Finalmente udivo il caporale Crisolora dire qualcosa di più che "signorsì", "signornò" e "comandi"! Era un'occasione unica per avere qualche accenno di quel che nascondeva la sua espressione immutabile. Mi alzai, dimenticando il freddo; mi accostai a quel corpo che s'indovinava sotto le coperte.
Per un po' non disse altro; poi lo udii scandire queste parole, con un tono disperato che mi gelò il sangue: "non c'è nessuno con me, sono solo, non c'è nessun altro, dovete credermi". Seguì un borbottio incomprensibile, poi un'altra frase anche troppo nitida: "non c'entro niente con questo macello, non c'entro niente con tutto questo". Quelle parole, sussurrate nella penombra azzurrina di una camerata da un soldato avvinto da un incubo, non poteva essere altro, nel quale s'incontravano infamie senza nome, mi scossero a tal punto da farmi tendere una mano per scuoterlo e far finire quel pauroso monologo, ma di colpo lui ricominciò e la mia volontà s'arrestò e attese, per ascoltare nuovamente quella voce; non volevo perdere neanche una sillaba. Avevo paura ma volevo sapere; più avevo paura e più volevo sapere. Restai lì, in ascolto. Lui, quasi sobbalzando, disse con voce più alta: "Non mi potete chiedere questo! Io non c'entro!"
Potrei mai scrivere tutte le domande che mi feci quella notte, in piedi accanto a quella branda a castello? Che cosa gli avevano chiesto? Di che macello si trattava? Chi gli chiedeva di compiere quelle azioni che tanto gli ripugnavano? E poi, soprattutto, il suo era un incubo o gli succedeva di rivivere delle scene della sua vita, come De Angelis, il capostecca dell'8° appena congedato, che avevo udito lamentarsi nel sonno per le punizioni inflittegli da Sgueglia? Ma cosa era successo di tanto grave a quel ragazzo taciturno e schivo, da tornare a ossessionarlo in quel modo? Un delitto? Un assassinio del quale Giuseppe era stato complice o testimone? Qualcosa di peggio di un assassinio?
Il piantone notturno, con gli occhi appesantiti dal sonno e la torcia elettrica spenta in mano, entrò nella camerata senza vedermi. Udì però Giuseppe che stava ricominciando a parlare, e si voltò verso di noi. Si avvicinò guardandomi con curiosità, e lo riconobbi, era un pilota di VTC abruzzese, uno del 2°, amico di Ribicchini, un tipo di quelli che certo non ci tenevo a conoscere.
- Che cosa fai lì? - chiese.
- Sta parlando, - risposi, indicando Giuseppe, - mi ha svegliato.
- E tu sveglialo, no? - ribattè il piantone. - Che hai, paura?
E diede uno scossone alla branda. Le coperte si scostarono di colpo, lasciando apparire il volto di Giuseppe, con gli occhi sbarrati. Mi chiesi se veramente aveva dormito, tutto quel tempo. Lo vidi tirarsi su, guardarci attonito.
- Parlavi nel sonno, - dissi, come per giustificarmi.
Lui non aprì bocca. Il piantone si allontanò borbottando qualcosa sui rospi che dovevano morire tutti, e io me ne restai lì a fissare Giuseppe che fissava me, tutti e due in cerca di qualcosa da dire o da fare. Notai che era sudato, teso. Mi guardava con un certo spavento, o almeno così mi sembrava, e il mio volto non doveva essere meno agitato.
- Tutto a posto, - riuscii finalmente a dire, rimettendomi a letto. - Buonanotte.
- Buonanotte, - rispose lui, con la voce impastata.
Nonostante l'inquietudine che provavo ripresi sonno subito e sognai proprio Giuseppe. Non ricordo però di che si trattava. A quell'epoca non mi restava molto dei sogni, al mattino; d'altra parte ancora non davo loro molta importanza.
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