Troppo vicino alla verità, si disse Ravic quando lo andarono a prendere. Erano in tre, armati di kalashnikov, con divise scure senza mostrine, a volto scoperto. Senza dire una parola lo scortarono fuori dall'albergo improvvisamente deserto e lo fecero salire su una vecchia Mercedes con targa locale. Poi partirono, dirigendosi verso l'estrema periferia di Pec.

L'alba cancellava ogni colore, faceva somigliare il paesaggio a una vecchia fotografia in bianco e nero. L'aria sapeva di pioggia, di muffa, di morte. Superarono le case demolite dai bombardamenti, le strade che si dipanavano come ferite scavate in un corpo morto, e infine raggiunsero una villa isolata, lussuosa e oscena.

Davanti all'ingresso, ben addentro al florido e ampio giardino, la Mercedes si fermò e Ravic fu fatto scendere. C'erano almeno cinque alti graduati. Riconobbe il serbo Mitrovic, l'albanese Poradeci, l'italiano Corrandi. Colonnelli che fumavano sigari e indossavano vestaglie come se fossero appena usciti da una piscina. Dall'interno della villa giungevano urla stridule. ‹ Benvenuto ‹ disse il Colonnello Corrandi.

Non era poi strano vederlo lì, insieme agli altri. Ravic si sentí pervadere da una rassegnazione assoluta: come un animale preso in trappola, senza nemmeno più la forza per dibattersi. Socchiuse le palpebre mentre il cuore pompava nel cuore rassegnazione invece di sangue e le gambe minacciavano di tradirlo.

Fishta fu condotto davanti a Ravic; doveva essere drogato: camminava lentamente, strisciando i piedi, lo sguardo fisso, vitreo e senza vita. Uno degli uomini con la divisa scura estrasse una Beretta dalla fondina e gliela puntò alla nuca. Lo sparo echeggiò sulla facciata marcescente della villa.

‹ Perché? ‹ domandò vanamente Ravic.

I militari risero fra loro. Il serbo e l'albanese. L'italiano e l'americano. Tutti. Risero come se conoscessero la barzelletta più esilarante del mondo. Risero che parevano danzare.

Da dentro la villa altre urla soffocate. Urla che erano una sconnessa babele di serbo e albanese, di dialetti e preghiere. Ravic notò che, in angolo del giardino c'era un mucchio di vestiti, strinse le palpebre. No, era una catasta di cadaveri. Bambini, si sarebbe detto. La semi oscurità gli impediva d'esserne sicuro. Ma anche lì c'erano mosche. Mosche dappertutto. Producevano un ronzio acuto e altalenante, simile alle risate dei Colonnelli.

Il serbo (oppure l'albanese? O l'italiano?) fece un cenno agli uomini in divisa, che immobilizzarono Ravic. Lui tentò di liberarsi, ma con un colpo sferrato alla nuca col calcio del mitra e una pedata dietro le ginocchia lo costrinsero ad accasciarsi davanti al Colonnello Mitrovic. Questi aveva già una siringa in mano. Ravic guardò il liquame color oro, con filamenti di tessuto più densi in sospensione, che riempiva la siringa ipodermica. Contrasse i muscoli, col solo risultato di offrire una ramificazione più marcata di vene sul braccio. E il serbo (o era l'albanese?) gli iniettò il pus, senza smettere nemmeno per un momento di sorridere.

Fu abbandonato sulla strada, dove cominciavano le case. Uno dei soldati gli mise un coltello a serramanico in tasca e sogghignò in modo laido.

Ravic chiuse gli occhi. Dietro le palpebre già poteva intravederla, l'immane cancrena che stava divorando ogni cosa, che scorreva nelle sue vene come aveva scorso nel fiume dei suoi incubi. Sopra, dal cielo livido, il rumore di un elicottero in pattugliamento andò a mescolarsi con l'eco immobile, prolungata all'infinito, delle urla e delle esplosioni che avevano riempito quel luogo fino a pochi mesi prima e che ora Ravic credeva di poter udire.