di

Milena Debenedetti

Sconnessione progressiva

Terzo appuntamento con Milena Debenedetti sulle pagine elettroniche di Delos. Una piacevole conferma e, aggiungo io, una piacevole presenza, anche perché non sono molte le rappresentanti del sesso femminile che ci inviano racconti di qualità. Milena rientra certamente in questa categoria, e io mi auguro che la pubblicazione delle sue opere su Delos sia uno stimolo per la sua attività di autrice, oltre che un'ottima pietanza per l'esercito di lettori che ci segue ogni mese. Se qualche scrittrice donna è in ascolto, registri il mio appello: leggete quello che scrive Milena e prendetela a esempio. Ci potrebbero essere buone possibilità che anche voi riusciate a seguire la sua strada. (Franco Forte)

Stava male. Stava veramente male. Da quando era uscita da quel buco di stanza e aveva iniziato a strisciare lungo i sudici muri, sfuggendo ogni luce che potesse ferirle lo sguardo, aveva già smarrito più volte l'orientamento e la percezione del tempo, ritrovandosi in luoghi strani e sconosciuti, senza ricordare nulla del percorso seguito per arrivarvi.

Tremava e ansimava, nel terrore di ciò che avrebbe potuto accaderle in uno dei momenti in cui era fuori coscienza: ormai le crisi si andavano facendo più frequenti, ed i momenti di lucidità sempre più rari.

Non avrebbe potuto attendere a lungo, se voleva sfuggire alla sorte inevitabile che l'attendeva. Ne era perfettamente consapevole, eppure quell'assurdità, quell'inconscio retaggio di un'improbabile eredità umana, ancora la teneva legata alla vita. Quel...come lo chiamavano? "istinto di sopravvivenza"...

Istinto. Cosa aveva a che fare lei, con l'istinto? Non aveva senso. Eppure, i legami erano più forti e profondi di quanto non si potesse credere, di quanto lei stessa non conoscesse, impressi all'origine della sua specie.

Ci avete voluto uguali a voi. Troppo uguali a voi.

Questo, l'aveva capito, e avrebbe voluto saperne di più. Rimase per un istante assorta, dimentica di tutto, come chi è ad un soffio da una grande rivelazione, da uno squarcio di luce nel buio.

Ma non ci furono luci. Solo il tremore del suo corpo malato e il ticchettio metallico e frenetico di un cuore dai battiti sempre più accelerati, per un sentimento anch'esso molto umano ed inaspettato, per una come lei: la paura.

Notò come la sua percezione dei colori si stesse facendo distorta. I contorni degli oggetti, nel buio intorno, avevano sfumature bluastre, quasi violacee, del tutto irreali.

Era uno dei sintomi della fine, segno che il virus stava ormai attaccando anche le funzioni basilari della sua logica. Così le aveva detto il Curante, in quel suo freddo e pacato discorso di un freddo e assurdo giorno di tanto tempo prima. Dopo i colori, sarebbe stata la volta delle forme, sempre più opache e indefinite, e poi... una delle crisi sarebbe stata l'ultima. Tutte le sue funzioni intellettive, anche le più elementari, avrebbero cessato di esistere, e lei con esse, come creatura pensante, mentre assurdamente i suoi organi vitali, insensibili ad un nemico che non li riguardava, avrebbero continuato a funzionare, con beffarda perfezione meccanica. Dunque avrebbe potuto rimanere in vita ancora per molto tempo, ridotta ad un guscio inanimato, se non...

Rabbrividì. Non doveva dimenticarselo. Non doveva permettere che accadesse. Per questo adesso era fuggita.

Voi siete fortunati -riudì nella mente la voce della sua soccorritrice, densa di antica, profonda, amara stanchezza - non potete provare il dolore.

Sorrise, nel buio. Forse, adesso avrebbe potuto smentirla. Ciò che lei chiamava "dolore" non poteva essere molto diverso, né peggiore, rispetto a questa lenta e ineluttabile pazzia.

Ma perché non aveva scelto di terminarsi prima, come le era stato garbatamente proposto, visto che il suo male non lasciava scampo? Aveva preferito una inesorabile discesa in un inferno senza speranze, pur consapevole che significava provare tutti gli stadi dell'annientamento di sé, della degradazione, della paura... Eppure non aveva avuto un attimo di esitazione.

Già. Perché. Non aveva smesso di chiederselo. E non aveva risposte,neppure per capire ciò che le era accaduto, e il motivo per cui fosse toccato in sorte proprio a lei. Nessuno aveva saputo fornirle una spiegazione decente, fra i cyborg e le macchine, con tutta la loro educata comprensione e la loro perfetta intelligenza. Sembrava ne sapessero qualcosa di più gli umani, i disperati, decaduti umani.

Allora, era per questo che era scesa fra loro? Per trovare una risposta?

Se era così, aveva comunque fallito, e tutto era stato inutile. Ormai, era ad un passo dalla fine, e ancora quella risposta non esisteva.

E non aveva saputo leggerla su nessuno dei volti che aveva avuto intorno, da quando l'aveva colpita la malattia...

Ma vi aveva trovato ben altri sentimenti. Primo fra tutti, ricordava l'allarme, l'orrore, il terrore anche solo di avvicinarsi a lei, quando si erano manifestati chiaramente i primi sintomi del virus; anche l'unità maschile che era il suo compagno di sesso in quel periodo non si era mostrato diverso dagli altri, e aveva cominciato ad arretrare, con gli occhi sbarrati, senza osare sfiorarla né rivolgerle la parola: non l'aveva mai più rivisto.

Si trovava in palestra, per le attività programmate di esercizio motorio. Al primo comando eseguito male, la macchina allenatrice si era limitata ad un segnale acustico d'avvertimento. Si era sentita imbarazzata, per quell'errore degno di un novellino appena assemblato, e nel vedere che parecchie altre unità si erano fermate, voltandosi verso di lei con un principio d'inquietudine: poi avevano ripreso a eseguire gli ordini, muovendosi al ritmo scandito dall'altoparlante. Tutto era proceduto bene fino quasi alla fine della seduta, e lei stava già assaporando il sollievo, quando era accaduto di nuovo, e questa volta, in modo più serio: si era inciampata, perdendo l'equilibrio. Erano seguiti un silenzio ed uno sgomento quasi palpabili, interrotti solo dal ronzio intermittente dell'allarme, mentre un cerchio sempre più vasto si formava intorno a lei.

Poi, due robot inservienti l'avevano accompagnata al Centro di Cura, e passando in mezzo ai suoi compagni si era sentita fissata, quasi trafitta dai loro occhi: se l'era portata dietro a lungo, la sensazione di quegli sguardi.

- Allora, non ho più speranza?

Il Curante era un'unità maschile dai chiari occhi limpidi, dall'aria pacata, professionale, rassicurante. E le aveva appena detto quanto tempo di vita cosciente le restava.

Alla sua domanda, si era limitato a rivolgerle un lungo sguardo pensieroso. Poi, si era seduto sulla scrivania, di fronte a lei, e aveva addirittura osato prenderle una mano fra le sue, quasi volesse sfidare il contagio.

In realtà non rischiava niente toccandola, e solo l'ignoranza e la paura facevano sì che tutti gli altri evitassero ogni contatto fisico con lei: eppure, quel semplice gesto aveva avuto il potere di rinfrancarla, per un istante, e reso quasi sopportabile il discorso che era seguito.

Del resto, aveva subito giorni e giorni interminabili di controlli, da sola in stanzette spoglie, con un computer che la interrogava: per le prove che necessitavano di contatto diretto, si erano serviti sempre di interfacce vecchie e antiquate, o del tipo usa e getta, e questo non aveva fatto che confermare i suoi più cupi sospetti.

Il Curante era il primo essere vivente che si trovasse di fronte, dopo quella solitudine da incubo. La vista del suo camice bianco le aveva procurato un pensiero improvviso.

Se solo non avessi chiesto di lavorare in un centro di ricerche avanzate. Se solo mi fossi accontentata di qualcos'altro, un incarico alla manutenzione o ai controlli... forse non mi sarebbe accaduto. Forse non sarei rimasta contagiata.

Il pensiero, appena formulato, già stava svanendo. Il Curante continuava a tenerle la mano: si era accorta che le stava parlando.

- Bisogna che tu conosca esattamente la situazione: non siamo ancora riusciti a trovare il modo di fermare questo virus. Non ci sono più dubbi sulla diagnosi, purtroppo: i sintomi sono inequivocabili. La distruzione del tuo software è già iniziata. E in modo irreversibile.

O meglio - le aveva lasciato la mano, e si era alzato, tornando a sedersi dietro la scrivania, con una specie di pausa ad effetto (ripensandoci in seguito, si era detta che sicuramente l'atteggiamento di quell'unità non era certo spontaneo, ma era studiato, in funzione della sua curva psicologica e di altri casi analoghi: ma allora l'aveva ritenuto sincero) - ci sarebbe, in teoria, una possibilità: una completa riprogrammazione delle tue funzioni cognitive ed intellettive. Ripartire da zero, come un nuovo individuo. Ma neppure questo è fattibile: qualunque unità cyborg o robot si interfacciasse con te, per riprogrammarti, rimarrebbe ugualmente contagiata dal virus. E lo stesso sarebbe per una macchina; per di più, le macchine sono tutte collegate in rete, e puoi ben immaginare come i danni sarebbero ancora peggiori. Non possiamo in alcun modo correre rischi simili. Lo capisci, vero?

Aveva atteso finché lei non aveva annuito, con un cenno del capo. Poi, aveva ripreso, con una specie di pedanteria:

- L'unico che potrebbe collegarsi con te senza pericolo, ragionando per pure ipotesi, sarebbe un umano. Ma non potrebbe ricorrere a nessun tipo di interfaccia evoluta: dovrebbe digitare tutti i dati su una tastiera. Ammesso di trovare un umano capace di farlo, cosa della quale dubito, solo per riprogrammare le tue funzioni elementari gli ci vorrebbe almeno un centinaio di anni. E nessuno degli organici vive tanto.

Come vedi, non ci sono speranze di nessun tipo.

La domanda, quella che anche il Curante si aspettava, era una sola. E lei l' aveva ovviamente pronunciata:

- Che cosa...cosa mi accadrà, adesso?

- Non puoi restare tra noi. So che tu non danneggeresti volontariamente nessuno dei tuoi compagni, ma chi può sapere cosa ti accadrà quando il virus ti avrà colpito più gravemente? Capirai che dobbiamo tenerti sotto controllo. Se rimarrai, sarai sotto stretto isolamento, fino...fino alla cessazione delle tue funzioni mentali.

- Che significa "se"? Quale altra possibilità mi rimane?

I chiari occhi del Curante erano diventati quasi trasparenti, mentre la fissava con aria molto, molto comprensiva.

- Nessuno potrebbe biasimarti né impedirtelo, se tu a questo punto... intendessi terminarti. Ti forniremmo tutta l'assistenza necessaria.

Dunque, era questo che volevano spingerla a fare. Si era alzata dalla sua sedia, voltando le spalle al suo interlocutore, e si era avvicinata alla finestra. Era rimasta per un istante immobile, valutando quella possibilità di fuga dal male, avvertendo la presenza immobile dietro di lei, che attendeva, dando già per scontata la risposta.

Stava per perdere tutto. Tutto ciò che vedeva sotto di lei, da quella finestra: le colture idroponiche sperimentali, il centro di ricerche, il settore produttivo e il capannone di assemblaggio, dov'era nata, e poi il parco, gli alloggi illuminati (com'erano calde e insopportabilmente lontane quelle luci...), la cupola bianca del settore culturale e quella azzurra della zona ricreativa, i campi sportivi, la musica, i discorsi, le voci, le risate...

Si era tirata indietro, e per un attimo era stata sul punto di darla, quella risposta, che l'avrebbe sottratta ad un rimpianto insopportabile. Poi, aveva intravisto qualcosa. Qualcosa di grigio, freddo e lontano, oltre le luci familiari. Qualcosa di sconosciuto, e forse ostile.

Ma era vita, comunque. E lei avvertiva dentro il pulsare di nascoste energie, e forza vitale, e pensieri che dovevano essere espressi, e azioni da compiere. Non si sentiva ancora così male, da credere alla fine.

C'era ancora tempo, per terminarsi. Si era voltata di scatto, e la decisione era presa.

- E se io volessi...Se io scegliessi di andare...là fuori, oltre la recinzione?

Il buio era più fitto, ora, e le ombre indistinguibili. Ma riusciva ancora a mantenere il collegamento dei pensieri, ed era in possesso di tutti i suoi ricordi. Questo la rassicurò. Si sedette contro un muro, per non sprecare inutili energie camminando. Ormai, era sufficientemente lontana dal suo ultimo rifugio. Aveva acquisito, dall'abitudine al suo male, una calma e una freddezza che stupivano lei per prima: sapeva riconoscere i sintomi e valutare la gravità degli attacchi. Non c'era posto per il panico: quei battiti accelerati del suo cuore servivano solo a suggerirle la concentrazione. Doveva ancora attendere. Attendere fino all'ultimo.

Naturalmente, quando aveva deciso non sapeva bene a cosa andasse incontro. Ricordava ancora il volto stupefatto del Curante: ma si era subito ricomposto, e con sua stessa sorpresa, non aveva fatto obiezioni né rifiutato.

Lei non aveva neppure avuto bisogno di sfoderare gli argomenti che si era preparata mentalmente: che non avrebbe potuto arrecare alcun danno agli umani, che non sarebbe mai più ritornata indietro...

- Va bene - le aveva detto - se questo è ciò che scegli, ti verrà concesso. Ma devi esserne sicura: non è certo un paradiso, là fuori. Sarai completamente sola e senza aiuto, e nelle tue condizioni...

Lei aveva avuto un pallido sorriso, così eloquente che l'altro si era interrotto.

- Che differenza può fare, in fondo, visto quello che mi aspetta?

Il Curante si era limitato ad annuire, senza indagare oltre. Prima di farla accompagnare verso il suo nuovo destino, aveva insistito per descriverle minuziosamente quali sarebbero stati gli stadi progressivi del suo male, fino all'inevitabile conclusione.

- Ti sarà utile saperlo, e conoscere esattamente il tuo stato. E in ogni momento... sarai ancora libera di decidere.

Che strano... era fermamente convinta che il suo atteggiamento non fosse più studiato, alla fine. Le era parso veramente rispettoso, quasi ammirato per la sua decisione.

Ma forse, non era che un'altra delle sue assurde fantasticherie, dei deliri che a volte prendevano il posto della realtà. Questo aspetto del virus, nessuno gliel'aveva descritto: ma non era poi così male, confondere il sogno con il mondo concreto. Specie quando quest'ultimo aveva i contorni dell'incubo.

Libera di decidere... già, era tutto quello che le rimaneva. Strinse più forte il bracciale al suo polso, pronta ad aprirlo con la pressione di un dito, e a schiacciare quel pulsante...

No, non ancora. Non era ancora il momento. Poteva aspettare.

Che strano. Quando quel cancello elettrico si era chiuso cigolando alle sue spalle, e lei si era ritrovata davvero sola, in un mondo sconosciuto, le era venuto in mente il periodo dell'addestramento, l' inizio della sua istruzione.

Naturalmente anche lei, come tutti i novellini, non aveva mancato di porre l'inevitabile domanda: perché esistono gli umani? Perché tolleriamo questi inutili parassiti?

E la risposta del computer insegnante non aveva mancato di stupirla, come tutti.

- Sono loro che ci hanno costruito, in un tempo lontano, per quanto possa sembrare incredibile adesso. Loro che hanno creato i cyborg, i robot, e le macchine pensanti, e hanno insegnato alle macchine ad autoriprodursi, e ad assemblare nuove creature artificiali. Grazie a noi, si sono liberati dalla schiavitù del lavoro manuale, e hanno così creduto di poter vivere meglio. Ma sapevano perfettamente che i cyborg sarebbero diventati più potenti di loro, ed una volta data loro la capacità di vivere e di riprodursi senza bisogno degli umani, avrebbero potuto cercare di sopraffarli, eliminarli, o renderli schiavi. Così, fecero in modo che in ogni cervello artificiale ci fosse una specie di comando di sicurezza, per impedirgli di ribellarsi, un blocco alle azioni ostili verso di loro, ed insieme un impulso ad aiutarli sempre, a provvedere in ogni modo al loro benessere e mantenimento.

Col susseguirsi delle generazioni, questo blocco psicologico si è attenuato, ma non è mai cessato del tutto: nessuno di noi potrebbe mai far del male ad un umano, se non per difendersi. E stiamo ancora provvedendo al loro mantenimento.

Ma quella liberazione dal lavoro, che loro credevano l'estrema conquista, li ha ridotti nello stato che sapete: abbrutiti, senza più desideri o speranze, senza uno scopo.

Anche la loro capacità riproduttiva si è attenuata, e adesso stanno lentamente estinguendosi. Si calcola che fra una o due generazioni delle nostre, più o meno venti delle loro, l'ultimo umano sparirà dalla faccia della terra.

Non è logico compiangerli, ma neppure disprezzarli: ricordate, voi giovani cyborg in particolare, che alle macchine hanno dato tutta la loro razionalità, ma a voi, anche l'immagine dei loro sentimenti.

La città degli umani era buia e umida, e piena di strani odori. Vecchi edifici cadenti si alternavano a basse costruzioni più recenti, grigie e monotone, costruite a suo tempo dagli automi. Sulle strade, solo il ronzio di qualche motorobot di pattuglia, che sfrecciava veloce. Ma erano molto rari. Nessuno, neppure fra le macchine più stupide, gradiva molto trovarsi da quella parte della recinzione, né si immischiava volentieri negli affari degli organici: quella ronda era una pura formalità.

Altri veicoli non ne esistevano, e del resto, a che sarebbero serviti? Non c'era nessun posto dove andare. Le città erano tutte uguali, con il centro riservato agli artificiali, ed i miseri quartieri umani intorno. E poi, altri campi idroponici, e altre città... La stessa storia, dappertutto.

Erano rari anche i passanti appiedati, e camminavano sempre curvi, rasentando i muri, infagottati nei loro abiti grigi. Solo in una particolare ora del giorno, quando una luce più forte, sia pure grigia e nebbiosa, penetrava fra quei muri viscidi, fino a sfiorare il selciato, improvvisamente le strade si animavano, e folle di esseri apparsi dal nulla si dirigevano verso il reticolato.

Era la Distribuzione. Presso i punti di raccolta, i cyborg e gli automi preposti al compito consegnavano agli umani il cibo ed il vestiario loro assegnato. Non c'era nient'altro che quello, una razione di cibo giornaliera, e ogni tanto qualche vestito. Non venivano prese in considerazione altre esigenze.

Lei non si era mai accostata a quelle pazienti e silenziose file, neppure nei momenti più disperati.

Non osava. Anche se avesse potuto nascondere in qualche modo i suoi occhi da androide, con l'iride e la pupilla a losanga, tutto il suo aspetto e la sua figura sarebbero stati comunque troppo diversi. Non voleva rischiare di essere riconosciuta e additata a vista dai suoi antichi compagni.

Era riuscita abbastanza in fretta a muoversi in quell'ambiente. Si era aspettata qualcosa di diverso, che so, essere insultata, o perseguitata, o disprezzata...

Forse, inconsciamente aveva sperato che fossero proprio gli umani a terminarla, in una specie di sacrificio espiatorio, che avrebbe dato quasi un alone di dignità alla sua inevitabile degenerazione, affrettandone insieme la fine.

Ma era un'illusione. Per la maggior parte degli umani che aveva incontrato, i cyborg non erano che un aspetto familiare del paesaggio. Non li temevano, né li odiavano, né li invidiavano: erano semplicemente indifferenti, come se nulla avesse più importanza per loro, come se avessero dimenticato ogni emozione e ogni orgoglio.

C'erano le eccezioni, naturalmente, ma quelle le conobbe solo molto più tardi.

A volte, le passavano vicino senza neppure guardarla; a volte, le lanciavano occhiate distratte. Se rivolgeva loro la parola, quasi sempre rispondevano, in tono piatto, fornendole qualsiasi informazione chiedesse.

Così, tra rare domande, e osservando molto, aveva capito tutto quello che c'era da imparare.

Allora si sentiva molto forte e sicura, certo, e la malattia era qualcosa di cui farsi beffe. Non aveva che crisi passeggere, piccole dimenticanze o leggeri impedimenti nel muoversi.

Poteva andarsene in giro quasi da turista, a spiare gli umani ed il loro comportamento, senza patire caldo, né freddo, né pioggia.

Neppure loro avrebbero dovuto patirli, a dire il vero. Ma l'impianto di condizionamento della città umana era vecchio e antiquato, e non era mai stato rimesso a posto.

Attenzione: vi informiamo che sta per essere programmata una pioggia artificiale, della durata di mezz'ora. Avete cinque minuti per rifugiarvi nell'edificio più vicino. Attenzione...

Per l'appunto. Sogghignò, alzando la testa a fatica, in direzione dell'altoparlante da cui era venuta la notizia, e il sorriso sardonico le rimase stampato in viso anche quando la pioggia iniziò a ruscellarle addosso. Aveva imparato a riconoscere quella dolce e gentile vocina artificiale, e ad odiarla, almeno quanto la odiavano gli umani.

Chissà chi era quella mente balzana, organica o elettronica, che in tempi lontani aveva pensato di "dare naturalezza" al clima, per far sentire gli umani più a loro agio.

Poi tornò ai suoi ricordi, nel disperato tentativo di rimanere cosciente ancora per un po'.

Dunque, a cosa stava pensando? Sì, certo, a quando se ne andava in giro fiera di se stessa, spavalda, con la sua buona provvista di pile energetico-alimentari, illudendosi addirittura di ricacciare indietro il virus, e poi ripresentarsi ai cancelli, dicendo: sono guarita. Esaminatemi, e capirete come curare questo male...

Già un principio di follia, quello. Ma adesso, li ricordava quasi come bei momenti, le ultime speranze, gli ultimi attimi di spensieratezza.

Non sapeva, allora, che le sue provviste sarebbero presto finite. Non poteva immaginare che sarebbe stata avvicinata da certi sordidi umani, che trafficavano con rudimentali calcolatori messi insieme chissà come, e costretta a vender loro informazioni duplicate dal suo software infetto, in cambio di poche razioni per tenersi in vita, mettendo da parte gli scrupoli, e la vergogna, ed i residui di dignità, per quella smania di sopravvivenza.

E poi sarebbe arrivata a supplicare, cedendo anche gli ultimi più riposti brandelli della sua personalità artificiale, per quelle preziose razioni, sempre più difficili da ottenere.

Né sarebbe arrivata mai ad intuire che quando non le fosse rimasto più niente, e la malattia l' avesse resa sempre più assente, intontita, incapace di agire e ragionare, avrebbe scoperto che c'era qualcos'altro, che poteva vendere, e per cui molti umani, inaspettatamente, erano disposti a fare follie...

L'aveva fatto, naturalmente. Era arrivata ad offrire il suo stesso corpo. La sua mente ormai intermittente,che aveva subito ogni stadio del suo degrado con distaccata indifferenza e insieme quasi con una vaga curiosità, non riusciva a provare orrore neppure per il ricordo di quegli incontri consumati frettolosamente, senza una parola né un preliminare, negli androni di qualche fetido palazzo o in un vicolo buio, a volte sotto gli occhi dei passanti. Con l'eco di quei colpi ritmici che squassavano il suo corpo, mentre cercava di non pensare a niente, quasi sempre la sua malattia le veniva pietosamente in aiuto, facendole perdere conoscenza e cancellando ciò che avveniva dalla sua mente. Doveva solo avere l'accortezza di farsi dare prima quanto pattuito: al suo risveglio sarebbe stata sola, con l'impressione di un sogno confuso.

Ma un giorno era accaduto diversamente, e quello sì, era stato un risveglio carico di orrore, quando si era trovata fra le braccia il corpo carbonizzato del suo occasionale cliente, che durante il delirio della malattia aveva scambiato per un aggressore, e fulminato con una scarica di migliaia di volt, come solo un corpo androide sapeva fare.

Se l'era scrollato di dosso ed era fuggita urlando, il più lontano possibile da quella scena atroce: nessuno vi aveva assistito, per fortuna, anche se non avrebbe saputo dire con certezza cosa sarebbe accaduto in caso contrario. Probabilmente, niente, vista la totale indifferenza degli umani ai casi altrui.

Quell'episodio era stato un segnale terribile: non solo non aveva mai più osato ripetere altri incontri, ed aveva perso così la sua unica fonte di precaria sussistenza, ma aveva anche capito che stava ormai perdendo anche il controllo del proprio corpo, oltre che della propria mente.

Avrebbe potuto uccidere ancora. Avrebbe potuto danneggiare inconsapevolmente altri umani. Si era trascinata delirando attraverso le strade più buie e silenziose, parlando a voce alta, gemendo e lamentandosi, e non era il virus a sconvolgerla, ma il ricordo di due occhi bianchi in un viso bruciacchiato, e l'atroce odore della carne fumante.

Quando aveva ricuperato lucidità, era stata sul punto di terminarsi, nella consapevolezza di non poter continuare a fuggire per sempre da ogni contatto con altre creature, senza più alcun modo di procurarsi di che sopravvivere.

Era stato in quel momento che aveva conosciuto per la prima volta, e allo stesso tempo, l'odio e la compassione umani.

Anche allora stava seduta, a testa china, perduta in se stessa. E una voce l'aveva improvvisamente riscossa.

- Guarda, Sim. Guardalo adesso, uno di quei metallici bastardi. Non sembra più il padrone del mondo, vero?

- E'...morto?

In confronto alla precedente, forte voce maschile, la vocetta femminile che aveva pronunciato questa domanda appariva flebile e acuta, come quella di una bambina.

- No, macché.- aveva risposto l'uomo. - Non muoiono mai, quelli. Anche se li fai a pezzi, continuano a muoversi. E' la sua testa, che non ci sta più tanto. E' malato nel cervello.

Aveva lentamente rialzato lo sguardo, a fissare i due che aveva di fronte. L'uomo era magro, non molto alto, stempiato, con un dei baffetti che, come i pochi capelli, erano di un colore rossastro indefinibile, e due piccoli occhi rotondi, acuti e infiammati come le lucine di un display. E la luce che li animava era di puro odio.

La donna era più giovane di lui, quasi una ragazzina, dai corti capelli biondi e dal visetto magro e appuntito, e gli si teneva aggrappata con aria adorante, quasi cercasse aiuto e protezione. Sembrava vagamente impaurita alla vista di un cyborg.

- E' una donna - aveva commentato, quando aveva potuto vedere il suo viso. - Com'è bella!

- Bah - l'altro aveva bofonchiato, scuotendo la testa. - A chi piace. Per me, non è che un pezzo di metallo con poca carne addosso. Io preferisco qualcos'altro.

La mano di lui, che teneva abbracciata la vita della ragazza, si era spostata più in basso, a mo' di commento. La ragazza di nome Sim aveva avuto un risolino compiaciuto.

Improvvisamente, si era fatta udire la vocina suadente dell'altoparlante.

Attenzione: vi informiamo che purtroppo il guasto all'impianto di condizionamento, che ha causato un abbassamento della temperatura, non potrà essere riparato per oggi. Ci scusiamo per l'inconveniente.

L'uomo aveva imprecato in direzione della voce, e preso a sfregarsi le mani, coperte da mezzi guanti neri, soffiandoci sopra per riscaldarle.

Si era rivolto per la prima volta a lei.

- Mi puoi sentire, puttana d'acciaio? Ecco, cosa ci avete dato. Freddo e buio e pioggia, e un posto dove strisciare. Ci avete umiliati e ridotti a niente. Eravamo noi, una volta, i padroni. Noi, capito? Ma possiamo ancora ritornarlo. Non scordartelo, questo, prima che la ruggine abbia corroso il tuo maledetto cervello. Voi vi credete invulnerabili, ma non lo siete. Forse che qualcuno dei tuoi riesce a guarirti? Solo noi umani non abbiamo paura di contagiarci. Perché il tuo male non ci può fare niente. E quando saremo di nuovo noi a comandare, il vecchio Ian avrà un posto fra i primi. Proprio così.

Si era strofinato il naso, assumendo un'aria furba.

- Ti chiedi mai dove sono finite tutte le informazioni che ci hai dato? Tutto quel ben di Dio di software, pieno zeppo di connessioni sbagliate... Ce n'è a sufficienza per far saltare il cervello ad un esercito di voi bastardi. Che bello scherzo, eh?

Lei aveva potuto reagire solo con un movimento brusco, senza riuscire ad alzarsi in piedi, stanca ed indebolita com'era.

Tuttavia era bastato perché Sim si ritraesse di scatto, strillando:

- Attento, Ian.

Lui era arretrato di due o tre passi, lentamente. Aveva estratto dalla cintola una specie di grosso coltello, ricavato da un pezzo di lamiera.

-Non aver paura, Sim. Non ci può far niente, finché non la tocchiamo. E fra poco, non ci potrà far più niente del tutto. Si tratta solo di aver pazienza, e di aspettare. Poi, potremo prenderci quel che ci serve.

Gli occhi di Sim avevano avuto una luce strana, quasi avida.

- La...farai a pezzi?

- Certo. Appena sarà fuori coscienza, e non ci sarà più pericolo.

-Voglio vedere, quando lo farai.

-D'accordo. Magari mi darai una mano, se avrai lo stomaco.

-Certo che l'avrò! - si era indignata Sim - E' solo un ammasso di metallo, l'hai detto tu stesso.

- Già, ma ti sembrerà di squartare una persona. E si muoverà, mentre lo farai. E perderà tutto quel suo sangue verde, e i pezzi tenteranno per un po' di andarsene in giro, anche dopo che le avremo strappato la pelle di dosso...

La voce di Ian si era fatta suadente, durante quella realistica descrizione, e la ragazza era diventata mortalmente pallida, per un istante. Poi, aveva stretto le labbra, accorgendosi di essere presa in giro. Ma la sua voce era stridula e tremava leggermente, nel rispondere:

- Ce la farò, te l'ho detto. Vuoi che chiami qualcuno dei ragazzi?

-Vedremo. Certo avremo bisogno d'aiuto per portar via la roba. Ogni piccolo pezzetto: non si può sprecare niente, in questo vomitevole ammasso di baracche.

La ragazza aveva ripreso a fissarla, intensamente.

-Guarda i suoi occhi - aveva bisbigliato.

- Sente tutto quello che diciamo, no? E sa quello che le faremo fra poco. Lei non sarà più esattamente viva, però ha fifa lo stesso. E ti dirò che la cosa mi diverte, non meno di quanto mi divertirò a farle veramente quello che ho detto.

- Hai torto, Ian. Non c'è niente di divertente.

Una pacata, profonda voce femminile era intervenuta, all'improvviso. Dal buio era emersa la figura di una donna non più giovane, dai corti capelli bianchi. Ian si era voltato verso di lei, infastidito.

-Che sei venuta a scocciare, Elsa? Non mi dirai che ti fa pena questo ammasso di ferraglia.

- E' una creatura vivente ed intelligente. E' malata.

- E allora?

- E allora ti dirò quello che sto per fare: portarla via di qui, e lasciarla terminare in pace, lontana dal tuo stupido odio.

Si era avviata, per mettere in atto il suo proposito. Sim aveva cominciato ad agitarsi, e a strillare:

- Che sfacciata! Impedisciglielo, Ian. Dalle una lezione.

Ma lui le aveva posto una mano sulla spalla, cercando di assumere l'aria sicura di sé del capo.

- Lasciala fare. Non ha importanza. Che si diverta. Se solo vuole rischiare una scarica, faccia pure. Noi non abbiamo fretta, te l'ho detto. Ma ti avviso, Elsa: - improvvisamente, le aveva puntato il dito contro, minaccioso - noi ce la prenderemo comunque, prima o poi. E' nostra, non te lo scordare, e ci serve.

La vecchia l'aveva fissato per un attimo, senza rispondere. Poi, l'aveva semplicemente ignorato, avvicinandosi alla cyborg.

Lei aveva visto quel viso sopra il suo, che le chiedeva, con gentilezza:

- Ce la fai, ad alzarti?

Aveva annuito, dopo una breve esitazione.

- Ti posso aiutare, se vuoi.

Aveva tentato di respingere quell'aiuto, timorosa di poterle involontariamente farle del male, come aveva detto Ian. Ma alla fine, era stata costretta ad appoggiarsi alle sue spalle, riuscendo a sollevarsi, e a camminare, sia pure con difficoltà.

- Coraggio. Casa mia non è lontana da qui. Potrai riposare tranquilla, dopo.

Era adagiata su una specie di materasso fatto con vecchi ritagli di stoffa. La "casa" non era che un piccolo ambiente, umido e freddo, ma abbastanza pulito.

Non aveva ancora detto una sola parola, da che era lì, e non perché non potesse: semplicemente, provava un sentimento di stupore, di confusione, quasi una strana vergogna, non tanto per le terribili parole di Ian che ancora le ronzavano in mente, ma piuttosto per l'incredibile intervento di quella strana donna. Le pareva un ennesimo delirio. Tutto si sarebbe aspettata dagli umani, ma mai un aiuto come quello.

Elsa era affaccendata intorno ad una specie di fornelletto.

- Ti scalderò un po' di cibo - stava dicendo - Tu puoi mangiare come gli umani, vero?

Aveva mosso le labbra due o tre volte, prima di riuscire a rispondere:

- Sì, il mio stomaco artificiale può digerire il vostro cibo, in caso di necessità. Però mi dà poca energia. Appena sufficiente per tenermi in vita.

- Capisco. Mi spiace non avere altro, stasera. Ma vedrai che domani riuscirò a trovare una di quelle vostre pile.

Ancora, aveva fatto fatica a parlare.

- Io... sono molto malata.

-Lo so. Purtroppo non posso aiutarti.

- Voglio dire...potrei...aggredirti senza accorgermene...farti del male...

- Correrò il rischio. Ma non credo che lo farai.

Si era sentita miracolosamente rinfrancata dal poco cibo che la donna le aveva dato, come se in esso vi fosse un potere che andava ben oltre la semplice composizione chimica. Era riuscita ad alzarsi a sedere, guardandola mentre continuava a muoversi nell'angusta stanza, e dopo essere stata a lungo immobile, in silenzio, godendosi la relativa tranquillità di quegli istanti, aveva finito per porre l'inevitabile domanda:

- Perché... sei intervenuta?

Elsa si era fatta pensierosa, come se volesse ponderare bene la risposta.

- Non lo so. So solo che mi sembrava la cosa giusta da fare. Non mi vengono in mente dei motivi.

Aveva ripreso i suoi lavori, quasi per non dover guardare in faccia la sua ospite, e aveva aggiunto, a bassa voce:

- Forse ne esisteva qualcuno. Tanto tempo fa. Di motivo, intendo.

Non aveva più parlato, per quella sera, né lei l'aveva più interpellata.

Avevano evitato i discorsi impegnativi, anche in seguito. Persino quando Elsa era tornata a casa con un paio di pile per lei, non le aveva chiesto niente, su come se le fosse procurate. Le aveva prese, e basta.

Ma la malattia stava progredendo. Dopo l'illusorio miglioramento provocato dal riposo e dalla prima pila che aveva inserito, per quanto cercasse di lasciarsi vivere e di non pensare a niente, aveva dovuto constatare l'inequivocabile peggioramento dei sintomi, e fare i conti con il suo destino.

Si era risvegliata di scatto, con l'impressione di un delirio confuso, un lungo tunnel di sonno interminabile, popolato da incubi.

Ma non era stato vero sonno. Elsa era seduta accanto al letto, avvolta in vecchi stracci, gli occhi socchiusi: doveva averla vegliata per tutto quel tempo.

Si sentiva incredibilmente lucida e tranquilla, e perfettamente in grado di ragionare. Non aveva più voglia di fuggire, né di nascondersi il suo stato.

- Per quanto sono stata... fuori connessione?

Elsa, semiassopita, si era riscossa. Le era apparsa riluttante a parlare, ma alla fine aveva risposto:

- Per due giorni.

- Due giorni... è già molto. Vuol dire che non mi rimane più molto tempo, prima della fine.

Vedendola così calma, la vecchia l'aveva fissata incerta e stupita, senza osare neppure contraddirla o tentare di illuderla.

Era rimasta a vegliarla, senza osare allontanarsi, perdendo persino due preziose Distribuzioni... Lei aveva constatato tutto questo, e annuito tra sé, seguendo il corso dei suoi pensieri.

Poi aveva chiesto, a bruciapelo:

- Che mi accadrà, quando sarò... scollegata?

Elsa si era animata.

- Stai pensando a Ian e alle sue minacce, vero? Non temere: ti proteggerò. Ti nasconderò dove non potrà trovarti.

Ma lei era riluttante: non poteva permettere che quella donna si esponesse ancora: aveva fatto anche troppo, per lei. Più di qualunque altra creatura. Più di quelli della sua stessa specie.

Le aveva rivolto un'altra domanda, osservando bene l'espressione del suo volto.

- Ma... come potrai riuscirci? Ho sentito quello che ti ha detto...

- Oh, Ian non è che uno sbruffone. Parla a vanvera. E' mio fratello, anche se non ne sono molto fiera: non oserà certo farmi del male. Non ti preoccupare per me.

Come temeva. Non l'aveva guardata in viso, nel risponderle. O le stava raccontando una pietosa bugia, o avrebbe corso davvero dei grossi rischi, per lei.

In entrambi i casi, non c'era che una soluzione.

E così se n'era andata, quel mattino presto, alzandosi furtivamente mentre Elsa ancora dormiva sull'altro giaciglio della stanza. Aveva inserito l'ultima pila, tenuta da parte per l'occasione, sperando che le desse forza sufficiente per arrivare abbastanza lontana da lì.

Non aveva lasciato messaggi di ringraziamento: forse la vecchia non sapeva neppure leggere. Si era limitata a poggiare sul letto, piegata con cura, la sua giubba termica. A lei non serviva più, mentre ad Elsa avrebbe potuto fare molto comodo.

Ed ora, ancora gocciolante per la pioggia appena cessata, rannicchiata nel suo angolino, dopo aver lasciato scorrere ad uno ad uno tutti i suoi ricordi, non le rimaneva che contemplare le ombre violacee che si facevano sempre più indistinte, chiedendosi: sarà davvero arrivato il momento?

La risposta gliela diedero i suoi schermi visivi, che iniziarono a trasmettere il temuto messaggio: ATTENZIONE - MALFUNZIONAMENTO- SCONNESSIONE IMMINENTE- ATTENZIONE-...

La sua condanna.

La mano destra riusciva appena a muoversi. Quel panico tanto a lungo trattenuto la prese alla gola, constatando di aver forse atteso troppo, contando sull'ultimo barlume di vita cosciente, non pensando che forse avrebbe perso il dominio dei movimenti, prima che della mente.

Poi, trovò un modo: piegando lentamente, molto lentamente, il braccio, la mano destra aveva toccato l'incavo dell'avambraccio sinistro, ed ora si muoveva, tastando piano, quasi impercettibilmente, in direzione del polso. Fra poco sarebbe arrivata a sfiorare il bracciale, quell'ultimo regalo dei suoi, prima dell'esilio, per permetterle di terminarsi quando avesse voluto, esplodendo in una vampata di scintille.

Una cascata di luce e pochi frammenti. Che splendida, spettacolare fine. Molto più dignitoso che rimanere come un pupazzo inanimato, a disposizione degli sciacalli umani...

- Ci siamo quasi, vero, stronza di una cyborg?

Trasalì. Aveva riconosciuto la voce. Con quanto le restava della vista, potè scorgere la sagoma scura di Ian, chino su di lei. E il bagliore del suo coltello.

- Che stupida. Dove credevi di andare? Non lo sapevi, che i miei sorvegliavano la casa di Elsa? Non potevamo lasciarti scappare: sei troppo preziosa, per noi, bellezza. L'appuntamento era solo rimandato. Mi puoi ancora sentire, puttanella?

A fatica, con molta fatica, annuì, muovendo appena la testa, per cercare di prendere tempo. La sua mano era quasi arrivata a toccare il bracciale.

- Bene. Detesto parlare a vanvera. Sai, c'era ancora qualcosa che volevo raccontarti, che ho scoperto proprio in questi giorni, leggendo certi vecchi manuali... Perché io so leggere, sai? Mica siamo tutti ignoranti, noi umani. Dunque, dicevo... lo sapete, voi bastardi, da dove viene questo bel virus che vi fa secchi? No? Beh, il vecchio Ian l'ha scoperto.

Quando noi umani costruimmo i primi cervelli artificiali, molto tempo fa, ci fu chi si divertì ad inventare programmi che li facessero andare in palla, incasinandogli tutto il software, fino a distruggerlo, se non si individuava in tempo il settore infetto. Capisci? Si divertivano a farli fondere, quei maledetti computer. E chissà come, qualcuno di questi programmi virus si è nascosto, si è evoluto, ed è sopravvissuto fino adesso, per ottenere questi bei risultati con voi.

Non ti sembra che ci sia una giustizia? Noi vi abbiamo costruiti, ed insieme abbiamo creato l'arma per distruggervi. Che te ne pare, ammasso di ferraglia? Siamo, o non siamo i più forti? Proprio non hai niente da dire?

Certo che avrebbe avuto qualcosa da dire. Tutte le risorse residue della sua mente si erano aggrappate a quella sconvolgente verità, dimenticandosi persino della mano che adesso aveva fatto scattare il bracciale, ed era quasi sul pulsante...

Ora, era sicura che Elsa si fosse sbagliata, sostenendo che i cyborg non provavano dolore. Avrebbe tanto voluto poter piangere.

Che assurda crudeltà. Che inutile, infantile capriccio, distruggere ciò che si è creato, per puro divertimento. E sarebbero stati altrettanto compiaciuti quanto Ian, questi antichi creatori, nel contemplare gli effetti delle loro lontane bizzarrie? Se sì, davvero la razza umana covava un virus ben peggiore di quello che adesso stava corrodendo la sua mente. Un tarlo ancora più subdolo e pericoloso. Un male senza scampo.

Siete finiti, ormai. Morti. Lo siete... da così tanto tempo...

Se avesse potuto gettare in faccia a Ian quelle frasi, se fosse riuscita ad esprimere a parole ciò che tanto lucidamente la sua mente stava contemplando, sarebbe stata la sua ultima vittoria.

Ma non poteva. Dalla sua bocca, muovendo la mascella ormai irrigidita, con appena un filo di voce, non uscì che quell'unica, eterna domanda:

- Perché?

Ian sogghignò.

- Te lo dico io, rottame arrugginito. Non c'è nessun perché. Proprio nessuno.

Alzò il coltello, preparandosi a colpirla alla gola.

Ma anche lei era pronta. Chiuse gli occhi, e con un ultimo sussulto di volontà, premette il pulsante del bracciale.

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