Parlando con Vittorio Catani del più recente Premio Urania si discuteva della coerenza interna dei racconti di fantascienza e me ne ero venuto fuori con l'affermazione che per me una bella immagine valeva più di una minuziosa spiegazione "scientifica"; poi. proseguendo nella chiacchierata, Vittorio mi invitava a parlarne in questa rubrica. Ora, mi pareva di avere già accennato a queste cose nell'articolo che ha inaugurato la serie, ma più tardi, riguardandolo, ho visto che il discorso di quel primo articolo era un po' diverso. Riprendiamo dunque quel genere di considerazioni e inseriamole in un discorso più vasto.
Come si sa, la fantascienza è sempre stata una parte del romanzo d'avventura e si è distaccata da esso solo dopo il 1950, quando sono apparse le prime riviste dedicate alla fantascienza americana. Quest'ultima corrispondeva ad alcune delle tante correnti del vecchio romanzo avventuroso fantastico - la "proto-fantascienza" - e in particolare al filone di Verne (le meraviglie della scienza del futuro) e a quello di Wells, in cui la scienza viene vista per le sue ripercussioni sulla società.
Esaminiamo come la fantascienza stessa si vedeva a quei tempi. Secondo i teorici degli anni 50, la caratteristica della fantascienza americana era il suo contenuto di "estrapolazione", nel senso di riconoscere da alcuni elementi una tendenza in atto e proiettarla nei suoi sviluppi futuri. Ossia era futurologia romanzata. Altri spunti critici erano il riferimento al "sense of wonder", che noi tradurremmo "la meraviglia", perché è lo stesso concetto che faceva dire "è del poeta il fin la meraviglia", e altri ancora - che fanno immediatamente pensare all'accoglienza data al Furioso dal cardinale ("Messer Lodovico, donde avete tratto tante corbellerie?") - evitavano quell'accusa facendo appello alla "volontaria sospensione dell'incredulità" di cui parlava il poeta Coleridge in una sua osservazione. La citazione completa ("Quella volontaria e momentanea sospensione dell'incredulità che costituisce la fede poetica") in genere non veniva mai data e nessuno pare avere mai approfondito le conseguenze teoriche di una simile trasposizione dalla poesia romantica a una fantascienza basata sull'estrapolazione "logica e matematica". Eppure lo stesso Coleridge diceva anche che: "La poesia non è la giusta antitesi della prosa, ma della scienza" (con un po' di tempo e di memoria nell'hd, da due affermazioni come questa si tira fuori facilmente una tesi di laurea).
In seguito la definizione più convincente è stata quella di Suvin, che individuava la fantascienza per il suo "novum", ossia l'innovazione su cui si basava tutta la storia. Questa definizione dava però l'impressione di potersi applicare solo a un numero limitato di storie di alto livello, perciò il corollario suviniano che il novum deve essere totalizzante non corrisponde al concetto comune di "fantascienza".
Da una parte si ha dunque il novum totalizzante, dall'altra la definizione ostensiva ("la fantascienza è quello che viene chiamato fantascienza"); come giungere a una definizione che copra l'intero campo?
Secondo me, pensando al novum e al suo effetto sul lettore, più che al trattamento del novum all'interno della storia. Vedo di spiegare le ragioni di questa affermazione.
Personalmente, quando sono uscito dal campo della fantascienza classica americana (la produzione delle riviste) ho notato come l'esigenza della "scientificità" sia solo di una parte della produzione e si affacci in due soli casi: la protesta di Verne contro Wells (all'incirca: "Io mi baso su calcoli per presentare profezie possibili, lui inventa") e successivamente negli editoriali della prima rivista di fantascienza, Amazing Stories. La rivista è stata molto importante nel creare l'immagine della fantascienza dei successivi decenni, ma anch'essa incontrava notevoli difficoltà a presentare il tipo di storie "scientifiche" che favoriva.
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