Controlla, tastando con la mano sinistra, se la torcia elettrica è ancora al suo posto, infilata alla cintura, e con l'altra mano soppesa la spranga d'acciaio. L'operazione gli restituisce il coraggio necessario per riprendere a muoversi lungo il muro. Con lentezza, con straziante lentezza. - Su una cosa avevano ragione, i due fessi - bofonchia a denti stretti. - Un lumacone che striscia sul cemento c'è davvero, adesso, un lumacone bello grosso che farà un bel cucù al prete pazzo e alla sua bisaccia gonfia. - E' un pensiero espresso ad alta voce, una sorta d'inconscio esorcismo scagliato contro il buio che si fa man mano più impenetrabile. - Coraggio, bella - dice alla torcia elettrica, estraendola dalla cintura. - Tocca a te, e vedi di non tradirmi.

* * *

C'è una botola scoperchiata e una scala che scende, illuminata da un fascio di luce debole e tremolante. E ci sono orme di piedi nudi disegnate sulla polvere delle rampe. La testa microcefala di Kong gronda sudore, e le stille calde colano sugli occhi, percorrono le guance e raggiungono le pustole sul collo; il sale brucia nei bubboni, e lui si morde il labbro inferiore con i denti aguzzi.

Il fascio di luce riesce a illuminare soltanto pochi scalini, e Kong si sorprende a immaginare una rampa infinita che scende nelle viscere della terra, fino a raggiungere un inferno popolato da mostri bavosi. Così decide di contarli gli scalini, mentre scende, ma la cosa non dura a lungo: affonda in pensieri più torbidi, perde il conto e smette di contare.

Il fondo arriva, e la scalinata s'interrompe, molto prima di un qualsiasi inferno, in un vano naturale che si allarga nella roccia stillante infiltrazioni. Il fascio incerto della torcia si muove in alto, in basso, di lato. Saltella. E poi le inquadra: sporgenze immobili e puntute che deformano la stoffa ruvida della bisaccia. La sacca è in fondo al vano naturale, appoggiata alla roccia della parete, incustodita.

Kong, allarmato, saetta d'intorno la lancia di luce. - Dove ti sei cacciato, prete fottuto - protesta, scosso da brividi ripetuti, provocati dal sudore che si raffredda rapidamente sulla pelle. - In quale buco ti sei rintanato? - Con il movimento mulinante, il funzionamento della torcia diventa intermittente: il disco luminoso muore e si ravviva, rimuore e poi torna a ferire debolmente porzioni circolari di roccia. E alla fine, dopo un reiterato sforzo, si lascia sopraffare dal buio.

Kong batte la torcia sulla coscia, per un ultimo e vano tentativo di estrarne lume. Nel buio, l'eco metallica dell'oggetto ormai inservibile scagliato contro la parete risuona come i rintocchi di una campana funesta. E poi, spentasi l'eco, si accende l'aura, tremula e bianca, e disegna la sagoma nera di un uomo alto, magro, immobile.

Kong rotea in avanti la barra d'acciaio, come per saggiare la distanza che lo separa dall'apparizione; si curva in avanti, in posa d'attacco, e stringe con forza gli occhi, per perforare il buio e catturare, dal nero incorniciato nell'alone, qualche tratto distinguibile dell'uomo. Inutilmente. Sulla pelle, il sudore torna a farsi caldo. - Eccoti, finalmente, spettro malefico. Avvicinati, Sanpazzo, vieni a mostrarmi i tanto decantati poteri.

- ...eri ...eri... - ripropone l'eco.

Kong avanza di un mezzo passo, con il braccio sinistro largo e il destro che continua ad agitare la spranga. - Allora? Hai perso anche la favella? Voglio venirti incontro, amico santone: tu mi consegni buono buono la bisaccia e quello che c'è dentro, e io per dimostrarti riconoscenza rinuncio a spaccarti il cranio avariato. - Si fa avanti di un altro mezzo passo. - E in più, te lo giuro! dimentico questo incontro, e non spiffero a nessuno di quanto miseri siano in realtà i tuoi poteri... Sei d'accordo?... E parla, maledetto! Di' qualcosa!