aveva il mozzicone spento di una sigaretta.
Sedeva appollaiato sulla base d'incontro dei rami di una vecchia quercia, nel bosco che sfiorava le pendici della collina di Murello.
Osservava attento i grossi fiocchi che si ammassavano l'uno sull'altro, dando forma a un manto bianco e compatto che ammorbidiva i contorni del paesaggio e candeggiava gli aghi dei pini. Intanto teneva sotto controllo i sentieri tortuosi tra gli alberi, pronto a spianare la doppietta contro il primo movimento sospetto.
Umberto aveva esperienza di quelle cose. Ogni tanto, di notte, quando il maltempo imperversava e la pioggia battente lo teneva sveglio, gli tornavano alla mente le immagini fosche di quanto gli era accaduto in quello stesso luogo; immagini distorte dal dolore e ogni volta sempre più cruente, come se fossero una dannazione che doveva portarsi appresso fino al termine dei suoi giorni.
Si erano trovati tra le frasche di pattuglia lui e Enrico Giberna, il ragazzo friulano con il viso segnato dall'acne e un gran cuore sotto il giubbotto di pelle. Erano di pattuglia una notte di luna piena, affondati con gli stivali nella neve fino alle ginocchia.
- State attenti, quelli ci vedono anche di notte - li aveva avvertiti il capitano Anchise. Ma loro avevano sogghignato, si erano dati man forte ammiccando, e coi fucili in spalla si erano avviati verso il servizio di ronda.
- Capitano - aveva detto Enrico prima di uscire dalla baracca, - lo sai come mi chiamano dalle mie parti? Il gufo. Altro che vederci di notte.
Aveva dato le spalle ad Anchise, che l'aveva scrutato scettico ma con un abbozzo di sorriso sulle labbra.
I tedeschi li colsero di sorpresa mentre si sfregavano le mani guantate, i moschetti abbandonati contro un albero. Sentirono il frastuono dei mitra e il bosco s'incendiò come a capodanno, e a loro non restò altro da fare che darsela a gambe, abbandonando i fucili nella neve.
Umberto fu fortunato. Un albero si frappose tra lui e la raffica di proiettili, mentre correva con il cuore che voleva schiantarsi.
Poi udì l'urlo, alto nella notte, e comprese che Enrico non ce l'aveva fatta. Continuò a correre, era un istinto primordiale che lo spingeva, e voltando indietro lo sguardo raccolse quelle immagini che lo perseguitano ancora nelle lunghe notti di dormiveglia.
Enrico gli correva appresso, stravolto, finché una mano con quattro dita di piombo l'afferrò trafiggendolo, e lo sollevò da terra per lanciarlo lontano. Il volto contratto dal dolore affondò nella neve, che si macchiò di scarlatto attorno al corpo sussultante. Umberto s'impresse indelebilmente nella memoria quell'ultima espressione d'angoscia, una maschera di stupore e sofferenza amalgamati con la neve.
Lui non si era fermato: non avrebbe potuto farlo. Altri proiettili lo cercarono senza convinzione, andando a mordere gli alberi e affondando con tonfi ovattati nella neve.
Poi Murello si svegliò, e i partigiani si riversarono nel bosco dall'alto della collina, respingendo la paura.
Ora, appollaiato lassù all'incrocio dei rami, Umberto sapeva che cosa doveva fare se altre ombre fossero apparse dal bosco.
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