- Oppure? - Jula mi guarda di sottecchi, con una strana piega della bocca.
Sono riuscito a spiazzarla davvero, e me ne sto già pentendo. Ma è tardi per i ripensamenti, è la mia occasione, questa volta dovrò andare fino in fondo. E così lo dico: - Oppure potremmo approfittare del campo libero, e infilarci nell'Alveare senza essere visti.
Lungo le labbra di Jula, la strana piega si trasforma in una brutta smorfia. Sta rimuginando, la sorellina, a ritmi forsennati, ma siamo già troppo oltre nel nostro gioco di guerra psicologica, ed è lei adesso a non potersi ritrarre.
Annuisce, e gli occhietti sprizzano furia, ma comunicano, di fatto, una resa. Un attimo dopo, è già allo scoperto che vola a grandi falcate sullo spiazzo, verso la costruzione. Ingoio il groppo che m'intasa la carotide, incamero aria, e balzo fuori dalla roccia cespugliata per raggiungerla.
* * *
Scopriamo la cosa appiccicosa quasi subito, in una delle prime stanze, spalmata sulla parete contro la quale abbiamo appoggiato la schiena per riprendere fiato. Jula fa per staccarsi dal muro, e filamenti di sostanza cercano di trattenerla; allora lei punta i tacchi e si libera, rovinando nello slancio verso il centro della stanza. Dai filamenti che si ritraggono, piccole scariche violacee frustano la penombra, come sottili fuochi fatui, come lingue adirate per un pasto sottratto.La imito senza perdere tempo. Punto i tacchi sul muro e mi spingo in avanti con tutte le forze. Mentre mi stacco dallo strato di sostanza seguo con la coda dell'occhio il fenomeno delle scariche che si ripete.
- Che schifezza è? - protesta Jula, fedele alla consueta baldanza. Nella voce, tuttavia, si avverte un tremito insolito.
- Cosa vuoi che ne sappia! - le rispondo. - Sarà muschio oppure qualche tipo di muffa appiccicosa... Non senti l'odore che c'è in queste stanze?
- Già! E le scariche, allora? - C'è ancora tremore nella sua voce, e il brivido che l'attraversa contagia le mie ossa.
- Oh, senti! Non lo so. Capito? Non lo so... Vuoi andare avanti o cosa?
- Tu cosa pensi di fare? - Nella semioscurità che le nasconde il viso, due tondi bianchi occupano una porzione di spazio eccessiva: immagino che Jula abbia gli occhi sgranati.
- Be', se usciamo adesso rischiamo di farci scoprire da quelli là fuori.
- E allora? - I due tondi bianchi sono cresciuti ancora un pochino.
Non so nemmeno perché mi viene in mente, forse sono entrato troppo nella parte di quello coraggioso che prende le decisioni. Oppure è l'inopinato cedimento di Jula che m'inorgoglisce. - Potremmo seguire la cosa appiccicosa per vedere dove ci porta.
- E' buio - biascica Jula. - E' buio anche qui, e nelle stanze più interne non riusciremmo a vedere un bel niente.
Ha ragione, ma una soluzione c'è, e oggi le soluzioni mi vengono così, mi vengono anche troppo facilmente. Non si tratterà di una di quelle strane forme di pazzia di cui ci ha parlato qualche volta nonno Fem? - Possiamo usare un bastoncino oppure un pezzo di mattone - suggerisco. - Lo appoggiamo alla parete e seguiamo la schifezza appiccicosa. Così non dovremo nemmeno toccarla.
Il commento di mia sorella equivale a un rantolo incomprensibile, una sorta di lamento disperato. La vittoria è completa, non c'è più partita. Ma adesso?
Vado nella stanza d'entrata, dove c'è più luce, per raccattare qualcosa da appoggiare al muro, e Jula mi segue, praticamente incollata al braccio. Non lo mollerebbe nemmeno a frustarla. Purtroppo non troviamo scaglie di legno o pezzi di mattone, e così dobbiamo accontentarci di uno spezzone di fil di ferro, che tutto sommato può servire ugualmente allo scopo. Mentre, un po' titubanti, ci accingiamo a tornare nelle stanze interne, ci raggiungono le voci d'Alonzo e compagni che devono essere tornati sullo spiazzo. Incrociamo uno sguardo fugace, recuperando nel frangente la consueta capacità di scambiarci intenzioni silenziose. Il messaggio è chiaro: anche volendo, adesso non è più possibile uscire e allontanarci dall'Alveare senza essere scoperti. Nessuna alternativa, si va avanti.
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