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L’uomo si svegliò di soprassalto e trovò la donna china su di lui. Era a malapena un’ombra contro la luce della candela che non riusciva a rischiarare la piccola cabina. Gli ci volle qualche secondo per uscire dal proprio sogno e rendersi conto di dove e soprattutto quando si trovasse.

– Si muova, e in silenzio – sibilò lei.

Lui si era addormentato completamente vestito, quindi scese dalla cuccetta e la seguì. Avrebbe voluto almeno sciacquarsi nel piccolo bacile gli occhi ancora collosi di sonno ma lei, avviandosi verso la porta della cabina, non gliene lasciò il tempo.

Cercando di non fare rumore, salirono in coperta. La luna illuminava un mare ancora agitato. Il lento ansimante tum tum del motore e gli schiaffi delle pale nell’acqua erano gli unici suoni per miglia di mare.

Lei sedette sui talloni accanto al boccaporto che portava sottocoperta e l’agente la imitò.

– Che facciamo adesso? – chiese a voce bassissima. Non si sentiva per niente bene. La tempesta che aveva investito la nave dalla mezzanotte sin verso le quattro l’aveva lasciato scombussolato e neppure si era reso conto di essersi addormentato esausto. Oltretutto, c’era anche la tensione per il suo battesimo del fuoco che gli attanagliava lo stomaco. Negli anni di servizio gli era capitato di trovarsi nel pieno di un conflitto a fuoco due volte, ma qui si trattava di una cosa molto differente. E il saliscendi della tolda sotto i suoi piedi non migliorava la situazione. Doveva aggrapparsi a un asse di legno per non rovinare e rotolare sul ponte.

– Aspettiamo, è l’Aperitivo del Viaggiatore Temporale, sei parti di attesa e una di azione. Mi raccomando, dovrebbero avere con loro un canotto di quelli gonfiabili per tornare a Palermo o quanto meno arrivare a riva. Come lo vede, cerchi di bucarglielo. Noi dovremo essere gli unici due a lasciare la nave – rispose lei, portando le ginocchia al petto.

L’aria era fredda. Il mare si stava progressivamente calmando, ma c’era un vento gelido e umido che faceva rabbrividire. – Tutto nella norma. Noi ci facciamo in quattro per rispettare le regole e non portare tecnologia proibita nel passato e gli altri se ne fregano, oppure nemmeno sanno che esistono, le regole.

Non dovettero attendere a lungo. Da sottocoperta venne il rumore di piedi che salivano velocemente per la scala. Lei si alzò e tirò fuori il coltello da sotto la gonna e l’uomo la imitò.

Proprio in quel momento, dal boccaporto schizzarono fuori due uomini che si lanciarono verso la murata più vicina. Prima che lui riuscisse a fare una mossa, la donna saltò da dietro addosso a quello di testa, cercando di afferrarlo per il collo. Il collega intuì che lei voleva tagliargli la gola. Ma il primo a uscire era stato il gigante e con una breve lotta riuscì a scrollarsela di dosso.

Arrivò il complice. Memore di tutte le lezioni ricevute, la più importante delle quali gli si era stampigliata nel cervello: “colui che colpisce per primo colpisce due volte e torna a casa”, l’agente, l’accoltellò al fianco, dal basso verso l’alto, come l’incursore della Marina gli aveva gridato come un ossesso una dozzina di volte durante il corso di tre giorni.

L’attacco fu un successo soltanto a metà perché il pugnale di Mariani squarciò il canotto ancora ripiegato che l’altro portava a tracolla.

L’uomo si girò, furibondo, estraendo di tasca un coltello a scatto. Si avventò in avanti e Mariani riuscì a evitare la punta dell’arma per appena due centimetri. Si buttò di lato ed ebbe la soddisfazione di riuscire a fargli un taglio alla mano. Ma questo anziché frenarlo sembrò incattivirlo ancora maggiormente.

Poi il suo avversario si lanciò di nuovo. Le due lame sbatterono con violenza una contro l’altra e lui sentì l’urto ripercuotersi dolorosamente contro il polso. Con la coda dell’occhio vide la collega duellare a sua volta contro il proprio nemico. Almeno lei aveva il vantaggio della propria agilità contro i movimenti lenti dell’uomo.

L’altro fintò un paio di volte, poi scattò in avanti. L’attacco sarebbe riuscito se il rollio della nave non l’avesse sbilanciato. Ritraendosi urlò al complice: – Il canotto è andato!

– Vai ai salvagente! – Gridò questi di rimando mentre la donna gli dava un attimo di respiro.

L’uomo corse verso la murata e verso poppa e l’agente dell’UCCI si lanciò dietro di lui.

Dalla prora venne il suono di un’esplosione e la nave sbandò, facendolo cadere e rotolare sul ponte.

Urla terrorizzate iniziarono a provenire da sottocoperta mentre l’imbarcazione cominciava a imbarcare acqua e a inclinarsi in avanti e una campana prendeva a suonare a martello.

Il primo ufficiale, salito in coperta senza capire nulla, cercò di afferrare Mariani che si stava rialzando ma lui riuscì a sgusciargli tra le dita, inseguendo la propria preda.

Tenendo nella destra il pugnale, riuscì ad afferrare l’avversario per la spalla con la sinistra. Stava iniziando a mancargli il fiato, ma adesso non c’era più nulla da dimostrare, questa era diventata una lotta per la sopravvivenza.

Poi ci fu il boato dell’esplosione della caldaia che squarciò la nave, e Mariani e l’altro vennero sbattuti contro la murata e caddero in mare. La caduta non fu da molto in alto perché il piroscafo a pale era basso sul pelo dell’acqua, ma l’urto di schiena con il mare, in apparenza solido come un blocco di cemento, si ripercosse dolorosamente lungo la sua colonna vertebrale.

Mentre schivava i colpi, impacciato dall’acqua e dai vestiti bagnati che rallentavano i suoi movimenti, cercò di fare appello alla ragionevolezza del nemico, terrorizzato da quello che stava per accadere mentre la nave iniziava a colare a picco di prua. – Dobbiamo allontanarci il più possibile! Se la nave affonda il gorgo ci trascinerà sotto con lei – gridò.

Ma l’altro ignorò le sue giuste argomentazioni e lui dovette continuare a cercare di difendersi, mentre il suo istinto gli diceva di nuotare lontano. Un unico insegnamento stava lampeggiando come un neon rosso nel suo cervello. “Mai rimanere nelle vicinanze di una nave che affonda!”

Durante il corpo a corpo riuscì ad assestare un colpo di testa all’attaccatura del naso dell’avversario e come sentì la mano che lo tratteneva allentarsi, ne approfittò per cercare di allontanarsi. Arrivato a una ventina di metri si volse a guardare la nave che stava andando giù rapidamente mentre i pochi uomini e donne, sopravvissuti alla prima e alla seconda esplosione, quella che aveva innescato lo scoppio della caldaia, che si erano radunati in coperta, gridavano disperati cercando di arrivare ai pochi salvagente.

Rimase a guardare mentre l’Ercole si inabissava.

Ma dove era la sua compagna?

Esausto, annaspò nell’acqua fino a che riuscì ad afferrare un rottame, tre assi inchiodate insieme. I vestiti e le scarpe complottavano per tirarlo sotto e impacciarlo nei movimenti. Per un attimo pensò di strapparsi via le scarpe, poi immaginò che in seguito avrebbero potuto essergli necessarie.

Si guardò intorno, sulla superficie, illuminata dalla luna, non c’era rimasto nessuno, soltanto dei pezzi del fasciame, una giubba rossa e altri rottami del naufragio. Si sentì perduto, abbandonato in mezzo al Mediterraneo, in mezzo al Tempo e lontano dalla macchina di Leonardo più vicina. Come avrebbe fatto a salvarsi?

Adesso stava per morire, per suo padre, per gli stronzissimi amici di suo padre, per la testa di piffero del generale Salviotti, per l’infernale Direttore dell’UCCI e non per ultimo per la presuntuosa smandrappata miss Sotuttoio. E non avrebbe avuto nemmeno una tomba, perché non era mai stato recuperato il corpo di alcun naufrago dell’Ercole. Almeno questo era ciò che diceva il rapporto del Ministero per la Guerra, ma chi è che si fida di un Ministero per la Guerra?

Le assi a cui era aggrappato si accostarono a un altro insieme di rottami. Proprio da lì, sbucò ancora la sua nemesi. L’uomo mollò la presa e si lanciò nuotando verso di lui, gridando di rabbia. Mariani urlò spaventato. Cercò di afferrare il coltello per scoprire che l’aveva perso. Malgrado la situazione gli venne soltanto di pensare che l’assalitore gli avrebbe sfracellato i timpani gridando come un folle.

Mentre l’altro cercava di afferrarlo per il collo per strangolarlo, lui iniziò a colpirlo in viso con i pugni, ma era esausto per la lotta e l’angoscia e i suoi colpi non avevano forza. Cercò di afferrargli i polsi, nel tentativo di costringerlo a mollare la presa, ma le mani bagnate non riuscivano a trovare una presa soddisfacente. Rimasero per diverse decine di secondi avvinghiati uno all’altro, ringhiando, sbuffando e ansimando, poi l’agente italiano vide l’avversario spalancare gli occhi sorpreso mentre veniva tirato sott’acqua. Lui quasi si sentì trascinare a fondo insieme a lui, poi con la forza della disperazione riuscì a sfuggire alla sua presa un attimo prima che l’altro sparisse.

Dopo un attimo il mare rimase vuoto, mentre a malapena iniziava ad albeggiare.