Connecticut, 1957: Cathy (Julianne Moore, Evolution) è la classica donna di famiglia presa a modello dai giornali rosa locali. E' madre di due bambini e moglie devota di Frank (Dennis Quaid, Frequency-Il futuro è in ascolto), manager di successo. All'apparenza la coppia è ultra felice ma le apparenze, come si sa, spesso ingannano. Frank protrae sempre più a lungo la sua permanenza negli uffici della Magnatech ed una sera la moglie decide di portargli in ufficio qualcosa da mangiare. Lo trova con un altro uomo in atteggiamenti per così dire inequivocabili. La coppia è sconvolta. Lei è impotente e non sa parlarne con le sue amiche per paura dell'ondata di pettegolezzi che ne seguirebbe. Lui è convinto di essere malato e va da un dottore, che gli prospetta una terapia a base di sedute di psicanalisi confidandogli che con alcuni pazienti si è anche ricorsi all'elettroshock. Le possibilità di guarigione comunque sono meno che certe. Mentre le sedute con il dottore continuano l'atmosfera all'interno della casa si fa sempre più pesante. Cathy trova inaspettato conforto e sollievo nella compagnia del giardiniere di colore Raymond (Dennis Haysbert, 24 in TV) ma siamo nell'America che ancora non contemplava l'idea di parità tra le razze ed anche una semplice amicizia tra un nero ed una bianca non è vista affatto di buon occhio...
Lontano dal paradiso è in realtà un film sul cinema e su come il cinema rifletteva (e riflette) la società che lo produce e ne fruisce. Sin dai titoli di testa siamo in pieno melodramma in stile Peyton Place ed i richiami e riferimenti al cinema drammatico e romantico di Douglas Sirk (Come le foglie al vento, Lo specchio della vita) e Max Ophuls (Sgomento) ne fanno un vero omaggio a quel ben preciso modello di cinema (caro anche ad Almodovar) e le cui tematiche sono oggi state ereditate e serializzate dalle soap opera televisive. Lo stile della narrazione è dichiaratamente retrò e non realistico, ed il regista Todd Haynes (Safe, Velvet Goldmine) sembra voler costantemente ricordare allo spettatore di stare assistendo a finzione, non realtà. Ecco quindi l'uso intenso ed emozionale del colore, per il quale il direttore della fotografia Ed Lachman ha approntato una formidabile tavolozza cromatica, e le musiche di un compositore storico come Elmer Bernstein (I magnifici sette). L'interpretazione degli attori è incredibilmente bilanciata tra i sospiri, pianti e drammatiche rivelazioni, ma riesce a rimanere magicamente in posizione di equilibrio, senza cadere nella parodia. Quanto alle tematiche sono attuali ancora quanto lo erano 50 anni fà: sotto la superficie di ogni vita costruita sulla facciata e sulla presunta rispettabilità delle apparenze si nascondono menzogne, infelicità e bugie. E vivere la propria vita a testa alta, senza nascondersi, senza sensi di colpa imposti da altri, risulta sempre la scelta migliore per tutti, uomini e donne, a prescindere dall'orientamento sessuale. Il film lo racconta giocando con sottile intelligenza tra citazione cinefila ed analisi sociale e non sorprende che sia stato accolto con tanto plauso da chiunque abbia grande passione per la settima arte.
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