ma sì, eravamo d'accordo che appena libera avrebbe telefonato. Sta' tranquillo, mi ha detto, son tutte fisime, non c'è bisogno che scaraventi i piatti contro il muro. E' stato allora che ho aperto la bottiglia del gin, mi sono messo a bere

cretina

cretina che non sei altro, se non ci credi perché esci sempre con quella maschera sulla faccia, e lei un po' ha pianto e poi ha detto: così, perché tu sei un bambino che ha paura dell'orco, tu credi nelle favole, pazienza, faccio come tu vuoi, nessuno porta via la tua mamma, e sulla porta ha provato a sorridere, il mostriciattolo già saltellava giù per le scale ormai ti hanno scoperto è inutile vacci come sei, io me ne frego e sono corso dentro ho riempito la terza volta il bicchiere gin dappertutto sulla tavola sul pavimento gocciolava sulla mia veste da camera freddo nel cervello come adesso più di adesso in tutto il corpo fino a quando lei è tornata su neanche dopo mezzo minuto e ha detto non lasciarmi andar via

cosi di' qualche cosa e quella faccia no non fare quella faccia se no non mi muovo verranno a prendermi e sarà la fine, allora m'è mancato il coraggio, ho detto: bene, appena ti rilasciano telefona, sì sono tranquillo anch'io adesso sono calmo, va': non succederà niente.

Il gioco degli scacchi si esercita sopra un piano quadrato che si chiama scacchiera diviso in sessantaquattro quadratini, trentadue bianchi e trentadue neri, che si chiamano case. I pezzi sono il Re, la Donna, la Torre, il Cavallo, l'Alfiere e i Pedoni. I1 gioco è vinto quando si riesce a dare scaccomatto, cioè quando si riesce a prendere prigioniero il re avversario. Subito dopo il re, il pezzo più importante è la donna. Ad essa il giocatore deve prestare un'attenzione particolare: nei primi tratti della partita non sarà mai buono muovere la donna, perché i pezzi avversari essendo tutti in gioco possono facilmente infastidirla. La cautela non sarà mai troppa, tanto più che la cattura della donna può rappresentare l'improvviso obiettivo degli attacchi avversari.

Questa la teoria, uno stralcio. C'è poi l'analisi del gioco aperto e del gioco chiuso. I gambitti. E i controgambitti. E poi la teoria vastissima inesauribile delle aperture, lo studio dei finali, il caos, la scacchiera

che ora sembra un pezzo di stoffa quadrettata, la giacca d'un gigante, il dorso si solleva e quasi s'inarca come bestia che sbuffa e scalpita, ora la luce è spenta. Ora. Adesso l'edificio non ha vita, evacuato, sono scappati tutti, e nella strada i veicoli transitano senza convinzione, una serie di suoni sordi, zampe di gatto, due o tre lame di luce sventagliano in alto contro le imposte della finestra torre regina i pezzi con le capocchie lucide, tornite sembrano i pomelli dei lettini di ferro (ora non più, non li fanno più) ora la fibra ha invaso l'universo, i tavoli le macchine le tazze dei gabinetti e le posate gli abiti le sputacchiere, io mi ricordo

tre anni? Non lo so, io nacqui allora alla memoria, più indietro di così non ci riesco, ricordo il letto piccolo con le sponde di canapa intrecciata e sulle spalle una coperta a frange, di lana (quella cosa che una volta facevano le pecore), d'accordo, già allora il mondo era finito rimaste poche briciole nella patetica ostinazione dei vecchi, come cimeli, e poi scomparsi quegli ultimi che potevano ancora venerarli tutto il tempio è crollato sotto il diluvio, giù! plastica a scrosci, dai giornali ai pavimenti delle strade i fazzoletti igienici le lettere d'amore, anche gli scacchi.

L'ho spenta io la luce: perché in penombra mi concentro meglio. Ora la scacchiera sembra un paesaggio notturno visto dall'alto, io mi ricordo... Qui forse mi sbaglio, è un impostura confondere i ricordi con le immagini del dormiveglia, io non lo so, rivedo la vallata il drappo nero della campagna costellato di lucciole pulsanti, ero fermo sull'orlo, quasi sospeso sopra il crinale delle colline, che ne sapevo io del mondo e della vita, che ne sapevo, ero adagiato nella conchiglia dove il futuro è un campo di miracoli, e smettila, imbecille, le pianure di grano e le foreste non esistono più, smettila, qui non ci sono che scheletri d'acciaio derivati meccanici e labirinti di plastica vetrificata, e poi ha detto: appena mi libero telefono. Pfff! Non è mica facile incassare certe sberle, in g3, naturalmente, Mark ha voluto il sua alfiere in g3, e io l'ho accoppato, l'alfiere cominciava a darmi fastidio, un cambio, quando sono nervoso liquido i pezzi perché meno ne vedo e meglio ragiono, Mark ha ripreso con il fante di torre ed io ho spedito il mio cavallo di re a prender aria, in e7, luci qui sotto, laggiù, luci lontane, per esempio: un cavallo io non l'ho mai veduto, un cavallo vero. Anche quand'ero sulle colline e mia madre al calar della notte m'indicava la valle lontana che s'accendeva come una scacchiera, e poi nei campi o dietro le siepi, dovunque fosse verde, insomma l'erba l'ho conosciuta, quella sì, ho fatto in tempo a vedere l'erba vera e le piante vere, e c'era il tetto della casa che poggiava su due travi d'abete i rampicanti e un orto dietro la casa, cioè un pezzo di terra che uno potrebbe coltivare, c'era molta gente che prima lo faceva, prima che il bulldozer venisse a buttare giù tutto, case e fienili, anche la collina venne spianata, ho ancora nella testa il rumore che arroventava l'aria, la scartocciava in fremiti, e adesso ecco le luci, ecco il ronzio, anche Mark manda fuori il cavallo, quello di donna, lo vuole in d2, una spugna, bisognerebbe che nel mio cervello rotolasse una spugna a cancellare tutto, così tra un'ora (o due? o forse...) quando Elena entrerà in questa stanza