Base Mist. 19° giorno. Mattino.
Sarà una bella primavera. Come è vellutato e bruno il lato inferiore delle foglie di quest’albero… I capelli di Reya… e morbidi come quest’erba giovane… I crochi ogni giorno sono più fitti. Gli occhi di quel colore. E il sorriso dolce come quest’aria luminosa.
Chiudo le mani a pugno e le premo sulle palpebre. Di nuovo mi sembra di non farcela più. Temo e spero la liberante follia. Quando la sua sorte era incerta pensavo che vivere senza di lei sarebbe stato impossibile. È vero. Ma ci si può abituare anche a questa non--morte.
In giorni come questi Rheya, rapidamente, festosamente scalza, burlandosi dei miei doveri e dei confini di questo prato avrebbe corso, ubriacandomi di risate, inviti e termini botanici.
Affondo nel ricordo inevitabile. Un dolore che ho scelto. Non voglio l’oblio offertomi dai medici: Fenrir, “il lupo di Nar”, mio luogotenente testardo. Per fargli piegare le ginocchia gliele spezzarono. Sigsræll, che riuscì, beffa per i nostri aguzzini, a morire.
Ingiusto non ricordare. Stazione Keldar era neutrale e piacevole il riposarvi. Per questo quando la invasero ci catturarono in molti. Ci separarono dai civili. Rheya era di certo in una di quelle orribili stanze, ma non disse loro nulla. L’avrei vista. Nessuno strumento di debolezza veniva sprecato. Fenrir mutò le urla ingiuriose e le imprecazioni, che sole fino allora avevano ottenuto, in parossistiche suppliche quando, dalla stanza accanto, fu condotta quella ormai povera cosa sanguinante che aveva ammesso essergli figlio. Il ragazzo morì, con nostro sollievo, prima del crollo delle ultime sbriciolate difese del mio soldato. Desideravamo non aver amato o amare nessuno.
Spesso mi decantano, Lug è il primo, la mia fortuna: pochi giorni. Una prigionia breve. L’Imperatore si era arreso. Avevamo vinto.
Volevo cercarla e lo chiesi a chi, sciolti i miei legami, mi sosteneva, ma con il dono pietoso di un breve sonno incosciente, i miei liberatori sfuggirono alla richiesta. Non mi mentirono: dissero che era morta, ma mi fu impedito vederla. Nel loro fardello più lieve intuii il piccolo corpo. Mi fecero di nuovo dormire.
Mi appoggio all’albero per rialzarmi. Zoppico, ma i medici hanno detto ancora per poco. Guarirò presto. Mi pongo di fronte al sensore apriporta per uscire. Ritorno nei corridoi della base. Mimir, il tecnico, mi viene incontro. Anche lui ha voluto che questa nostra temporanea residenza avesse una Cupola Verde. Lug, il mio giovane, irrequieto subalterno, non perde occasione per lamentarsi dell’eccentricità di un nostro desiderio. Perché volere le stagioni, quando sotto la copertura “cielo” della serra potremmo avere sempre giorni di “sole”?
Mimir non ha intenzione di entrare nella serra. È venuto a informarmi che anche l’ultimo “ripulitore” è fuori uso. Una trappola elettrica nel Settore Blu/sette. E così anche questa zona non tornerà abitabile nei tempi previsti. La superiorità paziente del tecnico aumenta la mia esasperazione. Mi sforzo, però, di seguirne le interminabili spiegazioni. Solo mani e sensibilità umane hanno qualche speranza di successo in quest’imprevedibile luogo. Ma non posso chiedere a nessuno dei miei uomini di entrare in quei cubicoli, disattivare le armi lasciate dai vecchi inquilini e con tutta probabilità farsi friggere o affettare sulla strada del ritorno da qualche maligno marchingegno nascosto.Base Mist. 19° giorno. Mattino.
Sarà una bella primavera. Come è vellutato e bruno il lato inferiore delle foglie di quest’albero… I capelli di Reya… e morbidi come quest’erba giovane… I crochi ogni giorno sono più fitti. Gli occhi di quel colore. E il sorriso dolce come quest’aria luminosa.
Chiudo le mani a pugno e le premo sulle palpebre. Di nuovo mi sembra di non farcela più. Temo e spero la liberante follia. Quando la sua sorte era incerta pensavo che vivere senza di lei sarebbe stato impossibile. È vero. Ma ci si può abituare anche a questa non--morte.
In giorni come questi Rheya, rapidamente, festosamente scalza, burlandosi dei miei doveri e dei confini di questo prato avrebbe corso, ubriacandomi di risate, inviti e termini botanici.
Affondo nel ricordo inevitabile. Un dolore che ho scelto. Non voglio l’oblio offertomi dai medici: Fenrir, “il lupo di Nar”, mio luogotenente testardo. Per fargli piegare le ginocchia gliele spezzarono. Sigsræll, che riuscì, beffa per i nostri aguzzini, a morire.
Ingiusto non ricordare. Stazione Keldar era neutrale e piacevole il riposarvi. Per questo quando la invasero ci catturarono in molti. Ci separarono dai civili. Rheya era di certo in una di quelle orribili stanze, ma non disse loro nulla. L’avrei vista. Nessuno strumento di debolezza veniva sprecato. Fenrir mutò le urla ingiuriose e le imprecazioni, che sole fino allora avevano ottenuto, in parossistiche suppliche quando, dalla stanza accanto, fu condotta quella ormai povera cosa sanguinante che aveva ammesso essergli figlio. Il ragazzo morì, con nostro sollievo, prima del crollo delle ultime sbriciolate difese del mio soldato. Desideravamo non aver amato o amare nessuno.
Spesso mi decantano, Lug è il primo, la mia fortuna: pochi giorni. Una prigionia breve. L’Imperatore si era arreso. Avevamo vinto.
Volevo cercarla e lo chiesi a chi, sciolti i miei legami, mi sosteneva, ma con il dono pietoso di un breve sonno incosciente, i miei liberatori sfuggirono alla richiesta. Non mi mentirono: dissero che era morta, ma mi fu impedito vederla. Nel loro fardello più lieve intuii il piccolo corpo. Mi fecero di nuovo dormire.
Mi appoggio all’albero per rialzarmi. Zoppico, ma i medici hanno detto ancora per poco. Guarirò presto. Mi pongo di fronte al sensore apriporta per uscire. Ritorno nei corridoi della base. Mimir, il tecnico, mi viene incontro. Anche lui ha voluto che questa nostra temporanea residenza avesse una Cupola Verde. Lug, il mio giovane, irrequieto subalterno, non perde occasione per lamentarsi dell’eccentricità di un nostro desiderio. Perché volere le stagioni, quando sotto la copertura “cielo” della serra potremmo avere sempre giorni di “sole”?
Mimir non ha intenzione di entrare nella serra. È venuto a informarmi che anche l’ultimo “ripulitore” è fuori uso. Una trappola elettrica nel Settore Blu/sette. E così anche questa zona non tornerà abitabile nei tempi previsti. La superiorità paziente del tecnico aumenta la mia esasperazione. Mi sforzo, però, di seguirne le interminabili spiegazioni. Solo mani e sensibilità umane hanno qualche speranza di successo in quest’imprevedibile luogo. Ma non posso chiedere a nessuno dei miei uomini di entrare in quei cubicoli, disattivare le armi lasciate dai vecchi inquilini e con tutta probabilità farsi friggere o affettare sulla strada del ritorno da qualche maligno marchingegno nascosto.
La guerra è finita, ma la pace deve ancora incominciare. Milioni di armi appena assopite sono ancora disseminate su tutte le rotte e in tutti i pianeti coinvolti nella guerra e, come la nostra, centinaia di squadre stanno cercando di fare pulizia. Ho voluto questo incarico quale termine della convalescenza. Se fossi in forma andrei io in quel dannato settore.
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