E con quanto sforzo, combattendo contro l'incertezza delle mani e la vista che si appannava, quando il suo corpo reclamava qualche illusorio aiuto chimico che lui gli negava, ben sapendo quanto sarebbe stato peggio. Aveva tratto energia dalla consapevolezza di essere ancora necessario dopo tanto tempo. Per anni non aveva osato toccare gli strumenti della sua arte, temendo che le torture fisiche e morali alle quali era stato sottoposto lo avessero privato per sempre del suo talento. Ma quella donna... non poteva permettersi di deluderla. Era per via degli occhi che aveva: occhi rari, il cui sguardo rivelava la capacità di sognare.

- Vuoi che ti scriva le istruzioni per il montaggio?

- No, me ne ricorderò. - E avrò chi mi aiuta, aggiunse mentalmente.

Il sole al tramonto tagliava ombre lunghe nella porzione di paesaggio inquadrata dalla finestrella. Un angolo del porto, deserto, con una immobilità da cimitero degli elefanti, tra i capannoni e i grandi macchinari abbandonati alla ruggine. Delorenzo non aveva avvertito mai tanto intensamente lo squallore di quella vista. Dieci giorni trascorsi a ricostruire la bellezza del passato lo avevano di nuovo messo in condizioni di percepire ogni cosa più profondamente, e questo faceva male; ma era meglio il dolore, lo sapeva, all'apatia nella quale viveva da troppo tempo.

- So di non essere un gran che come amico - disse alla donna che si trovava già sulla soglia, - ma... ti rivedrò?

- No, non credo.

Delorenzo sentì tutta la stanchezza di quei dieci giorni di lavoro rovesciarglisi addosso all'improvviso, tanto che dovette appoggiarsi al tavolo.

- Devi andare via, scommetto. Lasci la città.

- Sì, è così.

Lui era certo che gli stesse mentendo. Si strofinò gli occhi doloranti e disse: - Capisco. Be', immagino che il posto nel quale stai andando sarà senz'altro migliore.

* * *

Valeria finì di sciacquare l'ultima forchetta e la ripose sullo scolapiatti, ben allineata con le altre. Dalla camera da letto le arrivava il tossichiare di zio Pino. Di lì a poco gli avrebbe portato una tazza di latte caldo, come faceva tutte le sere prima di uscire.

- E' l'ultima sera, eh? L'ultima.

Lo zio sembrava preoccupato; e lei sapeva perfettamente perché.

- Sì, ma stai tranquillo, zio. Mi hanno pagato la mensilità intera.

- Ah. Hai inserito una domanda di lavoro in circuito video?

- Domani, zio.

- E non era meglio già da oggi?

- Domani andrà bene lo stesso.

Valeria versò il latte bollente nella tazza e ci aggiunse il miele.

- Rimescolalo bene, eh? - La raccomandazione dello zio le arrivò come sempre, puntuale e monotona, al tintinnio del cucchiaino.

Con l'abituale obbedienza da robot Valeria portò la tazza allo zio, la posò sul comodino, aggiustò i cuscini, sistemò una coperta che si era un po' sfilata da sotto il materasso. Non si aspettava ringraziamenti, era una vita che non ne riceveva. Ci sarebbe stato solo un borbottio inteso come saluto prima che lei uscisse.

Valeria non gli doveva né rimorsi né rimpianti.

* * *

Aveva tempo. L'intera notte. Ma l'ansia muoveva le lancette dell' orologio troppo in fretta.

- Andrà tutto bene, noi ti diremo come fare.

Robert e tutti gli altri amici. Certo, le sarebbero stati accanto con i loro suggerimenti, l'avrebbero sostenuta, impedendole di cedere alla paura.

Valeria scese nel sotterraneo della cattedrale. L'ombra umida che un tempo aveva protetto misteri e leggende era stata rivestita di materiale isolante, cancellata dal neon. Adesso, sotto le volte di pietra c'era lo squallore disordinato di un magazzino. I cilindri rotti e quelli ancora da utilizzare erano allineati lungo una parete, esili ed evanescenti come fantasmi. Valeria scelse con cura quello che avrebbe battezzato nella luce, e lo portò di sopra. Confidava nel fatto che un cilindro in più, tra i tanti allineati nella galleria, sarebbe passato inosservato.