“Il ciclo di Dune” otto romanzi, “I canti di Hyperion” quattro romanzi, “Il ciclo di Rama” quattro romanzi, il “Ciclo delle Fondazioni” sette romanzi, il “Ciclo dei Giganti” cinque romanzi, “Il ciclo di Eymerich” dodici romanzi. L’elenco potrebbe continuare a lungo ma il concetto penso sia chiaro: la Fantascienza è nemica della brevitas?
Il fenomeno della serialità, declinato in varie forme, è diffuso in tutti i generi letterari di consumo. Nel giallo, per esempio, è molto comune trovare un protagonista, con caratteristiche psicologiche e fisiche ben precise che torna, di volta in volta, per risolvere i vari casi. Può avere un’evoluzione oppure rimanere cristallizzato nella forma originale per anni, senza mai invecchiare o subire tutte le angherie inflitte dal tempo a noi comuni mortali. Questa forma di serialità è molto apprezzata in Italia e, sconfinando in un altro media, ha contribuito al successo dei fumetti della Bonelli.
Anche nella Fantascienza troviamo questo genere di serialità, ma gli scrittori di questo genere prediligono una serialità basata sul worldbuilding, vale a dire sull’ambientazione e su tutte le sue particolarità sociali, scientifiche e religiose. Cambiano i protagonisti ma le storie narrate sono tutte calate nello stesso ambito. Il desiderio di molti autori è creare un (profittevole) “universo espanso”, un contesto ben riconoscibile in cui ambientare potenzialmente un’infinità di storie. Insomma, una vera e propria miniera d’oro. Ma sono in molti a cercare l’oro nel Klondike degli “universi espansi”, e trovarlo è diventato difficilissimo, quasi impossibile.
Ho sempre pensato, forse a torto, che ci siano solo due motivi per cui un autore scelga la serialità. Il primo, forse il più raro, è che la sua storia necessita di diverse centinaia, se non migliaia, di pagine per essere raccontata in maniera compiuta, quindi viene progettata e scritta rischiando di non incontrare mai un editore disposto a investire in un’impresa a lungo termine (il trucco è rendere ogni libro autoconclusivo). Il secondo, più comune, è che la storia – nata magari come un unico romanzo – è stata molto apprezzata (leggi venduta) e l’autore, d’accordo con il suo editore, vuole replicarne il successo proponendo ai lettori la stessa formula vincente.
Salvo rarissimi casi, la serialità è, a torto o a ragione, considerata indice di scarsa qualità dalla critica letteraria. Questa cosa fa molto soffrire gli autori di Fantascienza (e non solo) col “vizietto” delle saghe infinite che, giustamente, ambiscono anche a vedere riconosciute le proprie opere alla pari di quelle cosiddette mainstream. Recentemente il “New York Times” ha stilato una lista dei cento migliori libri del XXI secolo, contiene solo due romanzi di Fantascienza (anche se i loro editori italiani fanno di tutto per non definirli così…): L'atlante delle nuvole di David Mitchell e La strada di Cormac McCarthy. Nessuno dei due romanzi ha un seguito, un prequel né tantomeno appartiene a una serie.
Una piccolissima speranza però c’è anche per i fantascientisti grafomani che ambiscono a rimanere nella storia della Letteratura. Nel suo “Canone occidentale” Harold Bloom, tra i testi e gli autori citati come apice della letteratura occidentale, inserisce la “Commedia” di Dante Alighieri. Un capolavoro catalogabile oggi come letteratura fantastica con una sua serialità interna. Non si può certo dire che sia Fantascienza, ma da qualche parte si dovrà pure cominciare.
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