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Intervista con Paul Di Filippo
Dice di lui Piergiorgio Nicolazzini: "E' uno scrittore che ammiro tantissimo, con cui sento una naturale affinità. Per qualcuno è eccentrico, marginale (come se fossero dei limiti), ma in realtà è la sintesi incarnata della nuova sensibilità letteraria tra genere e new mainstream." Il suo nome ci era già rimasto impresso leggendo il divertentissimo racconto Il continuum di Jones su Mirrorshades; e con il Steampunk si è imposto all'attenzione di tutti. E' un autore giovane, e sentiremo parlare di lui sempre più spesso.
Delos: A proposito di Steampunk, uno dei primi titoli che vengono in mente è sicuramente il tuo Steampunk trilogy. Puoi raccontarci un po' come è nato questo libro?Paul Di Filippo Per diversi anni ho letto con molto piacere i romanzi steampunk di James Blaylock e di Tim Powers, così ho deciso di provare io stesso a cimentarmi in questo curioso sottogenere della fantascienza. Anche perché ho sempre amato le diramazioni vecchie e polverose della storia e della scienza. Due dei tre racconti sono stati prima pubblicati su rivista, e successivamente raccolti insieme al terzo, l'inedito, Hottentots, per comporre un'improbabile trilogia in volume unico. Non ho provato rimorso ad appropriarmi della parola "steampunk" (coniata, tra parentesi, da K.W. Jeter) per il titolo del libro, perché so che se non l'avessi fatto io l'avrebbe fatto qualcun altro! A quanto ne so, è stata la prima volta che la parola "steampunk" è apparsa nel titolo di un libro.
Delos: Secondo te, come mai l'epoca vittoriana riesce ad essere così affascinante? Forse è perché ci si possono vedere le radici della nostra società industriale, o i primi passi della tecnologia attuale, o cos'altro?
Paul Di Filippo Davvero molto della nostra cultura attuale deriva direttamente dall'epoca di Vittoria e di Edoardo: tendenze e idee artistiche, dilemmi e soluzioni sociologici, l'atteggiamento verso la tecnologia, e così via. Il postmodernismo in effetti può essere visto come una riconciliazione tra gli anni "pre-moderni" dell'epoca vittoriana e i geni modernisti come Picasso, Einstein, Joyce, D.H. Lawrence e altri. La guerra titanica tra le generazioni fra il 1895 e il 1945 è finita con la nascita dei buoni a nulla di fine secolo e dei pigri allegroni come me! Ed essendo l'era vittoriana la prima a essere documentata da fotografie, essa esercita un fascino davvero unico per il ricercatore trasformato in scrittore. Ti puoi calare molto più in profondità in quel periodo.
Delos: Qual è secondo te il collegamento tra steampunk e cyberpunk? Quanto "punk" c'è davvero nello steampunk?
Paul Di Filippo Il collegamento è tenue. Forse l'unico vero cyber-steam-punk è La macchina della realtà di Gibson e Sterling. Il resto, inclusi i miei lavori, sono molto più spostati verso il fantastico. Ma si può giustificare anche chi vede un elemento "punk" in entrambi i generi: una tendenza a screditare l'autorità, una speranza nichilista, il plasmarsi di stili personali in contrasto con l'offerta standardizzata, e così via.
Delos: Quali altri libri steampunk ti sono piaciuti?
Paul Di Filippo Oltre a quelli già citati, recentemente mi sono piaciuti molto American Goliath di Harvey Jacobs, un finto resoconto di un famoso scandalo americano dell'Ottocento, noto come lo Scherzo Gigante di Cardiff. Jacobs si sintonizza sulle radici della pubblicità e della cultura delle celebrità, e le fa venire alla luce in modo graffiante. Un gran libro.
Delos: So che sei un estimatore di Thomas Pynchon. Consiglieresti la sua lettura agli appassionati di fantascienza?
Paul Di Filippo Thomas Pynchon ha una chiara sensibilità fantascientifica che traspare da tutte le sue opere. Ha a che fare con la vasta rete di sistemi interconnessi sotto i quali noi cerchiamo di vivere le nostre piccole vite, e questo è uno dei temi principali della fantascienza. Scrive passaggi realistici davvero belli e convincenti, ma non ha paura degli elementi surreali o fantastici della realtà. E il suo grande senso dell'humor e della tragedia è qualcosa che troppo spesso manca in questo genere. Chiunque ami la fantascienza dovrebbe leggere, almeno, The Crying of Lot 49.
Delos: Una domanda a bruciapelo. Cosa pensi della fantascienza attuale?
Paul Di Filippo A dispetto di alcune tendenze allarmanti, come la proliferazione di robaccia legata al cinema e ai telefilm, trovo che il campo sia abbastanza in salute, e trabocca di buoni libri. Recensendo libri per varie pubblicazioni, inclusa la Asimov's Magazine, ho notato che ogni anno viene pubblicato più buon materiale di quanto io potrei leggerne. Trovare i buoni titoli in mezzo a tutta quella spazzatura è difficile per il lettore medio, però, il che sembra indicare che l'importanza dei recensori e dei critici dovrebbe crescere, anche in quest'epoca in cui internet ha teoricamente livellato tutte le opinioni ina piattezza confusa e omogenea. Sono curioso di vedere se la fantascienza continuerà a sviluppare nuove strategie narrative e nuove metafore per adeguarsi al cambiamento dell'atteggiamento verso il futuro. Questa è la sfida più grande.
Delos: Sebbene molti in Italia amino la tua narrativa, non è stato pubblicato gran che: solo la trilogia Steampunk e qualche racconto. Quali altri libri ci consigli di chiedere ai nostri editori?
Paul Di Filippo Ora ho un agente per l'Italia e l'Europa, Piergiorgio Nicolazzini, che è anche editor per la Casa Editrice Nord. Lui sta cercando di vendere gli altri miei libri che non sono stati ancora tradotti. Se qualche editore è interessato, può contattarlo via email: snark@tin.it. Il mio primo romanzo, Ciphers, è un libro che mi piacerebbe vedere tradotto in Italiano, ma potrebbe essere scritto in modo troppo gergale ed essere troppo difficile da tradurre. Be', buona fortuna a chiunque voglia raccogliere questa sfida!
Biografia in barattolo
Nel 1972, a diciassette anni, mi ero appena diplomato al liceo dove avevo scoperto di avere un certo talento nello scrivere pezzi umoristici. Scrivevo per il giornalino della scuola, pezzi di stile Yippie, cosa che quasi mi fece espellere, quando il preside mi accusò del "crimine" di aver aiutato a distribuire una rivista underground prodotta con un ciclostile rubato da una scuola elementare (cosa di cui io non ero al corrente). Fu allora che decisi di diventare scrittore.
Questi fatti accadevano a Lincoln, Rhode Island, un paese semi rurale dove ho vissuto per trent'anni. Rhode Island è lo stato dove sono nato.
Ho letto fantascienza sin dal 1965, e tutti i generi di libri per ragazzi assimilabili (come Tom Swift e compagnia). In qualche modo avevo capito che la fantascienza era ciò che volevo scrivere. All'epoca avevo un forte rifiuto e disprezzo per la narrativa mimetica, alla quale pensavo immaginandola come se fosse tutta qualcosa di vagamente autobiografico e quindi povero di immaginazione. Ora mi rendo conto che quella reazione era soprattutto paura di confrontarsi con molti elementi della vita quotidiana, la normale nevrosi da adolescente che alimenta gran parte del fandom. Posso in qualche modo redimermi dicendo che ora fra i miei autori preferiti ci sono maestri del genere "autobiografico" come Thomas Wolfe, Henry Miller, Robert Crumb, Harvey Pekar, Charles Bukowski e Jack Kerouac?
Cercando un posto romantico nel quale comporre il mio primo magnum opus, scelsi le hawaii: erano lontane da tutto e tropicali, e non avevi bisogno di un passaporto per andarci, e per di più la gente parlava inglese. (Avevo solo diciassette anni dopotutto, santoddio!)
Preparai la valigia: tre quarti erano libri, e un quarto vestiti. Il bagaglio a mano era una macchina per scrivere Sears -- verde, degli anni Sessanta: ce l'ho ancora -- che mi avevanoi regalato i miei indulgenti genitori.
Così partii, con i soldi che avevo guadagnato lavorando durante l'estate, sperando che bastassero fino a quando avessi trovato lavoro o fatto fortuna.
Rimasi a Honolulu per un paio di mesi.
Naturalmente non scrissi una parola, se non lettere a casa.
Mi sdraiavo sulla spiaggia, giravo in bici per l'isola, mi arrampicavo sulla Cima di diamante, e fissavo la mia macchina per scrivere, che se ne stava sul tavolo nel mio monolocale. Scoprii di non avere nulla da dire.
Be', pazienza. Era andata così. Non potevo esserne molto entusiasta, del resto con il pigro sole che filtrava attraverso le fronde delle palme, be'... ma qualcosa ancora mi diceva che un giorno sarei diventato uno scrittore.
Quando i miei risparmi finirono, usai il mio biglietto di ritorno e tornai a casa, e mi iscrissi a un college statale, nell'autunno del 1973, corso di laurea in Inglese. Cominciai a scoprire i piaceri di tutti i tipi di narrativa che avevo abiurato. Scrissi per il giornale universitario. Incontrai la donna della mia vita, Deborah Newton (nel 1976), passai al part time per prolungare la mia permanenza, e andai a vivere da solo. Poi, nel 1979, ancora senza laurea, rinunciai a tutto e con Deb me ne andai in Europa.
A quanto pare, ogni volta che cercavo di metter via denaro riuscivo a pagarmi solo un paio di mesi di vagabondaggio. Anche in Europa fu quella la durata dei nostri giri. Quando tornai, nell'autunno del 1979, mi capitò un corso federale di programmazione di computer. In un paio di mesi mi trovai bloccato nel mio primo "vero lavoro": programmatore Cobol alla RI Blue Cross, la più micidiale e tenace delle burocrazie.
Ah, già: da qualche parte lungo la strada avevo venduto una commedia "op-ed" al New York Times e una parodia alla rivista UnEarth. Ma ancora non mi consideravo uno scrittore.
Nel luglio del 1982 ero totalmente disgustato del mio lavoro e di me stesso. Due anni e mezzo di frittelle e di elaborazione di ordini mi aveva lasciato grasso e col cervello flaccido. Capii che dovevo fare un drastico cambiamento, e lasciai la RIBC. Deb si unì a me nella zona di fuoco del lavoro freelance, lasciando il suo lavoro come sarta di costumi per teatro per diventare una stilista di lavori a maglia (una carriera di successo alla quale lavora ancora).
Nei tre anni successivi -- prima a tempo pieno, poi, dopo che finirono i risparmi un'altra volta e dovetti adattarmi a una varietà di diversi impieghi, solo part-time -- produssi approssimativamente un migliaio di cartelle di narrativa, nessuna delle quali fu venduta. (Grazie a dio! Sono tutte lì a sbriciolarsi abbandonate in alcune scatole nella mia cantina. Discepoli, telefonate subito per fissare un appuntamento se vi interessano! Sono sempre sul punto di buttare via tutto).
Non idea del motivo che mi spinse a perseverare. Forse una vaga intuizione che stavo migliorando, che stavo bruciando le scorie della mia scrittura. E scommetto che era vero.
Nel 1985 vendetti, per la prima volta, Rescuing Andy a Ted Klein per la rivista Twilight Zone e, subito dopo, Stone lives a Ed Ferman per Fantasy & Science Fiction. Questi due editor si spartiscono tutta la responsabilità per avermi fatto entrare sulla scena. Nei sei anni precedenti qualche vendita sporadica di racconti -- ora sono più di quaranta -- mi hanno incoraggiato nei miei tentativi per insegnare a me stesso come si scrive veramente.
Nel 1995 sono diventato l'ultimo dei cyberpunk consacrati da Mirrorshades a raggiungere il traguardo della pubblicazione di un libro con la trilogia Steampunk.
Credo che sia stato Hokusai, nel libro The Old Man Gone Mad With Painting, che disse, all'età di novantanni o giù di lì, "Ho dipinto per sessant'anni, e se avessi avuto altri trent'anni, avrei continuato!"
E' proprio come mi sento io.
Ah, già: sono alto un metro e ottanta, scorpione, amo le passeggiate in campagnia, il surf e nuotare, e la pasta alla carbonara. La mia auto è una Cressida dell'82 chiamata Cressie. Il mio gruppo musicale defunto preferito sono gli Steely Dan. In un'altra vita, mi piacerebbe essere Hank Thoreau.
Bibliografia essenziale
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