Era una giornata simile a tante altre, erano da poco passate le 14, e Oriana era da poco smontata dal lavoro e stava andando a casa. Lei si trovava sul marciapiede, e a pochi passi da lei, una donna che spingeva una carrozzina con un neonato, stava attraversando la strada sulle strisce pedonali.

Tutto avvenne nel giro di pochi secondi: un'automobile lanciata a folle velocità attraversò la strada puntando dritto contro la donna e il bambino, senza accennare minimamente a frenare, la cosa si sarebbe drammaticamente risolta nel giro di pochi istanti.

Prima ancora di aver afferrato pienamente la situazione e di essersi resa conto di quello che stava facendo, Oriana aveva spiccato un balzo e si era gettata di fronte al bolide in arrivo, facendo scudo col suo corpo alla donna e alla carrozzina.

Quel che accadde subito dopo, fu troppo rapido perché se ne potesse avere un'idea precisa. Oriana vide la macchina fermarsi di colpo come se avesse urtato un ostacolo invisibile. Là dove il parafango era venuto a contatto con la sua mano che aveva portato davanti al volto in un istintivo gesto di difesa, si era formata una grossa ammaccatura.

Si trovò sbalzata in aria per una decina di metri. Con una specie di volteggio, si rimise eretta e atterrò sulle punte dei piedi. Si accorse di aver perso le scarpe, di aver rotto il collant, e che i suoi abiti presentavano numerose gualciture, ma lei stessa, il suo corpo, le pareva che non avesse subito alcun danno.

In pochi minuti si era formato tutto attorno un gran capannello di gente, e dopo un po' si udirono le sirene delle ambulanze e della polizia.

Il conducente della vettura investitrice, un uomo di una cinquantina d'anni, forse non riuscendo a rimettere in moto il veicolo, aveva aperto la portiera per svignarsela a piedi, ma era stato bloccato dalla folla. Tornò precipitosamente a rinchiudersi nell'abitacolo del veicolo, forse temendo un linciaggio.

Qualcuno aveva raccolto le scarpe e la borsetta di Oriana che erano finite chissà dove, e gliele porse.

Mentre gli agenti di polizia facevano scendere il conducente dalla vettura e lo caricavano su una volante, l'uomo rivolse a Oriana uno sguardo d'odio.

Sciocco e irrazionale – pensò lei – avrebbe dovuto esserle grato. Se non gli avesse impedito di uccidere la donna e il bambino, ora la sua posizione sarebbe stata ben più grave.

Signorina, vuole seguirci? – a parlare rivolto a Oriana era stato un paramedico sceso dall'ambulanza.

– Ma io sto benissimo –, replicò lei.

– Vuole scherzare? –, rispose l'uomo, – Ci potrebbero essere dei traumi interni che potrebbero manifestare le loro conseguenze più tardi.

Oriana si rassegnò a seguirlo.

Oriana era all'ospedale, si era pazientemente rassegnata a prendere posto su una barella sebbene non si sentisse affatto male. Poiché le era stato assegnato un codice verde, si aspettava una lunga attesa, invece un medico comparve dopo pochi minuti. L'uomo aveva un'espressione strana, era visibilmente in imbarazzo.

– È la cosa più strana che abbia mai visto –, disse. – Signorina, io non so come dirglielo, ma abbiamo appena ricevuto una telefonata dall'alto che ci ordina di dimetterla immediatamente e di non farle alcuna analisi.

– Dall'alto? –, chiese Oriana.

– Si –, rispose il medico. – Dall'alto, da molto in alto, ed è una cosa che va contro tutti i principi della nostra professione. Sembra che nelle alte sfere qualcuno si interessi molto a lei, non so se in senso positivo o negativo.

– Per me sta bene –, disse Oriana. – Mi sento bene e voglio solo uscire.

– Un attimo, signorina, non abbia tanta fretta.

Il medico prese il ricettario che portava con sé e scrisse rapidamente qualcosa.

– Ecco –, disse. – Le prescrivo tre giorni di riposo, e mi raccomando, se avverte qualche sintomo non esiti a tornare da noi.

Oriana aveva letto meticolosamente la pila di giornali che ora aveva davanti a sé: non c'era il minimo riferimento all'incidente di cui era stata protagonista nemmeno nella cronaca locale che di solito abbondava di pettegolezzi e futilità, era come se qualcuno si fosse mosso molto tempestivamente per insabbiare tutta la faccenda.

Sia la mancata vittima, sia l'autista scriteriato le erano sembrate persone piuttosto comuni. Il motivo di tanto coverage doveva essere lei, il che si conciliava in pieno con la rapidità delle sue dimissioni, come se qualcuno avesse voluto impedire che i medici scoprissero qualcosa sul suo conto.

Ripensò a quei pochi istanti in cui aveva fermato la macchina investitrice, un'impresa impossibile per un essere umano comune.

– Devo essere una Supergirl in incognito –, pensò. – Con un'identità segreta talmente segreta che neppure io so di esserlo.

Eppure ricordava bene la sua storia personale, la famiglia, i compagni di giochi, gli anni della scuola, la laurea, il concorso, il lavoro al ministero. La morte dei genitori in quel tragico incidente d'auto, e il dolore che ne aveva provato. Poteva essere tutto falso? Si, lo poteva, eccome. Cancellare da una mente il ricordo degli eventi e sostituirvi una falsa memoria, in realtà è piuttosto facile.

Decise di fare una prova: poiché sapeva di essere una disegnatrice piuttosto brava, prese un blocco per appunti e si mise a disegnare i volti di mamma, di papà, di vari compagni di università, di svariate persone delle cui fisionomie avesse un ricordo preciso, poi scannerizzò i disegni e iniziò coi file così ottenuti una ricerca su Google Images.

Dopo pochi minuti non c'erano dubbi, trovava regolarmente in internet quei volti, erano tutti di personaggi minori dello spettacolo o protagonisti di spot pubblicitari. Qualcuno le aveva meticolosamente costruito un passato del tutto falso.

Una Supergirl dalla memoria cancellata? Più ci pensava, più la cosa le sembrava inverosimile. Quello di Superman era soltanto un fumetto. Nell'universo immaginario delle strisce disegnate, Superman, Supergirl, il cane Krypto e in alcune strisce c'era persino un cavallo dotato di superpoteri, li dovevano al fatto di essere superstiti di un mondo alieno andato distrutto. Data la vastità dell'universo, era semplicemente una probabilità talmente bassa da poter essere trascurata a tutti gli effetti pratici, che un pianeta dove la vita si era evoluta al punto da raggiungere una civiltà tecnologica potesse trovarsi abbastanza vicino alla Terra da poter essere raggiunto in un tempo paragonabile all'arco di una vita umana, quanto poi che in esso si fossero sviluppate le stesse, identiche forme viventi comparse sulla Terra, era così assurdamente bassa da essere ridicola.

E allora, quali altre possibilità rimanevano? Con un brivido gelido lungo la schiena si ricordò, ammesso che fosse un'esperienza reale e non costruita, di un compagno di università con cui aveva avuto una relazione breve e tormentata. Quando si erano lasciati dopo un ennesimo litigio, lui le aveva gridato: “Tu non sei una donna, sei una macchina, un robot”.

Era certamente un'iperbole per sottintendere la freddezza che lei gli stava mostrando in quel momento, eppure…

Essere una creatura artificiale, le sembrava in qualche modo più plausibile, eppure mangiava, dormiva, aveva sentimenti, emozioni, gusti.

Ad esempio aveva una certa golosità che cercava di tenere a freno per le paste alla crema.

Beh, questo non era poi risolutivo, l'idea di un automa, di una creatura artificiale che attraverso un processo di combustione ricavasse energia dagli alimenti simulando il metabolismo umano non era per nulla inconcepibile, e non vi era motivo perché la sua programmazione non includesse periodi di inattività simile al sonno degli umani. Gusti e inclinazioni, di questo era meno sicura, ma probabilmente potevano essere instillati proprio come i falsi ricordi.

“Ma posso provare dolore”, si disse.

Sebbene le sembrasse inutile sincerarsene, accese il fornello del gas e avvicinò alla fiamma la punta dell'indice della mano destra.

La ritrasse con un piccolo grido.

Su questo non c'era dubbio: FACEVA MALE.

Si rese conto che neanche questo era probante: se un androide aveva sul corpo sensori che avvertivano delle situazioni dannose o pericolose, avrebbero agito in modo simile alle terminazioni nervose umane, avrebbe avvertito soggettivamente un segnale di questo tipo come dolore.

Come un riflusso mareale, più volte il Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica era stato incorporato a quello della Pubblica Istruzione e poi di nuovo scorporato a seconda delle concezioni e soprattutto delle convenienze politiche di chi era in quel momento al governo. Quando i due ministeri erano fusi, celavano la loro duplice identità sotto l'acrostico MIUR, ma in qualche modo, ciascuno dei due aveva mantenuto una propria identità, con uffici e personale separati. Oriana lavorava al Ministero dell'università e della Ricerca che in quel momento era autonomo.

Non si era aspettata nessuna accoglienza trionfale come salvatrice di due vite al suo rientro al lavoro, e non la ebbe, per i colleghi era stata semplicemente assente tre giorni “per malattia”.

Era quasi certa che il concorso che aveva sostenuto per avere il posto in quel ministero fosse un falso ricordo come del resto la sua laurea. C'era una ragione perché l'avessero messa proprio lì, forse per tenerla meglio d'occhio.

Attese la pausa pranzo, quando gli uffici si svuotavano, poi prese un ascensore e si recò a uno dei piani alti, quelli dove di solito gli impiegati non andavano mai. Lì c'era un archivio dove si conservavano i fascicoli che per un motivo o per l'altro erano riservati. Oriana era certa che se c'era un suo fascicolo, dovesse trovarsi proprio lì.

Naturalmente, la porta era chiusa a chiave, ma Oriana riuscì a forzare la serratura con una facilità che la sorprese con l'ausilio di una limetta per unghie.

Quello era un luogo dove nessuno andava quasi mai, ma era meglio agire in fretta per evitare di essere scoperta. Si mise a rovistare tra i fascicoli sugli scaffali, velocemente ma con ordine.

Fu sorpresa di trovare abbastanza rapidamente quello che cercava, un fascicolo che sulla copertina cartonata riportava scritto in stampatello a caratteri vistosi: ORIANA, doveva essere certamente il suo.

– Ciao, Oriana –, la voce d'uomo risuonò alle sue spalle e, strano, non sembrava avere alcun tono di rimprovero per averla colta in una situazione irregolare, pareva quello di una normale conversazione fra amici.

Si voltò. L'uomo che si trovò di fronte poteva avere una sessantina d'anni, aveva i capelli grigi e un abito sobrio ma molto curato. Si accorse che per lei non era del tutto uno sconosciuto, era un dirigente importante del ministero, qualche volta aveva ascoltato delle sue conferenze e un paio di volte l'aveva visto in TV.

– Lei mi conosce? –, chiese sorpresa.

– Si, ti conosco –, rispose lui. – Probabilmente so sul tuo conto più cose di quello che sai tu stessa. Non cercherò di negare o di nascondere quello che sai già. Guarda il fascicolo che tieni in mano.

Oriana guardò, vide che il nome ORIANA sulla copertina del fascicolo era in realtà un acrostico, intervallate c'erano lettere più piccole difficilmente visibili a un primo sguardo, che formavano una frase. Lesse: “Organismo Robotico con Involucro Antropomorfo Non Apparente come tale”.

– È questa la verità –, disse. – Sono una macchina.

L'uomo ebbe un sorriso divertito.

– Ma mia cara – rispose, – non devi pensare ai robot fatti di ferraglia della fantascienza vecchia maniera. Tu sei il prodotto di avanzati materiali di ultima generazione, frutto di nanotecnologie. Una macchina, ma siamo tutti delle macchine, noi umani non siamo che macchine fatte di carne, ossa, sangue e visceri. La consapevolezza, quella che chiamiamo pomposamente autocoscienza non è che il risultato della complessità strutturale, e da questo punto di vista tu sei viva, anzi, più viva di molti di noi. Vedi, noi siamo arrivati al punto di poter creare esseri artificiali, non mi piace la parola robot, indistinguibili dagli esseri umani per aspetto e, cosa molto più importante, per comportamento, le applicazioni possibili sono infinite, dal campo militare alla medicina, ma dovevamo fare un esperimento pilota, verificare se una creatura artificiale potesse vivere in mezzo a noi passando in tutto e per tutto per un comune essere umano.

– E adesso che so la verità – chiese Oriana, – cosa farete? Mi sopprimerete? Mi smantellerete?

Il sorriso sul volto del dirigente si era fatto più accentuato.

– Ma mia cara –, rispose. – Perché mai dovremmo fare una cosa del genere? Tu sei interessata quanto noi, anzi più di noi, a mantenere la riservatezza.

L'uomo mise un braccio sulla spalla di Oriana.

– Ti è stato fatto un grande dono – disse. – Una vita che potrebbe durare secoli, e che non conoscerà né malattia né vecchiaia. Goditela.