Delos 28: Racconto: Libero come un uccello racconto di
Federico Gattini
come un uccello
Bello, divertente, scritto con un certo mestiere. Che cosa volere di più da un racconto, soprattutto un racconto di narrativa di genere? Federico Gattini è un'autentica novità per lo saff di Delos. Ci ha mandato di soppiatto il suo racconto, io e Silvio l'abbiamo letto ed entrambi ne siamo rimasti folgorati. Non dico che sia un capolavoro (ce ne sono ben pochi nella mia pur fornitissima libreria), ma certo raggiunse il suo scopo: diverte e ci fa respirare una sana boccata di ottima fs. (Franco Forte)
dedicato a Primo Levie a John Lennon
Tutta questa storia ha avuto inizio una trentina di anni fa, in India.
C'ero finito nel febbraio del 1968 e tutto quello di cui avevo bisogno allora era spiritualità, trascendenza dalle cose materiali e, soprattutto, riuscire a conoscermi un po' meglio.
Il fatto è che il mio lavoro alla Trippertronics era arrivato a dei livelli qualitativi difficilmente raggiungibili da un ricercatore così giovane e, devo ammetterlo, me la tiravo proprio.
Può capitare, a volte. Fai delle ricerche importanti, magari scopri qualcosa che nessuno aveva mai nemmeno immaginato e a un certo punto ti sembra davvero di giocare a fare Dio.
Nessuno di noi è abituato a pensare a se stesso come a un superuomo, a una sorta di semidivinità, e queste sono cose che, alla lunga, stressano più di quanto non si possa credere; cominci a trattare male la gente, a rovinarti i rapporti col resto del mondo, come se tutti gli altri fuori dal tuo laboratorio non fossero che dei cretini integrali.
Ero col Maharishi da un paio di mesi. La Trippertronics gli aveva lasciato come offerta spontanea una cifra da capogiro e lui mi faceva stare col ristrettissimo gruppo dei vip. Con me c'erano Beatles e mogli e il cantautore Donovan Leitch, quello che una critica un po' superficiale diceva essere la risposta inglese a Bob Dylan.
Si meditava, più che altro, ma la notte stavamo seduti sulla spiaggia a guardare un cielo così pulito e così differente dal nostro che avresti potuto pensare di essere su un altro pianeta; scherzavamo tutti assieme come se fossimo amici da sempre e, ogni tanto, si suonava persino qualcosa.
Abitavamo in bungalow separati lungo il mare. Davanti a noi passavano donne con ceste di verdura sulla testa, pescatori di tartarughe ed era sempre pieno di bambini, bambini bellissimi che correvano dietro a una palla di stracci per tutto il giorno e che, poi, cercavano di venderti delle conchiglie a prezzi spropositati; le stesse conchiglie che, chinandoti, avresti potuto raccattare da solo.
A parte questo, niente; niente giornali, niente radio o tv, nessuna prova dell'esistenza di un eventuale resto del pianeta.
Ero col Maharishi da un paio di mesi quando, un giorno, arriva questo tipo, Frank Elmore, uno che in seguito avrebbe avuto un effimero successo musicale come Frank Slash, cantante e chitarrista dei Phantoms.
Aveva un che del flippato-stressato-paranoico ma, comunque, io e lui legammo abbastanza rapidamente. Un paio di mesi prima l'avrei detestato al volo ma, ormai, stavo superando questa fase, avevo già imparato a stare bene con gli altri e - se si eccettua Ringo Starr - a non considerarli subito degli zero.
Dopo una settimana di vita in comune, però, capii quale fosse lo scopo della permanenza in India di Frank. A lui non gliene fregava niente della meditazione e della conoscenza di se stesso, si conosceva anche troppo e, se posso, ho persino l'impressione che non si piacesse nemmeno tanto, Frank era in India per i Beatles.
Li tampinava in continuazione, li spiava, quasi, e rideva a crepapelle non appena uno di loro diceva qualcosa che fosse un minimo spiritoso.
Era insopportabile.
Ero convinto che fosse una specie di giornalista o uno di quelli che fanno di tutto per stare con i divi ma mi sbagliavo.
"Sono un musicista" mi disse una mattina con fare cospiratorio mentre aspettavamo che ci fosse servito il pugno di riso cotto che fungeva abitualmente da colazione.
"Ti giuro non l'avrei mai sospettato, soprattutto dopo averti sentito cantare ieri sera" dissi, ma lui non colse il tono ironico.
La sera precedente lui era stato obiettivamente un disastro, l'equivalente musicale di un maremoto, di un'invasione di cavallette. Donovan e George Harrison stavano cantando un pezzo di Donovan, credo fosse Sunshine Superman ma posso sbagliarmi, e Lennon li accompagnava con la chitarra. Frank si era seduto dietro a Lennon e si era messo a cantare anche lui, sempre un'ottava più su degli altri, come se volesse mostrarsi più bravo, e con un modo di fare talmente irritante che Lennon aveva sbagliato un paio di volte gli accordi. Quando tutto era finito e Frank era andato a dormire, Donovan aveva preso delle forbici e aveva tagliato un paio di corde da ognuna delle due chitarre.
"Così non ci sarà più pericolo di dover sopportare qualcosa del genere ancora una volta" aveva detto ridendo.
"Sì, davvero" continuò Frank versandosi il riso nella ciotola, "canto con un gruppo e suono la chitarra. Anzi, mi sono accorto stamane che le nostre si sono rotte, peccato perché avrei potuto suonarti qualcosa dei nostri pezzi. Sai che abbiamo inciso anche un 45 giri?"
No, non lo sapevo. Probabilmente non lo sapeva nessuno, esclusi i parenti stretti di Frank e degli altri ragazzi visto che, come mi raccontò qualche giorno dopo in piena crisi, il disco non aveva venduto più di cinquanta copie.
Nei giorni seguenti Frank rimase sempre più dappresso ai vari componenti dei Beatles, e io lo vidi sempre meno, mi disse che cercava di carpire i loro segreti, ma penso che cercasse solo la forza morale per autoraccomandarsi. Quando ci parlavamo - in genere la sera in spiaggia, soli, dal momento che Beatles e Donovan non uscivano più da quando lui si era esibito - mi parlava del suo gruppo, i Gravediggers, della loro esibizione al famoso concerto di Monterey dell'anno prima.
Poi, una mattina alle sei, piombò nel mio bungalow quasi piangendo.
"Ho parlato col Maharishi" mi disse, "e ho saputo che se ne andranno tra qualche giorno. Cazzo, io non ho ancora combinato niente, capisci Robert? Sono venuto qui dall'altro capo del mondo per un qualche cazzo d'ispirazione, anzi che niente per farmi conoscere da Lennon, e sono più cesso di prima, ho cantato una volta con loro e quelli hanno persino smesso di suonare pur di non avere a che fare con me. Te ne rendi conto?"
Non sapevo che dire e rimasi muto per qualche secondo a osservare alcuni aironi che zampettavano di fianco alla capanna del Maharishi.
Non doveva essere male fare l'airone, pensai.
"Devo imparare qualcosa da loro, devo fare qualcosa con loro o sono finito, io in questo campo non sono nessuno".
Provai a obiettare, a dirgli che in fin dei conti aveva già inciso un disco, aveva suonato al Monterey Pop Festival e che quindi non era proprio un nessuno.
Lui mi guardò con una faccia terribile, la faccia, immagino, di chi ha mentito per troppo tempo e ha una gran voglia di dire la verità, anche se la verità è terribile.
"Leggiti questi" mi disse, e mi buttò sul letto dei fogli di carta sgualciti.
Si trattava di una lettera e di tre articoli di giornale.
Mi pregò di leggerli in ordine cronologico.
The Claymore High School Clarion
28 giugno 1965
"Il peggior concerto che abbia mai ascoltato"
di Ralph Dickerson.
Da quando i primi esemplari di Homo Sapiens, stanchi e feriti dopo un'estenuante giornata di caccia all'ippopotamo, cominciarono a intonare le prime, incerte nenie, nessun orecchio umano aveva mai ascoltato qualcosa di così scadente quanto il concerto dei Gravediggers (!!!) alla festa del nostro Liceo.
Diversi spettatori sono stati ricoverati al pronto soccorso dell'ospedale cittadino e il nostro preside Horatio Jackson, già presidente dell'Associazione Californiana degli Amici di Mozart, ha chiesto che Frank Elmore, 'testa pensante' del gruppo, sia fucilato nel cortile del Liceo durante la prossima cerimonia per la consegna dei diplomi di maturità.
E non crediate che il nostro giudizio sia influenzato dalla pessima opinione che abbiamo di questi capelloni pacifisti che scimmiottano degli inglesi degenerati; se solo i signori Beatles avessero sentito cosa è stato fatto del loro repertorio iersera - tre gravediggers suonavano 'She loves you' mentre il quarto, Frank, cantava 'A hard day's night' - avrebbero sicuramente appoggiato la proposta del preside Jackson.
Frank, sei un ragazzo simpatico ma, per favore, smettila; con la musica non c'hai proprio niente a che fare. *
* questa frase fa parte delle note di copertina di Revenge, primo disco dei Phantoms, il gruppo guidato da Frank dal 1969 al 1972.
Lettera di Frank a Laurie Musanti, proprietaria di un paio di cosce sulle quali Frank continua a fantasticare anche quando medita col Maharishi.
Cazzo, Laurie no. Non t'immagini nemmeno cosa mi è successo.
Questa lettera la potrei iniziare in duemila modi differenti.
La potrei anche iniziare così:
Abbiamo sfondato. Dopodomani suoniamo al festival di Monterey tra Jimi Hendrix, un chitarrista nero del quale dicono un gran bene, ed Eric Burdon.
Potrei iniziare così e non ti direi nemmeno una bugia. Il problema è che la direi a me stesso.
Intendiamoci, a Monterey suoneremo pure noi, gli storici Gravediggers del liceo di Claymore, ma non so se ne sarai così fiera.
Vedo bene che sto girando attorno alle cose, mi accorgo che sono già arrivato a metà pagina e non ti ho ancora detto niente ma, ti giuro, non è così semplice.
Andiamo per ordine.
Una settimana fa non eravamo ancora in scaletta. Le nostre canzoni non erano piaciute o, molto più probabilmente, non erano state nemmeno ascoltate. Ci siamo messi a girare per conoscere qualcuno ma, come puoi ben immaginare, è stato un buco nell'acqua.
Così me ne stavo da solo a bermi un paio di birre in Market Street, a pensare se non sarebbe stato il caso di cominciare a studiare seriamente o anche di mettermi a lavorare con mio zio Hank - ricordi, quello che vende letame -. Ad ogni modo, cominciavo a essere quasi ubriaco e parlavo al barista con quella vocina impastata da attore di serie C ed ecco che mi trovo di fianco un bel tipo vestito come un'apparizione mistica - stracciato e sporco ma che si vedeva lontano un miglio che era pieno di soldi - che si mette a parlare di dischi, di gruppi che ha lanciato, di soldi che sta facendo.
Insomma, lo convinco ad ascoltare un nastro - me ne porto sempre dietro un paio, non si sa mai - e mi sembra quasi che me lo sto lavorando bene. Gli offro un paio di birre, mi invento qualche palla a proposito di nostri strepitosi concerti dalle parti di Berkeley finché lui non mi dice di andare ad ascoltarlo assieme.
Suoneremo al Monterey pop festival tra Jimi Hendrix ed Eric Burdon, te l'ho già detto, ma ti posso assicurare che al tipo interessava tutto meno che la nostra musica e io mi sono trovato nudo come un verme ancora prima che finisse 'Flowers in your head', il primo brevissimo pezzo del nostro demotape.
Schifa la vita.
con affetto, Frank.
Vogue
numero 24 dell'anno 1967
"Brevi note a proposito di un pomeriggio infernale"
di Ralph Dickerson.
Io, di mio, non ci sarei andato nemmeno morto ma "il lavoro è lavoro" - così diceva nonno Hazelstone, il boia municipale - e così questa settimana mi sono trovato nella graziosa cittadina di Monterey, Ca, a cercare di capire cosa ascoltano e anche cosa vogliono dalla vita quei nostri fratellini minori che sembrano aver deciso di voler ridurre sul lastrico i barbieri della madrepatria.
Il direttore mi ha chiesto un pezzo sulla musica e quindi sorvoler sulle droghe che mi sono state offerte continuativamente - e gratis!!!! Dico io, dove andato a finire il sano spirito imprenditoriale Americano? - durante tutto il tempo della mia permanenza al festival e sorvoler anche sulla raccolta di firme per fermare i bombardamenti su Hanoi.
Fermiamoci alla musica, quindi, al concerto in se.
Per dirla tutta, io non sono uno di quelli che si fissano sui posteriori delle ragazze, voglio dire che li guardo si, ma con un certo qual modo di fare e, soprattutto, senza perdere di vista il resto del pianeta.
Premetto questo perché, per tutto il primo concerto della scorsa giornata, ci&ogragve; che ho potuto vedere sono stati solamente i posteriori di tre graziose giovinette le quali, alzatesi in piedi al primo attacco di chitarra - sempre che si trattasse di una chitarra, a giudicare dal rumore avrebbe potuto anche essere un ordigno extraterrestre - si sono dimenate come ossesse sino al termine dell'esibizione.
"C'era motivo di dimenarsi?" mi chiedo.
"Non saprei" mi rispondo.
Tale Jimi Hendrix ha esploso suoni di una selvaggeria inaudita al ritmo dei quali nessuna persona di buon senso avrebbe anche solo pensato di muoversi; alle tre tipe, comunque, doveva piacere molto visto che si sono fermate solamente quando l'Hendrix stesso ha dato fuoco al suo strumento.
- carino, immaginare il Quartetto d'Archi Schubert che dà fuoco a viole e violini appena eseguita 'La Trota', quando torno a casa devo assolutamente parlarne a Wayne Redwood della Filarmonica di Los Angeles -
L'esibizione successiva stata ancor più sconvolgente.
Tale e tanta stata la mancanza di affiatamento, di musicalit , espressa dai Gravediggers (!!!!) che le proprietarie dei tre posteriori hanno interrotto ogni movimento prima ancora che terminasse il primo brevissimo pezzo.
E devo dire che, bench una delle tre fosse un po' troppo magrina per i miei gusti un po' campagnoli -perlomeno per quanto riguarda i posteriori femminili -, la vista era sicuramente più interessante di quella dei Gravediggers. Brutti, nervosi ed esibenti una notevole teoria di smorfie ad ogni stecca.
Sicuramente dei dilettanti che devono avere pagato di tasca loro per esibirsi in un contesto comunque gi deprimente come quello offerto dal festival di Monterey.
Salito in macchina per tornare verso la civilt , ho dovuto sintonizzare la mia autoradio su di una stazione un minimo decente in modo da disintossicarmi le orecchie.
Ragazzi, che esperienza.
Rolling Stone
numero 1 dell'annata 1968
"Recensioni musicali"
di Jack Houseman
Ascoltando il 45 giri d'esordio dei californiani Gravediggers 'Flowers in our heads'/'Dream on thru the night' non sono riuscito a trovare una sola minima ragione per cui consigliarne l'acquisto se non quella di regalarlo a qualcuno di veramente antipatico. Se per sventura vi capitasse di ascoltarlo e, addirittura, di trovarvi un qualcosa di umanamente decente, siete pregati di mandarmi suggerimenti qua in redazione. Ve ne sar grato.
Diedi a Frank i suoi fogli, lui li ripiegò come se fossero reliquie e li infilò nel portafogli.
"La lettera a Laurie non l'ho mai spedita. Troppo umiliante" disse.
"E' la tua ragazza?"
Scosse la testa e rispose che gli sarebbe piaciuto che lo fosse.
Capita a tutti un momento nella vita nel quale si fa una cazzata, ma una cazzata cosmica, e prima ancora di farla, ci si rende conto che si tratta di una cazzata.
A me capitò quel 24 aprile del 1968 alle sei e trentacinque ora di Nuova Dehli.
"Credo di poterti aiutare" dissi a Frank, e ancora me ne pento perché sarebbe ancora vivo, forse, se una volta tanto mi fossi fatto gli affaracci miei.
"Sei un produttore?" mi chiese
"No, sono Dio" risposi
La mattina seguente, verso le tre, io e Frank uscivamo dal bungalow di Lennon.
Steso tra noi, in posizione orizzontale e privo di conoscenza, c'era il geniale barbuto di Liverpool.
L'adagiammo sulla mia brandina, e io tirai fuori l'armamentario necessario alla nostra esperienza.
"E' questo il Recorder?" chiese Frank.
"Sì" risposi, "il modello portatile".
Infilai il cappuccio a Lennon e collegai gli elettrodi alla macchina.
Rapire un essere umano, uno dei più famosi al mondo, dopo averlo drogato, doveva essere illegale e rischioso, ma non tanto quanto utilizzare il Recorder e il Dreamer al di fuori dei laboratori della Trippertronics senza un'autorizzazione congiunta della proprietà e di qualcuno dai piani alti del Pentagono.
Io me l'ero portato dietro perché per me era come un figlio, che a pensarci bene è una cosa piuttosto stupida da dire di una macchina. Il Recorder e il Dreamer erano mie creazioni e ancora non riuscivo a capire perché qualcuno o qualcosa si potesse permettere di dirmi cosa fare e, soprattutto, cosa non fare con esse.
Cominciai l'operazione.
Frank sudava freddo.
"Non sarà rischioso?" mi chiese.
No, non era rischioso. Il Recorder si limitava a registrare nella sua completezza le attività e le caratteristiche di un cervello, di un sistema nervoso. Infilarsi il Recorder con il cervello di qualcun altro era come infilarsi il cervello stesso. Da quando era stato preparato, un anno prima, i cervelli del Presidente e del Segretario di Stato erano stati, come dire, clonati in modo che il vice-presidente o chi per esso potesse agire al meglio, ovviamente secondo i parametri presidenziali, se ce ne fosse stato bisogno. E questo era solo uno degli esempi possibili: al momento l'aviazione stava studiando la possibilità d'istruire un gran numero di piloti pronti ad attacchi suicidi, semplicemente clonando il cervello di un solo pilota paranoico e voglioso di morire gloriosamente in missione.
Il Dreamer era invece un'applicazione decisamente più simile a quelle forme di realtà virtuale che adesso vanno tanto di moda. Il Recorder era una cosa più raffinata, forse, pensare con il cervello di un altro era una sensazione che non tutti potevano apprezzare; i possibili risvolti spettacolari e anche sessuali del Dreamer erano invece una cosa che poteva mandar fuori di testa chiunque.
Ricordo che una volta, quando ancora la Trippertronics era alla ricerca di finanziamenti statali adeguati alla propria inesauribile fame di danaro, facemmo provare il Dreamer al presidente Johnson; al posto del solito delfino che nuota a pelo d'acqua o delle altrettanto usuali scene di sesso, gli facemmo vivere in diretta il bombardamento in picchiata di una postazione vietcong - cervello gentilmente prestato dal colonnello Crawford, un bue d'aviatore texano che raggiungeva l'orgasmo solo al termine delle missioni -; alla fine della settimana il governo fece passare un finanziamento a fondo perduto per cinquanta milioni di dollari.
Dopo dieci minuti di silenziosissima registrazione, il mio compito all'interno del bungalow era finito.
Sfilai il Recoder dalla testa di John e lo misi nel mio armadietto; dentro, finalmente, c'era il cervello di Lennon.
Il proprietario di quel cervello cominciava a muoversi sulla brandina.
L'accordo con Frank era di tornare insieme in California, lasciargli provare il cervello nuovo per qualche tempo e poi andare insieme in sala d'incisione. A quel punto mi sarei ripreso il Recorder e ognuno per la sua strada.
Quando mi svegliai stavo sanguinando dalla testa, Lennon blaterava nel sogno di essere un tricheco e Frank era scomparso.
Con lui il Recorder.
Feci i bagagli in fretta e lasciai l'India per sempre.
Qualche tempo dopo, forse nemmeno un anno, stavo dando un'occhiata tra gli scaffali di un negozio di dischi a Camden Town, in Inghilterra, quando mi capitò tra le mani 'Revenge', il primo disco dei Phantoms. Fino a che non vidi la faccia da cretino di Frank e una dedica ai Beatles e a Donovan 'per lo splendido periodo di meditazione e amicizia passato assieme sulle spiaggie indiane', non mi resi nemmeno conto di che cosa avevo tra le mani.
Questo disco non avrebbe potuto essere realizzato senza la collaborazione di John Lennon
stava scritto al termine delle note di copertina
Ne comprai due copie e distrussi a calci la prima appena uscito dal negozio.
Due settimane dopo, tornato in patria, riuscii a trovare la voglia di ascoltarlo. Forse ero un po' di parte, ma non mi sembrava davvero un granché; poteva anche esserci il cervello di Lennon, e infatti un paio di idee erano veramente buone, ma le mani e la voce disgraziatamente erano quelle di Frank Elmore, in arte Frank Slash, l'uomo che con la sua musica aveva fatto bandire il rock dal liceo di Claymore dal '65 fino a metà degli anni ottanta.
I successivi due dischi dei Phantoms non erano molto meglio del primo, e io non sentii più parlare di Frank per quasi trent'anni.
Poi un giorno, l'anno scorso, mi arriva la polizia in casa. Fanno domande su Frank, su come ci siamo conosciuti. Chiedono da quanto tempo non ci vediamo.
In seguito alle mie insistenti domande mi dicono che è morto, che è stato trovato ucciso nel proprio appartamento.
"In camera c'era una cassaforte a muro" mi dice uno dei poliziotti, "dentro ci abbiamo trovato una scatola con sopra questo".
Un post-it. Da consegnare a Robert Mitchell della Trippertronics in caso di mia morte.
"Dentro cosa c'era?" chiedo con l'aria più innocente di questo mondo.
Non lo sapevano, la scatola era stata aperta e il contenuto rubato.
Mi fanno altre domande e se ne vanno dicendomi che le indagini sono appena iniziate e si rifaranno vivi.
Fino a oggi non li ho più rivisti, evidentemente delle rockstar di serie C non gliene frega niente a nessuno.
Ripensando a tutta questa storia, alla polizia, a Frank, al Recorder scomparso, questa mattina sono stato fulminato da un dubbio, un cattivo pensiero più che un dubbio. Ho cercato tra i quotidiani dei giorni scorsi fino a che non l'ho trovato: un articolo a proposito dell'uscita in commercio di 'Free as a bird', un nuovo 45 giri dei Beatles realizzato grazie a una tecnologia fantascientifica che ha permesso di far suonare lo scomparso Lennon con i propri vecchi compagni.
Ho fatto una corsa fino al negozio all'angolo, mi sono spintonato con un paio di avvocati ex-fricchettoni che avevano cercato di superarmi nella fila (tipico) e finalmente sono riuscito ad acquistare la sudata copia del 45 giri.
Solo dopo averlo ascoltato quattro o cinque volte di fila ho notato, appena sotto la foto di John Lennon, una frase scritta piccola piccola al termine delle note di copertina.
Questo disco non avrebbe potuto essere realizzato senza la collaborazione di Frank Elmore.
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