Per scelta personale ho fino a oggi evitato di interessarmi all’imminente nuovo film di Steven Spielberg, La guerra dei mondi, non, come si potrebbe pensare, perché affascinato dalla - o nostalgico della - precedente versione datata 1953, ma piuttosto perché era mio desiderio scoprire, senza anticipazioni, cosa il geniale regista americano avrebbe saputo aggiungere nella sua rilettura.
Ovviamente non sarà possibile fare paragoni sostenibili in merito alla parte tecnica del film: benché avanti rispetto alla media delle produzioni della sua epoca, un periodo in cui la fantascienza si barcamenava nel limbo senza riuscire del tutto ad abbandonare il suo status di B movie (ci riuscirà, per comune accordo tra i critici del genere, soltanto nel 1956, con Il pianeta proibito), gli effetti speciali appaiono necessariamente raffazzonati e datati.
Può quindi meravigliare il fatto che tanto questo film quanto altre produzioni di George Pal siano state premiate proprio in questo settore e non, come sarebbe stato più logico aspettarsi, per una lettura dei classici di Herbert George Wells coraggiosamente al passo coi tempi della guerra fredda.
Va aggiunto che nelle molte trasposizioni cinematografiche basate sulle opere del celebre scrittore inglese mancavano e mancano tuttora quasi del tutto i riferimenti alle implicazioni sociali e politiche: per esempio, gli oscuri Morlock di La Macchina del Tempo (in Italia, L’uomo che visse nel futuro, 1960, sempre prodotto e in questo caso diretto da George Pal e premiato con un Oscar per gli effetti visivi) non somigliano minimamente a quelli descritti nel romanzo, dove costituiscono un non velato ritratto del proletariato e specificamente dei minatori inglesi all’epoca dei primi grandi scioperi.
![Orson Welles](https://www.fantascienza.com/imgbank/halfpage/NEWS/orson.nb.jpg)
Il geniale regista era abituato a pesanti interventi sugli script anche in piena fase di realizzazione, sia che fossero suoi o che un film lo vedesse impegnato soltanto come attore (nel primo caso si ricordano i suoi contrasti con Chaplin, che ridussero il suo soggetto per Monsieur Verdoux alla semplice citazione “da un’idea di…” nei titoli di testa) ; è molto probabile che la morale del film, e soprattutto l’ intervento della Divina Provvidenza nel finale – così lontano dalle intenzioni e soprattutto dalle idee tanto del romanziere inglese quanto dell’artista americano – lo abbiano fatto allontanare dal progetto.
La scelta cadde quindi su Byron Haskin, onesto artigiano che era attivo fin dai tempi del muto ed era noto e rispettato più come creatore di effetti speciali e make-up ; è lecito presumere, dietro il suo nome, interventi sostanziali da parte del produttore, pratica abbastanza comune se si pensa che un’altra pietra miliare del cinema di fantascienza, La cosa da un altro mondo (1951), viene comunemente attribuita al produttore – in questo caso – Howard Hawks e non al misconosciuto regista ufficiale, Christian Nyby.
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In definitiva, comunque, un film affascinante ma ingenuo, figlio del maccartismo imperante e di un certo fanatismo religioso acritico che cominciava a diffondersi a macchia d’olio, oltrepassando i confini imposti fino ad allora alla figura del predicatore ambulante e ormai pronto a farsi risucchiare dai mass-media.
Al fatto che la guerra in questione sia dettata non da pura sete di potere ma dalla sopravvivenza c’è soltanto un accenno iniziale e ben poco resta delle polemiche suscitate dal romanzo (e anche dal suo meno conosciuto seguito, Edison’s conquest of Mars, scritto da Garrett P. Serviss nel 1898) del quale fu suggerita una lettura, forse un po’ forzata, delle lotte tra nativi Americani e invasori grazie al noto finale che ricorda, al di là delle implicazioni scientifiche, i quadri e le cronache del pittore americano George Catlin a proposito del genocidio della tribù Mandan (il tema verrà ripreso da Wells nel suo romanzo First Men in the Moon e nel mediocre film trattone, diretto da Nathan Juran nel 1964).
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Cosa ci sarà dietro l’improvviso e sorprendente “voltafaccia” del regista in materia di alieni (anche se, da quel che è dato sapere, sembra di essere ancora in ambito manicheo, troppo buoni o troppo cattivi, senza equilibrio)?
Una svolta stilistica e narrativa per affascinare nuovamente i suoi estimatori (soprattutto quelli discontinui e talvolta perplessi, come nel mio caso)?
La rinuncia, speriamo definitiva e irreversibile dopo oltre trent’anni, al capolavoro di Collodi (o all’omonimo film di Walt Disney, se preferite) quale fonte primaria d’ispirazione? La fine dell’innocenza? Lo specchio delle paure americane – e non solo americane – all’alba del nuovo millennio?
O sarà forse, stando al poco che si sa della trama, l’ennesimo inno cinematografico, ruffiano, astuto e perennemente uguale a se stesso, alla ritrovata concordia familiare servito con un contorno particolarmente accattivante e rutilante?
Lo scopriremo, e ne discuteremo ancora, tra poche ore.
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