Un elicottero volava a bassa quota sorvegliando l'area intorno alla strada e il fragore dei rotori si propagava attraverso la campagna come un tuono vibrante. Il convoglio della Kfor, composto da due blindati dei Caschi Blu francesi e da un fuoristrada dei Carabinieri, procedeva lentamente sull'asfalto sconnesso. Tutti i cartelli stradali erano diventati segnali di pericolo, crivellati com'erano da fori di proiettile.
L'Appuntato Berti guidava senza aprire bocca e Ravic gli era grato per quel silenzio. Il mezzo serbo e mezzo albanese strinse le palpebre: sui suoi occhi luce e ombra si inseguivano col medesimo ritmo con cui, fuori, facevano gli alberi rachitici. Non poteva smettere di pensare al sogno perché, in mezzo alla rovina, sembrava l'unica cosa ad avere ancora un senso. Un frammento di verità che tracimava dal languore febbrile del sonno e da cui lui sfuggiva con un urlo stretto intorno al cuore. Era successo anche quella notte: aveva sognato l'Ibar, il fiume di Kosovska e Pristina, trasformarsi in una cancrena nera e vischiosa, ribollente di resti umani, e inondare la terra.
‹ Merda ‹ esclamò l'Appuntato Berti con poca voce in gola. Rallentò al pari dei blindati e guardò quel che rimaneva di un presidio della polizia serba. Le finestre erano state sfondate, il piano più alto della palazzina dato alle fiamme, ogni cosa saccheggiata o distrutta. Il sole, invece di illuminare, sgranava quella cartolina dall'inferno rendendo più nitide le ombre che la infestavano.
‹ Eccoci arrivati ‹ disse Ravic raddrizzandosi sul sedile e facendo scrocchiare le vertebre del collo. Si domandò se ci fossero dei morti e se fra essi imperversasse la cancrena. Sapeva che era una delle ultime occasioni per vedere coi propri occhi l'orrore di quei cadaveri. Il Colonnello Corrandi era già riuscito ad impedirgli di fare altre autopsie e analisi, e presto lo avrebbe rispedito in Italia. Doveva sbrigarsi a raccogliere informazioni, a mettere le mani sul film dei serbi, come lo chiamavano a Pec. Prima di tornare a casa, doveva poter capire.
Ivan Ravic, il mezzo serbo e mezzo albanese, cittadino italiano, medico specializzato in epidemiologia, Capitano dei Carabinieri, non era partito per il Kosovo per trovare ciò che aveva trovato. Sfuggire alla verità, però, non era più possibile. Era in trappola.
Le portiere furono aperte e richiuse e il loro rumore venne soffocato dal frastuono dell'elicottero. Alcuni soldati francesi avanzarono sino all'ingresso del presidio coi fucili mitragliatori pronti all'uso. Nemmeno che la cautela avesse un senso: lì non c'era più nulla da cui difendersi, tranne le mosche.
Berti si passò una mano sulla nuca per tergere l'eccesso di sudore. Gli tremavano un poco le mani. Era giovane, lui, e le sue brave illusioni di ragazzetto dabbene, ipernutrito e positivista, stavano andando in frantumi giorno dopo giorno. Naturale che fosse un po' teso. ‹ Che facciamo? ‹ domandò a Ravic.
‹ Entriamo, se ce lo permettono. ‹ Ravic rivolse lo sguardo al Tenente Boulez, aspettando che questi si ricordasse di loro e di ciò che restava di una missione scomoda che qualcuno al Comando di Pec, tra scartoffie e conferenze stampa, gli aveva assegnato senza prima interpellare i superiori.
I soldati trovarono qualcosa e uno di essi fece un cenno a Boulez. Questi si voltò verso Ravic e Berti e disse: ‹ courage, allons! ‹ Dovettero indossare maschere anti-gas e guanti di lattice. Ravic estrasse dallo zaino una reflex automatica e Boulez gli sbraitò contro: ‹ vous ne pouver pas faire de photos! ‹ e ci vollero i fogli intestati della Croce Rossa e un altro paio di documenti del Comando italiano perché si decidesse a sbuffare un sospiro sprezzante. Poi si voltò e s'incamminò verso ciò che restava del presidio.
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