di
Vittorio Curtoni
Tra fragole e sangue:
una dieta per l'horror degli Anni novanta
Un originale punto di vista sugli Anni Novanta che mette in relazione le abitudini alimentari con l'evoluzione di narrativa e mass media popolari
New York. Otto dicembre 1980, 22,30: davanti al Dakota Building, il palazzo che nel 1968 Roman Polanski aveva usato come set per gli interni del suo più celebre film dell'orrore, Rosemary's Baby, Mark David Chapman uccide a colpi di pistola John Lennon. Più tardi dichiarerà di averlo assassinato nonostante lui, Lennon, lo avesse tante volte aiutato a vivere. E' l'inizio degli anni Ottanta, l'era del carrierismo rampante, degli yuppies, della materialità a ritmo serrato; e con Lennon muoiono gli anni Sessanta e Settanta. Muore l'ultimo, grande cantore popolare di utopie che vanno dal '68 europeo ai figli dei fiori californiani alla cosiddetta "generazione di Woodstock" al pacifismo più radicale (basterà citare Imagine come parametro di riscontro). Muoiono le illusioni, subentra la realtà; e arriva la fame.Il mondo occidentale, il mondo civile, avanzato, scientifico, tecnologico, dopo un paio di decenni all'insegna di un generico liberalismo che poteva anche sfociare in estremismi molto radicali (come ad esempio la cultura della droga, il culto dell'LSD, le predicazioni "acide" di Timothy Leary), prende come modello estetico e culturale prevalente il concetto di magro. Sono magre le top model più pagate; sono magri, o per lo meno snelli, i sex symbols di sesso maschile e femminile proposti da Hollywood; sono magre le tante, troppe diete che vedono la luce in libri, videocassette, cassette audio (anche se c'è chi, genialmente, adotta metodi di resistenza sotterranea: penso in particolare a quel grandissimo attore che è stato Richard Burton, e alla sua beffarda, anche se presa terribilmente sul serio, "dieta del bevitore"). Si instaura e cresce a dismisura il culto del corpo, celebrato nel moltiplicarsi di palestre, centri di aerobica, corsi dal vivo o per corrispondenza; e il cinema, mai ultimo nel rendere pubblico omaggio alle mode imperanti, esalta questi nuovi miti di iperefficienza fisiologica in capolavori di kitsch come La febbre del sabato sera, Staying Alive, Flashdance, Rambo.
La gente, però, ha fame. A livello intellettuale, emozionale e sentimentale, ha fame delle utopie che sono state uccise e sepolte con Lennon; a livello fisico, ha fame di cibo. Chi sta a dieta si strugge nel desiderio di cibi irraggiungibili (ipercalorici, ipercalorici!) e rimpiange, magari, i deliziosi secoli nei quali l'opulenza fisica era indice di opulenza economica, di potere; chi non sta a dieta è quotidianamente perseguitato dalle sgargianti immagini televisive di una magrezza surreale, irreale, angelicata, simbolo e quintessenza di tutto ciò che di più gradevole esiste. Gli americani (e in anni più recenti anche gli italiani, come si conviene a una periferia culturale, una provincia dell'impero da domare attraverso l'imposizione di usi e costumi) si ingozzano di hamburgers, hot dogs, patatine fritte e ketchup; ma sognano le longilinee forme di dive e divi eterei; e ingoiano, oltre allo smodato quantitativo di cibo, sensi di colpa che nessuna psicoanalisi collettiva riuscirà mai a guarire.
In sovrappiù, come se già questo non bastasse, ci sono le guerre, la dissoluzione di quelle che un tempo erano nazioni e oggi sono soltanto campi di battaglia fra etnie o interessi diversi, lo sfaldamento di ogni sicurezza ideologica, il vuoto pneumatico che si instaura dopo il crollo di un muro, di una cortina... Se gli anni Ottanta sono cominciati male, gli anni Novanta promettono peggio; e la fame non è diminuita.
A domande popolari, risposte popolari. La gente ha fame? Nutriamola. Forniamole, nella forma mediata della narrativa, del cinema, della televisione, quegli eccessi nutritivi che la cultura imperante non permette più. Se medici, dietologi, esperti e guru varî impongono il calo degli zuccheri nel sangue, la drastica diminuzione del colesterolo, il serrato esercizio fisico; cioè, in una parola, la rinuncia ai piaceri più immediati e gratificanti; se così è, un qualche tipo di soddisfazione surrogata diventa indispensabile. E ovviamente ci si trasferisce subito a livello mentale, perché per quanto concerne il fisico non esistono (non paiono esistere) scappatoie.
Per anni mi sono chiesto come mai la narrativa popolare, di consumo, abbia subito nell'arco di un decennio una metamorfosi tanto radicale. Come mai, ad esempio, la lunghezza media di un romanzo fantastico, horror, fantascientifico, sia aumentata fino a triplicarsi, quadruplicarsi, quintuplicarsi. Perché Stephen King esordisce con quell'eccellente libro che è Carrie, nel 1974, accontentandosi di meno di duecento pagine, e quando nel 1986 pubblica It non gli sembrano più sufficienti nemmeno le mille pagine? Perché un autore colto, raffinato, intelligente come Peter Straub si avvicina per la prima volta all'horror con quello smilzo romanzo che è Julia (1975), e da allora in poi i suoi parti letterari diventano sempre più massicci? Perché l'enfant prodige dell'horror inglese, Clive Barker, inizia pubblicando racconti e prosegue con una serie di romanzi più o meno voluminosi?
Perché esistono oggi (lo so per esperienza personale, professionale) tante persone che rifiutano il concetto stesso di racconto, di narrativa breve, e non sono disposte a investire denaro in un libro se la quantità di pagine non è sufficientemente alta?
La risposta è ovvia. Tutta questa gente ha fame, però soggiace al modello imperante del magro; e quindi non mangia, non beve, non esagera; ma avverte le carenze nutritive, le insoddisfazioni, l' insofferenza per un mondo snello sì, ma snello anche, cioè povero, di idee, di sentimenti, di utopie; e se la narrativa è uno dei molti modi possibili per riempire il buco che abbiamo nello stomaco (pardon, volevo dire nel cervello), che almeno quella sia grassa! Vivaddio, il romanzo di milletrecento pagine ti terrà impegnato per mesi; la trilogia o quadrilogia o pentalogia ti garantirà interi anni di succosa suspense, nell'attesa del nuovo volume; la telenovela dell'orrore, o di fantascienza, o del fantastico in senso lato, ti permetterà di abbuffarti. Di parole e/o di immagini, se non di cibo.
E leggere o guardare, fino a prova contraria, non ingrassano.
Gli anni Ottanta sono anche gli anni nei quali si viene delineando, a livello sociologico, la figura del serial killer: sublime creazione, in sede linguistica, della cultura USA contemporanea (sino a pochi anni fa, si parlava di mass killer, omicida o assassino di massa, e ci si riferiva principalmente alle stragi compiute in tempo di guerra). Oggi, come recita il sottotitolo italiano di quell'agghiacciante e splendido film che è Henry, stiamo assistendo a una pioggia di sangue. Psicopatici che ammazzano a catena e poi conservano in frigorifero le parti anatomiche preferite delle loro vittime per nutrirsene (di nuovo il cibo!); o, più semplicemente, psicopatici che uccidono per il puro gusto di uccidere, senza sotterranee tensioni alimentari. Questa è realtà. Ma se torniamo nell'ambito della narrativa, quale incommensurabile abisso separa l'alienazione, la follia schizofrenica del Norman Bates creato da Robert Bloch nel 1959, e poi immortalato dallo Psycho (1960) cinematografico di Alfred Hitchcock, dal Patrick Bateman di American Psycho (1991) di Bret Easton Ellis, un serial killer freddo, distante, disincantato, definito nella sua vera essenza umana dai marchi di fabbrica delle cose che usa, delle scarpe che porta, dei vestiti firmati che indossa? Bates è la patologia singola, la ricerca della madre, il nodo edipico mai risolto; Bateman è l'espressione vistosa, ai limiti del volgare, di quella società opulenta che è (o dovrebbe essere) l'America dei nostri giorni, una società per la quale la firma, la griffe, è tutto.
Chi è allora realmente, o cos'è, il serial killer della società americana contemporanea? E' il killer opulento, il magnate dell'omicidio e della tortura, l'assassino su scala industriale. Al suo confronto, il killer singolo assume le dimensioni del povero diavolo, dell'insignificante, del pezzente. Del proletario della violenza. E per quanto tutti si affannino a garantirci, giurarci, certificarci che le stratificazioni di classe non esistono più, non è vero. Se è possibile riscontrarle, in maniera così evidente e innegabile, addirittura all'interno della vituperata categoria degli omicidi, figuriamoci in altre categorie...
Proporrei, per il termine americano serial killer, una nuova traduzione. Un po' provocatoria, certo, ma utile per proseguire l'analisi sui meccanismi della fruizione dell'horror nel mondo di oggi. Normalmente, e banalmente, la traduzione adottata in Italia suona come "killer seriale" o "killer di serie"; io dico, invece, killer a puntate. Perché, guardiamoci in faccia, il vero serial killer a denominazione d'origine controllata è il Dinasty dell'omicidio, il Dallas dell'efferatezza, la soap opera della violenza. E' qualcuno che si è assunto, in proprio, il difficile compito di trasferire nella realtà le macabre puntate di cicli cinematografici come quello di Nightmare, o quello di Venerdì 13, o di tutti gli altri che si potrebbero citare. E' qualcuno che è perfettamente inserito nel contesto della realtà (a parte alcuni lievi problemi di patologia mentale, questo è ovvio), e ha capito che una storia diventa interessante solo se è lunga, protratta nel tempo, e possibilmente ripetitiva. E' l'emblema di quella serialità cinematografica, televisiva e narrativa rispuntata con prepotenza negli anni Ottanta, per ridare lustro e dignità alla gloriosa tradizione del feuilletton ottocentesco.
La nostra è una società punitiva, duramente punitiva. La caccia alle streghe è sempre aperta. Ogni minima fonte di soddisfazione personale è immediatamente trasformata in una tragedia collettiva. Ma ancora di più: dato per scontato che la società non è in grado di provvedere ai bisogni collettivi, e dato per scontato che le misure igieniche, profilattiche, eccetera, vengono regolarmente disattese; la prima cosa da fare è instaurare un clima di tensione, di paura, di horror, rispetto ai bisogni individuali.
Fumi? Ti verrà il cancro ai polmoni, e per di più regalerai il cancro anche alle inermi vittime del tuo fumo, i fumatori passivi (e nessuno fa nulla per diminuire l'inquinamento atmosferico da fabbriche, da automobili, da pesticidi, eccetera; ma il fumatore è un bersaglio individuabile con estrema facilità, e non dotato, come categoria, del potere di opporsi alla persecuzione). Mangi? Ti procurerai un eccesso di colesterolo (e nessuno sa ancora di preciso quali possano essere gli effetti del colesterolo sul corpo umano, sulle arterie, o per lo meno esistono teorie assai constrastanti). Pratichi un sesso smodato? Attenzione, dietro l'angolo si nasconde l'AIDS (anche se, al di là dell'invito al profilattico o addirittura alla castità totale, le istruzioni per l'uso del sesso sono talmente confuse da dare a chiunque un minimo di giravolta mentale).
Abbiamo, insomma, una società che invoca a gran voce i parametri della continenza, dell'astinenza, più in generale dell'assenza (non mangiare, non fumare, non bere; oserei dire non esserci, in senso heideggeriano); al tempo stesso, una società che invoca prepotentemente, con la voce squillante dei mass media, la presenza del singolo come garante del tessuto sociale. Una contraddizione in termini, questo è ovvio. E il fantastico in genere, l'horror in particolare, non sono rimasti insensibili al grido di dolore.
L'horror degli anni Ottanta è una risposta pratica, operativa, a questa angosciosa assenza predicata dalla morale (o dal moralismo, dipende dai punti di vista) sociale. La serialità delle immagini è un moltiplicarsi a dismisura della presenza, un tentativo di colmare il vuoto di desiderî inappagati: la grande abbuffata, lo si è già detto, che soddisfa il cervello senza effetti collaterali dannosi per stomaco, polmoni, e altri organi.
Per situarsi sullo stesso livello, la narrativa ha adottato due strategie. Generi di ampia diffusione come fantascienza e fantasy hanno ripreso in toto la serialità, inventandosi cicli che procedono non dico all'infinito, ma che denotano una singolare, quasi allucinante capacità di estendersi a piacere, dilatarsi dai tre ai cinque ai sette volumi per raccontare storie che spesso non posseggono il nerbo necessario per simili misure. L'horror, almeno per il momento, non sembra deciso a imboccare questa strada; ma, con suggestiva ispirazione, ha saputo serializzarsi all'interno di un singolo libro, di un'unica storia, gonfiandosi nelle centinaia e migliaia di pagine che oggi sono prassi comune. Suggerisco un esperimento: prendete uno qualunque dei romanzi di Stephen King (con le uniche eccezioni, credo, di Carrie e Shining, singolari modelli di compostezza e concisione), il più celebrato, idolatrato, e pagato profeta dell'horror dell'ultimo ventennio, e provate a fare il conto dei personaggi principali e secondari che si aggirano nelle sue pagine. Si tratta, garantisco, di cifre da capogiro; al punto che se si interrompe la lettura per qualche giorno, riprendendo in mano il libro bisogna ricominciare da capo perché non si ha la più pallida idea di chi sia chi. King (e come lui Dean Koontz, Peter Straub, Michael Straczynski, tanti altri autori) moltiplica trame e sottotrame per ottenere l'"effetto televisione", quel caleidoscopico alternarsi di incidenti, miserie o splendori umani, destini sublimi o insignificanti, e regalare al lettore pane per i suoi denti. Molto pane per il modesto investimento economico richiesto dall'acquisto di un libro.
La serialità ha poi un secondo effetto, molto utile, perfettamente in linea con le esigenze di una società che del terrorismo psicologico, del salutismo imposto a suon di arcani terrori, ha fatto prassi quotidiana: la serialità rassicura. Ci costruisce attorno un ambiente che possiamo imparare a conoscere nei minimi dettagli, e dove quindi muoverci a nostro agio; rende scontate le mosse del mostro di turno, dell'uomo nero, del babau che non ha più la sconcertante imprevedibilità delle macabre fiabe ascoltate per la prima volta nell'infanzia. Un individuo truce, spietato e ripugnante come Freddy Kruger, ad esempio, l'eroe della saga cinematografica di Nightmare, è ormai diventato uno stereotipo a livello di pupazzo, di cartone animato; l'amico e l'eroe di tanti ragazzi in tutto il mondo, anche se proprio di ragazzi si nutre la sua furia vendicatrice... In questa ottica, anche il travolgente successo editoriale di serie a fumetti come quella di Dylan Dog si spiega da sé; e in questa ottica, ahimé, duole aggiungere che notevoli frange dell'horror contemporaneo hanno del tutto stravolto una delle proprie funzioni di base: se anziché inquietare, il mostro rassicura, diverte, diventa un caro amico da seguire con simpatia a ogni nuova puntata, non resta che aspettare il giorno in cui Paperino ci comunicherà brividi di sana paura...
Moralisti e predicatori di varia estrazione, in anni recenti, si sono spesso indignati, tuonando contro il dilagare del sangue, contro l'affermarsi di generi come lo splatter e il gore basati sulla più impudica esibizione di viscere e brandelli umani straziati. Pare a costoro che la sana gioventù occidentale non dovrebbe traviarsi con romanzi, film e fumetti nei quali la morte violenta costituisce il fulcro narrativo, la stessa dimensione estetica dell'opera. Gli zombi, insomma, e tutti i loro parenti di varia natura sarebbero una gravissima insidia per la fibra morale dei nostri tempi.
Costoro non hanno capito nulla. E' sfuggita loro una constatazione semplicissima, ma evidentemente difficile da digerire: l'essenza, la specificità dell'horror, come di ogni altro tipo di fiction, sta nella finzione. Il sangue che circola sugli schermi e nei libri è sangue finto, irreale, ipotetico; e chi ama degustarlo lo fa proprio perché sa che nessuna delle vittime morirà mai sul serio. E' un gioco da bambini: a cinque anni si possono chiudere gli occhi e immaginare di essere chissà dove, magari nel paese delle meraviglie di Alice, o su Marte; dai, diciamo, quattordici anni in su, si spalancano gli occhi sulle truculente invenzioni della macchina filmica e narrativa e ci si tuffa in questo magma rosso in cui galleggiano corpi umani in vari stati di smembramento e putrefazione. Cosa c'è di male in questo? Nulla. E' solo una fantasia innocente. Tutti gli appassionati di horror che ho conosciuto negli anni sono le persone più miti di questo mondo, i classici individui che non farebbero del male alla classica mosca. Quale degenerazione della fibra morale? La verità, come insegnava George Orwell, è che una società anche solo vagamente repressiva ha una paura maledetta della fantasia, perché si tratta di un atto singolo, individuale, non irregimentabile, che permette la fuga in una realtà alternativa; e invece si deve restare qui, nel presente, nel reale, per essere produttivi, per fare quello che i padroni del vapore vogliono farci fare...
E il sangue del nostro horror (fittizio) quotidiano possiede due valenze simboliche delle quali i signori benpensanti vorrebbero negare l'importanza. Il sangue del grande schermo o della pagina scritta lava, nei felici istanti della nostra immersione fantastica, il sangue vero che vediamo scorrere ogni giorno, da mattina a sera, da sera a mattina, nei notiziari televisivi. L'America è stata la prima ad avere la sua pioggia di sangue reale con la guerra del Vietnam, col bombardamento di immagini che ha scosso le viscere di una nazione così grande, possente, e, a quanto si dice, libertaria; non è un caso che il revival dell'horror, e la progressiva metamorfosi verso forme sempre più splatter nel cinema, siano iniziati in quegli anni. Oggi, anche noi italiani possiamo finalmente godere di questo strazio giornaliero, grazie alle guerre civili che stanno divorando l'Africa, l'ex Unione Sovietica, l'ex Iugoslavia; e quello, ripeto, è sangue vero. Non ce ne possiamo lavare le mani. Non possiamo fare finta che sia uscito dalla fantasia di Stephen King o di Wes Craven. Lo abbiamo sulla coscienza. Il nostro inconscio collettivo ne è impregnato. E' un'ossessione che non demorde. Ma se per qualche ora, per una modesta parte della giornata, ci tuffiamo nel sangue finto, e ci crediamo, e stiamo al gioco spaventandoci sul serio, possiamo illuderci che tutto il sangue sia irreale, che queste maledette guerre e stragi e carestie siano fulgidi effetti speciali di un regista o uno scrittore particolarmente fantasiosi... La fiction rappacifica con se stessi e col mondo, assolve, cancella i sensi di colpa nati dalla nostra inerte accettazione del reale. Non sarebbe più opportuna una crociata moralistica per l'abolizione del concetto stesso di guerra, invece di una crociata per salvare i giovani dai pericoli (quali?) del gore? Nessuno se lo è mai chiesto?
In secondo luogo, come insegna l'immortale leggenda del vampiro, come recitava il titolo di un celebre racconto ottocentesco di Frances Marion Crawford, il sangue è vita; dunque è cibo. E il sangue è anche l'elemento sul quale, da sempre, si è basata la mistica trascendentale di tante religioni (non ultimo il cristianesimo, che nell'eucarestia celebra la consumazione rituale del sangue e del corpo di Cristo).
Nel buio di un locale cinematografico, o nell'intimità della casa con un buon libro dell'orrore fra le mani, davanti a immagini o storie scritte che grondano sangue e viscere, tutti noi consumiamo un colossale pasto metaforico che ci dà la forza e il coraggio per tirare avanti. Per affrontare la dieta alimentare, la castità sessuale, la rinuncia al fumo e all'alcol: tutte cose delle quali vorremmo usufruire in quantità smodate, però purtroppo non ci sono permesse, e quindi è giocoforza accontentarci del loro surrogato più facilmente accessibile. Lo splatter, il gore dannosi? Andiamo, andiamo. Signori moralisti, signori benpensanti, se ci togliete anche questa soddisfazione così magra, a così basso tasso di colesterolo e nicotina e alcol, cosa ci resta? Nulla di nulla. Beato chi ama l'horror, perché almeno qualche pasto sotto mentite spoglie se lo può permettere...
E per tornare a una domanda che ho già posto in precedenza: chi è davvero il serial killer? Ovvio: è il grande sacerdote del mondo moderno, il celebratore di riti religiosi inevitabilmente fondati sul sangue. E' lo stregone, lo sciamano, il prete, il mago; il mediatore fra la realtà terrena della dieta e la divina, irraggiungibile realtà del cibo. Forse, quando questo mondo balordo imparerà ad accettare in maniera un po' più onesta i desiderî del corpo; quando le donne magre saranno un ricordo del passato, e l'opulenza fisica sarà un tratto positivo; quando chi si mette a dieta verrà bollato come asociale; allora, forse, il sangue smetterà di trionfare sugli schermi. E i serial killer saranno solo poveri psicopatici che testimonieranno unicamente la propria malattia mentale.
E i romanzi dell'orrore, si spera, torneranno a trovare quella smagliante snellezza che troppi estrogeni mentali hanno oggi contaminato.
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