Per la prima volta nella mia vita avevo toccato un vero morto; quel pomeriggio vidi anche per la prima volta dei veri soldati. C'era qualcosa che li distingueva da tutti noi del "Butera", da tutti i militari che avevo visto fino ad allora e che avrei visto dopo. Noialtri eravamo travestiti da soldati; quei quattro erano soldati. Indossavano mimetiche a chiazze di varie tonalità di verde, avevano elmetti coperti da reticelle nelle quali erano impigliati rametti e foglie, le loro facce erano dipinte con strisce irregolari di verde e nero, avevano le cinture piene di caricatori, bombe a mano, strumenti che nemmeno riconoscevo, ma dall'aria comunque micidiale, imbracciavano armi corte e tozze, di metallo nerastro. Si avvicinarono con cautela, con mosse studiate e sospettose, frutto di un'esperienza evidentemente pagata cara; due di loro ci tenevano sotto tiro, gli altri due si guardavano attorno. Notai che uno aveva sulle spalle un apparecchio radio, con una lunga antenna che oscillava sopra la sua testa. Un altro impugnava una mitraglietta di quelle dei carabinieri, e non ci toglieva gli occhi di dosso. Fu lui a parlare, con voce da ventenne dal marcato accento romano:
- E' quello de prima!
Per un attimo mi sentii rincuorato, dopotutto avevo a che fare con quattro ragazzi della mia età; ma fu un attimo. Guardandoli avanzare dovetti rendermi conto che la differenza tra noi e loro ne usciva ancor più rafforzata. Noi eravamo una commedia; loro erano la realtà. Mi sono chiesto tante volte, da allora, qual era il motivo di quella differenza terribile, e alla fine mi sono risposto che solo la guerra può tramutare dei ragazzi in soldati, così come l'inferno ha trasformato in demoni gli angeli caduti. Noi uscivamo da una caserma di scoppiati, quelli erano stati forgiati nel fuoco delle battaglie. Non c'era confronto.
- Posate quei fucili! - fece un altro dei quattro, quello con la radio, forse umbro, a giudicare dall'accento. Obbedimmo senza fiatare.
- Di che reparto siete? - fece il primo che aveva parlato, facendoci cenno con la canna della mitraglietta di allontanarci dalle armi che avevamo buttato nell'erba.
- Nono corazzato "Butera", - rispondemmo io e Magni, automaticamente.
- Cazzate! - esclamò il romano. - Il "Butera" non esiste più. E poi io c'ero, all'Aquila, e a voi non v'ho mai visti!
- Perché non esiste più? - chiese Giuseppe, incongruentemente.
- Perché ci siamo ammutinati, - spiegò l'umbro. - Il comandante voleva farci fucilare, poi sono arrivati quelli di Ascoli e hanno preso la caserma. Il Comando Brigata s'è arreso, e tutti i carri se l'è presi il Fronte di Liberazione. Adesso manco esiste più la caserma, l'hanno bombardata il mese scorso...
- Fortuna che ce n'eravamo andati, sennò non c'eravamo più nemmeno noi, - commentò il romano.
- Che anno è? - chiese Giuseppe. Lo guardammo tutti come un matto, sia noi che i quattro soldati venuti dal nulla.
- Ho chiesto che anno è! - insistette lui, con calma ma non senza fermezza.
- Che anno voi che è, il millenovecentoottanta. Che non ce lo sai?
Guardai Giuseppe. Mi sentivo frastornato. Millenovecentoottanta: sei anni prima. Un altro tempo, un'altra storia. Che cosa stava succedendo? mi chiesi. Giuseppe pareva saperlo, Giuseppe aveva in mano tutto. Gli sussurrai, implorando:
- Portaci via di qui.
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