Prologo
26 luglio dell’anno 518 Dalla Proclamazione dell’Impero: 19 mesi dopo la fine della Guerra con i Ralt – Menhit
– I soggetti hanno lasciato l’edificio.
Erno Boka accolse la voce femminile quasi come una liberazione. – Ricevuto, Tredici. Attiva il drone e segui il bersaglio. – Cercò di usare un tono calmo, un trucco che gli aveva spiegato la vecchia Uno per trasmettere sicurezza alla squadra; non che ne avessero bisogno, quei cinque erano forse fin troppo sicuri di loro.
Sfiorò con le dita l’avambraccio dell’armatura scura e priva di insegne, attivando l’oloproiettore da cui emerse una veduta dall’alto delle strade a griglia di Nuova Luxor. Il drone, comandato da Tredici, inquadrava uno stretto canyon di edifici in plasticemento della città, con file di colonne a forma di fiore che risalivano verso l’alto, seguendo lo stile architettonico che era stato deciso fosse quello del pianeta.
Oltre i colonnati il buio, solo alcune delle finestre oscuranti erano aperte, lasciando intravedere riquadri luminosi, occhi persi a guardare il nulla. Anche il traffico era modesto, la fine della guerra aveva visto crollare la popolazione della città, quando gran parte delle forze armate dislocate sul pianeta erano state smobilitate. I militari si erano portati dietro un gran numero di Case di Conforto, bar e ristoranti, che servivano quello che era lo snodo principale per combattere i ralt, lasciando un pianeta ancora privo di una identità, a parte la sinistra fama di portare sfortuna.
Il drone inquadrò una volante della polizia, immobile a mezz’aria a una ventina di metri da terra, e sotto le sagome di alcuni veicoli a repulsione magnetica che si muovevano seguendo i percorsi rigidamente codificati dal controllo del traffico. Tutto appariva come avrebbe dovuto essere, la tranquilla normalità di una qualunque delle migliaia di città sparse per l’Impero.
L’immagine si rimpicciolì mentre il drone scendeva, concentrando lo sguardo su un grosso veicolo nero dotato di ruote, sulla cui superficie lucida le ombre dei palazzi tracciavano sagome distorte della realtà.
Il proprietario aveva scelto un programma costoso per il suo veicolo, con finiture argentate sulla parte posteriore e sulle fiancate, ma era comune da parte di chi credeva di esser arrivato a fare parte del vertice imperiale: ostentazione, e voglia di farsi vedere. Avrebbe potuto usare una cabina della rete personale, discreta, ma anche invisibile, invece di un appariscente veicolo che trasudava voglia di farsi notare. Una sfortuna per lui e una fortuna per Boka.
Una nuvola densa e puzzolente gli avvolse la testa, strappandogli un violento accesso di tosse.
– Smith, spegni quel cazzo di sigaro! – ringhiò, voltandosi verso il vecchio divano termoadattabile da cui provenivano spesse spirali di fumo.
– Mi fa passare il tempo – rispose una voce profonda da dietro la spalliera.
– Trova un altro modo. Mi dà sui nervi!
Una mano guantata, seguita dal bracciale di un’armatura uguale a quella che indossava Boka, comparve lentamente, facendo girare un paio di volte il mozzicone fumante tra le dita prima di lanciarlo con un elegante movimento di polso attraverso la stanza.
– Signorsì, signore – disse la voce di Smith, priva di qualsiasi inflessione che potesse rivelare un qualche disappunto.
Boka sospirò, si trovava in un vecchio capanno di caccia in uno dei boschi di alberi neri caratteristici di Menhit, a nord di Nuova Luxor, un luogo appartato e tranquillo; il proprietario aveva vinto una crociera tra le lune di Aphrodite, in modo da assicurarsi che nessuno avrebbe disturbato, una precauzione utile più che altro alla salute di quell’uomo, a dire il vero.
Fece scorrere lo sguardo sul resto della squadra.
Peck, alto e magro, dai tratti fini, quasi delicati, e con l’aria di un attore di olomovie, almeno fino a quando non lo si guardava negli occhi azzurri privi di anima, come quelli di uno squalo; era appoggiato al montante di una porta intento a pulirsi le unghie con la punta del pugnale da combattimento.
Murdock, smilzo e dall’aria nervosa, era seduto per terra accanto al camino spento e stava giocherellando con un accendino laser.
Barack, l’ultimo membro della squadra, era seduta a un vecchio tavolo, intenta a schiacciare con il pollice alcuni insetti che emergevano a ciclo continuo dal legno; la donna, dalla pelle talmente scura che si confondeva con il nero dell’armatura, aveva assai poco di femminile, quasi certamente il prodotto di un errore nella combinazione genetica della clinica di popolamento in cui era nata, grossa quasi quanto un serf, quei costrutti genetici umanoidi da impiegare in lavori pesanti o rischiosi, un recente e fallimentare tentativo di ovviare al divieto plurisecolare di impiegare intelligenze artificiali avanzate; in pratica una razza di schiavi.
Infine, in una stanza in città, si trovava Tredici, la più giovane del gruppo e anche la più enigmatica; come poteva una ragazza di solo vent’anni, con quell’aria apparentemente normale, avere già ricevuto una condanna a morte quando era ancora minorenne? Quando era diventato Uno, aveva provato a scoprirlo, ma quei documenti eran segretati persino per lui, anche il suo nome restava un mistero. Ma del resto l’esistenza stessa della ROGUE poteva essere definita un mistero. Recon Operation and General Units Enforcement, un nome innocuo che nascondeva l’unità di intervento speciale del Dipartimento di Sicurezza Imperiale. Per i placidi abitanti all’interno di quegli edifici, loro non esistevano, erano fantasmi di persone morte, condannate a essere giustiziati per i loro crimini. La vecchia Uno li aveva reclutati in prigione, addestrati e plasmati fino a farli diventare armi al servizio del Dipartimento.
Pensare a lei gli provocava una sensazione di perenne inadeguatezza, anche se erano passati ben due anni da quando era diventato Uno, due anni e nove missioni, tutte compiute egregiamente e senza intoppi, eppure sapeva che il resto della squadra bisbigliava alle sue spalle, del resto faticavano anche solo a chiamarlo Uno. Sentì una leggera sensazione di calore alla base del collo, mentre l’emettitore medico che gli avevano impiantato impediva che la sua mente cedesse ai suoi peggiori istinti. Lui non era la vecchia Uno, né avrebbe potuto esserlo.
Ci sarebbe stata ancora lei al comando se non fosse stato per il disastro di Asa, un fallimento talmente spettacolare che c’era voluta tutta l’abilità del Dipartimento per nascondere la cosa, per farla passare per un incidente: per il resto dell’Impero, quella scuola era esplosa per un guasto al sistema energetico dell’edificio.
Tutto a posto, tutto risolto, esattamente come Boka aveva voluto, un mucchio di bambine morte, lui al comando della ROGUE, mentre lei, dopo un congedo tanto onorevole quanto inappellabile, era tornata sul suo pianeta natale ad insegnare Storia Terrestre all’università.
Riportò lo sguardo all’ologramma, il veicolo aveva lasciato la città e percorreva un’autostrada semivuota. – Termico – disse, e in un attimo l’immagine si tinse di verde e rosso. All’interno del veicolo il visore mostrò la presenza di quattro tracce. Tutto stava andando come previsto. – Tredici, attiva il controllo remoto. Portali qui.
– Come vuoi – rispose la voce annoiata di Tredici, accompagnata dall’irritante suono di lei che succhiava una bibita. La ragazza sapeva essere irritante, ma era in grado di penetrare ogni sistema informatico desiderasse con la stessa facilità con cui Murdock accendeva un fuoco.
L’immagine si ingrandì, la luce rossa che circondava il veicolo iniziò a lampeggiare prima di diventare verde, mentre le labbra di Boka si aprivano in un tenue sorriso.
Per alcuni minuti nulla cambiò, il mezzo proseguì lungo la strada; nessuno a bordo poteva essersi accorto di nulla, finché il veicolo virò sulla destra e prese una strada secondaria che si immergeva nel bosco.
– Avanti ragazzi, ci siamo – disse Boka.
Nessuno rispose. Tre paia di occhi lo fissavano pigri, fino a quando da dietro il divano non risuonò la voce di Smith.
– Finalmente. Vediamo di dare un senso alla giornata. – L’uomo si alzò in piedi stiracchiandosi in maniera plateale rivelando un volto largo, sulla cinquantina, con i capelli brizzolati prima del tempo.
Boka decise di non dire nulla, del resto anche gli altri tre si erano attivati e stavano controllando i fucili al plasma. Si diresse alla porta uscendo nel piccolo portico.
Il capanno si trovava in una radura dalla forma irregolare. Intorno a loro spessi alberi, dalla chioma nera e dai trochi bianchi come ossa, formavano una cortina quasi impenetrabile; erano quelle piante, quei colori, ad avere dato al pianeta la fama di portare sfortuna: visto dallo spazio Menhit era una distesa del nero della vegetazione, del bianco delle montagne calcaree e del blu intenso degli oceani. Fatto stava che le ombre scure delimitate da tronchi simili a spettrali fantasmi sotto la pioggia sembravano essere l’ambiente naturale per la ROGUE
– Serata freschina – borbottò Murdock.
– È inverno, scemo – rispose secca Barack, spingendo l’altro fuori dal portico.
Boka li ignorò, quei due non facevano altro che litigare e più di una volta si erano quasi ammazzati, ma in quel momento la situazione sembrava sotto controllo.
Sollevò la testa al cielo e lasciò che la pioggia gli bagnasse il volto attraverso il visore aperto del casco. Gli piaceva la pioggia, e quella fredda invernale ancora di più, era contento che gli addetti al controllo climatico di Menhit stessero seguendo alla lettera le disposizioni stagionali. Rimase a sentire il tocco dell’acqua e l’odore di terra e piante, ancora per alcuni istanti, prima di fare un gesto secco con la mano, dicendo: – Murdock e Peck dall’altra parte della radura, Smith e Barack restate da questa.
Peck sogghignò, fece una parodia di saluto militare appoggiandosi due dita della mano sulla fronte, per poi avviarsi a passo lento nel fango, seguito da Murdock, che fischiettava un motivo allegro eppure inquietante, con il fucile appoggiato mollemente nell’incavo del braccio.
Boka si mosse verso il centro della radura, il rumore ritmico dell’acqua che batteva sull’armatura. Con riluttanza abbassò il visore, aveva bisogno di tutta la visibilità possibile: il mondo intorno a lui parve diventare più luminoso, dettagliato, mentre i sensori del casco ne amplificavano la luce.
Pochi istanti dopo dal viottolo in mezzo agli alberi sbucò il veicolo, una macchia scura illuminata in maniera sinistra dalle luci di posizione rosse, si fermò solo a un paio di metri da lui e rimase lì immobile. I vetri erano oscurati, Boka non poteva vedere che cosa stava succedendo all’interno, ma poteva immaginarlo: confusione, paura, sconcerto.
– Tredici, apri le portiere.
Un lungo interminabile suono di risucchio gli risuonò nel comunicatore, seguito subito dopo dalla voce della ragazza. – Come si dice?
Le mani di Boka ebbero uno spasmo, trasformandosi per un istante in artigli pronti a squartare.
– Ti sembra il momento?
– Uno diceva sempre che ogni momento è buono per essere cortesi…
Lui avrebbe voluto gridare, avrebbe voluto urlare molte cose, in primo luogo che lui era Uno, in secondo luogo quella donna non avrebbe mai detto una frase del genere, dubitava che sapesse persino cosa fosse la cortesia, ma si trattenne, non era certo il momento di avere una crisi di nervi. – Apri le portiere, Tredici.
– Non hai detto la parola magica – cantilenò lei in risposta.
Boka dovette fare appello a ogni fibra del suo essere per mantenere una parvenza di professionalità. Non era la situazione adatta per discutere, doveva tirare la coda al pitchilla e sperare non gli defecasse in faccia. – Per favore, puoi aprire le portiere? – disse con voce tremante dalla rabbia.
La risposta di Tredici fu una sommessa risata, a cui seguì l’illuminarsi di giallo del bordo del veicolo mentre le portiere scivolavano di lato.
– Uscite lentamente con le mani in alto! State calmi e non vi succederà niente – mentì Boka, riuscendo a evitare di sospirare per il sollievo.
Non accadde nulla, l’interno del veicolo era solo un insieme di differenti ombre, e lui pensò di sfogare la sua frustrazione verso l’atteggiamento di Tredici, ordinando a Barack e a Murdock di trascinare gli occupanti di forza fuori dal veicolo. Ma prima che quel pensiero potesse prendere forma, dall’interno emerse un uomo alto, dalle spalle larghe, i capelli castani tagliati corti, la mascella squadrata resa ancora più dura dall’espressione rabbiosa che scintillava negli occhi neri. Indossava l’uniforme blu e grigia della Flotta con i gradi di commodoro sul colletto, intorno a lui un leggero tremolio rivelava l’esistenza di un campo di forza per proteggersi dall’acqua.
– Cosa credete di fare? Sapete chi sono? – sbraitò l’uomo, puntando il dito contro Boka, che sorrise invisibile dietro il casco.
– Il commodoro di fresca nomina Dan Radu, assegnato al comando operazioni della 2ª Flotta su Menhit, in precedenza capitano della ISS Venture, e potrei andare indietro fino a dirle il nome della strada dell’ospedale in cui è nato – rispose Boka in tono noncurante, leggendo i dati che scorrevano sul visore del casco.
Radu sbatté un paio di volte le palpebre con aria sorpresa, ma fu solo un attimo, e disse seccamente: – Allora saprete che ho conoscenze importanti, stavo giusto andando a una cena con il Governatore. Non so chi vi manda, ma mi assicurerò che veniate spediti su Daramulum a fare la guardia ai serf addetti alla bonifica!
Boka non riuscì a impedirsi di sollevare gli occhi al cielo. Era sempre così con gli alti papaveri, sempre le stesse prevedibili frasi, utili quanto la ricerca del Cloud. Spostò la testa di lato e gridò rivolto al veicolo: – Voi altri, scendete, forza!
Radu fece un passo avanti e puntò il dito al petto di Boka, il volto deformato dalla rabbia e da un leggero velo di paura. – Lasciateli stare!
Dal veicolo non scese nessuno, la portiera aperta mostrava un interno buio, appena illuminato da alcune gelide luci di servizio, un antro che stranamente era meno oscuro e minaccioso della foresta che li circondava. Boka fece un cenno con la mano, e subito Peck e Barack si mossero in avanti. Vide il primo sollevare il visore del casco, sfoggiando un meraviglioso sorriso, e allungare la mano verso l’interno del veicolo mormorando qualcosa sottovoce. Con riluttanza una mano si poggiò sulla sua e una bella donna dalla pelle scura uscì dal veicolo. Indossava un elegante vestito lungo con la stoffa polimorfica che cambiava colore nelle tonalità del viola. La leggera luminescenza dello scudo la circondava come un’aura mistica, mentre continuava a fissare Peck e Radu, muovendosi con una sorta di docile grazia.
Dietro di lei uscì una bambina di forse dieci anni, capelli crespi e scuri, come quelli della madre, raccolti in una coda, l’uniforme verde con il fazzoletto blu della Gioventù Imperiale. La vista di quella bambina, simile e dissimile a sua sorella, fece diventare i muscoli di Boka rigidi e frementi, mentre la mascella si tendeva. Era talmente concentrato su di lei che quasi non notò che dal veicolo era sceso anche un ragazzo sui quattordici anni, una versione in miniatura del padre con indosso la divisa scolastica.
Peck continuava a parlottare sottovoce alla donna, tenendole la mano con delicatezza, mentre Radu guardava la scena con il volto terreo.
– Dunque, commodoro, la fortuna le è stata molto favorevole ultimamente, eppure ci sono cose che devono essere spiegate in maniera più approfondita.
Radu lo ignorò. Peck allungò una mano sul fianco della donna che divenne rigida come se le avessero versato una colata di plasticemento addosso, e lanciò un leggero urlo spaventato.
– Metti le mani a posto, tu! – sibilò il marito.
Boka afferrò l’uomo per una spalla e con forza lo fece ruotare verso di lui.
– Commodoro, sia collaborativo e non succederà nulla.
Radu lo fissò, poi gli occhi si mossero rapidi come se sperasse che qualcuno spuntasse da quei tronchi bianchi ad aiutarlo, la sua voce cercava ancora di aggrapparsi a un senso di autorità, labile come le sue impronte nel fago.
– Non so che cosa vogliate da me, ma vi assicuro che la pagherete carissima!
Boka sospirò, certe persone proprio non sapevano fare altro che farsi scudo della propria arroganza. Fece un cenno con la testa e Smith comparve quasi dal nulla alle spalle di Radu, e gli sferrò un calcio alle ginocchia. L’uomo emise un lamento di dolore accasciandosi nel fango, mentre Smith gli sferrava altri due calci, uno allo stomaco e uno in piena faccia, il campo energetico che lo proteggeva dalla pioggia tremolò e scomparve, e l’acqua piombò addosso al commodoro.
– Dan! – urlò la donna facendo un passo in avanti, subito afferrata da Peck che la tirò a sé. Lei cercò di divincolarsi, di ribellarsi, ma Boka sollevò una mano e disse in tono secco:
– Signora, questa è una faccenda che non la riguarda. Le consiglio caldamente di rimanere ferma.
La donna si irrigidì mentre Peck immergeva il naso tra i suoi capelli annusandola con l’aria di pregustare un buon pasto.
Boka si chinò accanto a Radu che si stava sollevando da terra, il volto sporco di sangue. – Allora, ricominciamo. – Gli afferrò il mento stringendolo con forza tra le dita e gli mise l’avambraccio con l’olocomunicatore sotto il naso, attivando l’immagine di un uomo, un ammiraglio calvo con il naso aquilino e il mento affilato. L’ammiraglio parlava con una donna dai capelli rossi in uniforme da maresciallo dell’esercito, reggendo un bicchiere di champagne tra le mani, e diceva: L’Impero è come una fenice, risorgerà dalle sue ceneri.
– Cosa vuol dire? – chiese Boka seccamente.
Radu sputò fango e sangue, e gli lanciò un’occhiata gelida. – E che cazzo ne so? Sara una metafora.
Boka strinse le dita sul mento strappandogli una smorfia, prima di allentare la presa. – Commodoro, non rendiamo le cose spiacevoli. Il suo ammiraglio Saint-Laurent parla spesso di fenici. Ha l’hobby di discutere di animali immaginari?
Radu scosse la testa. – L’ammiraglio ha molti interessi…
– Sì, e lei è stato il suo più stretto collaboratore per anni, quindi glielo chiedo gentilmente: a cosa si riferisce esattamente quando cita questa fenice?
Il commodoro rispose: – L’Ammiraglio non mi diceva tutto, è evidente che non mi tenesse in grande considerazione.
Boka lasciò la testa di Radu e si alzò in piedi. – Speravo di trovarla più collaborativo, ma a quanto pare dovremo essere più persuasivi. – Guardò Peck e fece un cenno con la testa.
L’uomo che stava baciando il collo della donna in lacrime, si bloccò e lo guardò con disappunto. – Devo proprio? È un vero spreco. Hai visto quanto è bella? – chiese, strizzando il seno della donna che urlò.
– Lascia stare mia madre! – gridò il ragazzino, scattando in avanti verso Peck. L’aveva quasi raggiunto quando Barack lo afferrò da dietro e lo sollevò da terra come se fosse stato un pupazzo.
– Lasciami! Lasciami, bestia!
Radu fece per alzarsi, ma Smith lo spinse a terra con il piede schiacciandolo nel fango.
Boka odiava la confusione. La donna piangeva mentre Peck continuava a palpeggiarla con la mano che scendeva lungo il vestito, il ragazzino cercava di divincolarsi, mentre la bambina gemeva con la mano di Murdock che scavava solchi nella sua spalla per trattenerla.
– Peck, finiscila di giocare!
L’altro gli lanciò un’occhiata piena di rabbia e delusione. – Come vuoi. – Spinse lontano da lui la donna, che barcollò per un paio di metri prima di voltarsi verso Radu, allungando una mano verso il marito con sguardo implorante. Una vampata di luce illuminò la radura mentre il corpo fumante di lei cadeva a terra.
– Marla! – urlò Radu, la voce soffocata dal fango.
– Uno spreco, un vero spreco! – borbottò Peck, avvicinandosi al cadavere e sfiorandole l’interno delle gambe con un leggero tocco del piede.
– Siete dei bastardi! Dei mostri! – urlò il ragazzino.
La bambina singhiozzava ancora più forte.
Boka si chinò nuovamente su Radu. – Allora, stavamo dicendo?
Il commodoro lo guardò con odio e urlò: – Non so un cazzo, bastardo! Te l’ho già detto, negli ultimi tempi l’ammiraglio era distante, un vero stronzo, non ha mai riconosciuto i miei meriti! – L’uomo sputò quelle parole mischiate al fango, la voce un incrocio tra il ruggito di un animale e il pianto di un bambino.
– Commodoro, commodoro… Sto iniziando a stancarmi – disse Boka, gli afferrò i capelli e gli sollevò la testa mentre faceva un cenno a Barack, che afferrò la testa del ragazzino e la ruotò; il rumore dell’osso che si spezzava risuonò nella radura con la forza di un tuono, rimbalzando tra i tronchi simili a scheletri che li circondavano, poi la donna gettò via il corpo del giovane come fosse un pupazzo.
– Fuori due. Ne rimane una. Sai dirmi qualcosa riguardo alla fenice?
Radu chiuse gli occhi rigati di lacrime, le dita artigliavano il fango lasciandovi profondi solchi che l’acqua riempiva immediatamente.
– Non so nulla. Non dovete chiederlo a me, ve lo giuro. – La voce era soffocata dai singhiozzi, ma l’uomo continuò: – A questo punto vi avrei detto tutto, cazzo! Qualunque persona normale vi avrebbe detto tutto!
Boka sorrise stancamente. – Signor Radu, si stupirebbe di sapere fino a che punto può arrivare la lealtà di una persona.
Radu sputò e lo fissò, c’erano rabbia, dolore e stanchezza in quegli occhi. – Lealtà? Verso Saint-Laurent? Mi ha scaricato appena ha potuto, mi ha sostituito con un’altra. Ecco! È a lei che dovreste chiedere queste cose, alla sua nuova cazzo di pupilla.
Boka sospirò di sollievo. – Un nome.
– E chi altro volete che sia: Cross!
– Alexandra Cross? Dell’Indomitable?
– Alexandra bastarda Cross, certo. Se volete qualcuno che sappia qualcosa andate da lei, sterminate la sua di famiglia! – urlò con quanto fiato aveva in gola.
Boka si alzò in piedi pensieroso e guardò Smith. – Pensi che dica la verità?
Smith non rispose subito, nel corso degli anni Boka aveva imparato a fidarsi delle opinioni di quell’uomo; era sicuramente il più perspicace di tutto il gruppo, forse fin troppo.
– Secondo me, non sa un cazzo – rispose infine Smith.
Lui era d’accordo. Qualcuno doveva avere preso un granchio. Ma non era un suo problema, lui stava eseguendo gli ordini. – Sai cosa fare – disse a Smith, che un istante dopo sparò alla testa di Radu, trasformandola in un ammasso di carne liquefatta.
– E di lei, che ne facciamo? Posso bruciarla? – chiese Murdock, stringendo la bambina che tremava e piangeva.
Boka fece una smorfia di disgusto e guardò la bambina; di nuovo gli venne in mente sua sorella. Si rivide mentre poggiava il cuscino sul viso di lei per soffocarla. Immaginò la sensazione che avrebbe provato nello stringere le sue mani attorno a quel piccolo fragile collo, oppure lasciare fare a Murdock, anche le bambine della scuola su Asa erano bruciate, e lui aveva i filmati gelosamente conservati nel suo alloggio, nel relitto che era la loro casa. Sarebbe stato bello, sarebbe stato anche appagante, ma lui era Uno, ed era meglio che i suoi capi non immaginassero nulla di tutto ciò.
– Sparatele – disse sentendo il dispiacere per quella rinuncia.
Il volto di Murdock si incupì.
Boka gli diede le spalle e percepì, più che vedere, Smith afferrare la bambina, praticamente strappandola dalle braccia di Murdock, e poi la radura si illuminò di un’ultima vampata di plasma.
Attivò il canale di comunicazione. Un attimo dopo un uomo, dal volto anonimo con l’uniforme nera e le mostrine color ruggine del Dipartimento di Sicurezza, comparve davanti a lui.
– ROGUE Uno, il soggetto ha parlato? – chiese con voce roca e distorta.
– No, signore. L’informazione era sbagliata, il commodoro non sapeva nulla.
Il volto olografico si rabbuiò. – Questo è male, ROGUE Uno. Allora la missione è fallita.
– Non proprio generale, ha dato un nome: Alexandra Cross.
– Un nome che conosciamo già – rispose l’altro insoddisfatto.
– Sì, signore, ma forse merita indagini più approfondite.
– Queste non sono cose che puoi decidere tu, ROGUE Uno. – Il tono era freddo e Boka deglutì nervosamente, stava per rispondere scusandosi, ma l’uomo lo anticipò. – Tuttavia, forse hai ragione.
– Vuole che ce ne occupiamo noi?
L’uomo sembrò valutare la proposta per alcuni istanti, poi scosse la testa.
– No, almeno per il momento useremo altri metodi. Tornate alla base. – L’immagine tremolò e scomparve.
Boka sospirò, gli alberi con i loro tronchi bianchi e le chiome nere come le tenebre sembravano pronti ad accoglierlo in mezzo a loro, ma non sarebbe successo, del resto lui era già morto. Si voltò e ignorò i cadaveri distesi a terra, sicuramente da qualche parte qualcuno aveva già pronta la storia perfetta per giustificare la brutale uccisione del commodoro e della sua famiglia, una storia che non avrebbe mai fatto pensare all’esistenza della ROGUE, probabilmente utilizzando quei serf che negli ultimi mesi avevano iniziato a fare stupidi e inutili attentati, trasformandosi in perfetti capri espiatori per ogni nefandezza presente o futura. Quanto a loro, a nessuno sarebbe piaciuto sapere che genere di mostri l’Impero utilizzava per proteggere i suoi cittadini.
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