Un articolo di Carmine Treanni su Delos Science Fiction 254 riporta la notizia che la scrittrice giapponese Ria Kudan, la quale ha vinto il prestigioso premio letterario Akutagawa con il romanzo di fantascienza The Tokyo Tower of Sympathy, ha dichiarato di aver scritto il romanzo insieme all’Intelligenza Artificiale ChatGBT. Di fatto un 5% del testo è opera della IA, ma il punto è che la sua collaborazione si è estesa per l’intera stesura del romanzo. Non a caso se ne parla anche nell’editoriale di Writers Magazine 67 a firma di Claudia Cocuzza.
Entrambi gli articoli pongono la questione di come vada inteso il contributo della IA, e qui cercheremo di abbozzare una prima risposta. Gli aspetti del problema sono molteplici, ma i punti essenziali sono quello del diritto di autore e quello della creatività. La prima cosa da osservare è che le due questioni sono interconnesse, ma anche in contrasto tra loro. Infatti, la tesi che una IA possa essere accusata di plagio presuppone che essa non sia così creativa come sembra.
A mio avviso, il contributo di una IA a un’opera artistica che implichi creatività può essere di tre tipi:
1) La IA collabora con l’autore.
2) La IA produce una certa quota dell’opera.
3) La IA produce l’intera opera.
Il caso di Ria Kudan comprende i primi due punti. Nel primo caso credo che la IA si possa considerare solo uno strumento, benché di tipo particolare. Noi umani usiamo da sempre molti dispositivi. Perfino un banale cacciavite (che in realtà non è affatto banale) ci permette di fare una cosa che a mani nude non potremmo fare: inserire a forza una vite in un pannello di legno. Noi non diciamo che il cacciavite ha fatto il lavoro, ma che noi abbiamo avvitato la vite.
Ma un cacciavite non è intelligente, si dirà, e nemmeno una lavatrice. In realtà una lavatrice contiene dell’intelligenza incorporata, solo che si tratta di intelligenza sintattica e non semantica, cioè riguarda delle operazioni fisiche e non il significato. Il punto è proprio questo: anche il nostro personal computer contiene solo intelligenza sintattica e non semantica, e questo vale anche per la IA. E allora perché siamo portati a supporre che una IA pensi?
I motivi credo siano due. Il primo deriva dal fatto che il linguaggio umano è il formato sintattico dei pensieri, i quali hanno invece un formato semantico, ovvero sono significativi. Dato che noi traduciamo i messaggi, vale a dire che traiamo da essi un significato, siamo portati a supporre che il formato sintattico “contenga” il significato, ma in realtà siamo noi ad attribuirglielo.
Così, il fatto che una chatbot “conversi” con noi ci dà l’impressione che capisca ciò che diciamo e che ci risponda, quando invece essa non fa altro che accoppiare al nostro messaggio un messaggio che ha selezionato dal suo archivio o dalla rete, e che si adatta al nostro sulla base di un algoritmo che funziona su basi statistiche.
Fin qui la questione è relativamente chiara, ma considerare la IA come una semplice macchina si scontra non solo col fatto che essa parla (o sembra farlo) ma anche col fatto che la definizione di macchina è quella di un dispositivo che produce sempre la stessa cosa. Questo non sembra combaciare con un algoritmo capace di produrre qualcosa di nuovo: è la questione della creatività.
Una IA può produrre testi, immagini, musica e altro ancora. Lo fa usando un certo numero di esempi e applicando degli algoritmi di variazione a uno o più elementi scelti come base di partenza. Può produrre, ad esempio, una composizione pittorica o l’equivalente di una fotografia, utilizzando immagini di partenza tratte da un archivio o fornite dall’utente.
Già da tempo, in realtà, molti disegnatori usano i programmi grafici per modificare delle immagini ottenute da una fotografia, solo che in questo caso sono i disegnatori a suggerire alla macchina cosa modificare e come. Una IA invece decide per conto suo cosa variare e in che modo. Ma come fa una IA a deciderlo? Usa le istruzioni del programma. Perciò è il programmatore (di solito un team) che lavora dentro la macchina attraverso l’intelligenza sintattica che vi ha riversato dentro, ma per noi è la IA che fa tutto.
Nel caso del cinema, i software ormai da un pezzo producono gli effetti speciali, ma ora una IA potrebbe generare un intero film. Questo è impressionante, eppure non è molto diverso dal piazzare un intero arsenale di cineprese semoventi in una giungla, e ritrovarsi un documentario bello che pronto, a parte il montaggio. Se gli sceneggiatori di Hollywood possono teoricamente essere sostituiti dalle IA è anche perché loro per primi (sia pure su indicazione dei produttori) sono abituati a produrre opere che sono a volte semplici varianti di film già girati in precedenza.
Io credo che una IA possa produrre un buon lavoro solo se ha un coautore umano, e di converso un artista umano può certamente ricevere un grande aiuto da una IA, la quale rimane concettualmente uno strumento, piuttosto che un autore. Ciò che di creativo può produrre una IA deriva dal programma, dal caso, o dall’imbeccata dell’utilizzatore. Di per sé la IA non può produrre arte in modo deliberato, per il semplice fatto che non è in grado di valutare cosa produce.
Il massimo che possa fare una IA è di creare un’opera “alla maniera di” un autore famoso, ma si tratterebbe di un’imitazione. Naturalmente non è detto che un umano qualsiasi sia in grado di riconoscere la differenza, ma la difficoltà nel distinguere un vero artista da un artista fasullo esisteva già quando si aveva a che fare solo con artisti umani. Perciò si tratta di un problema che si sta trasferendo da un ambito a un altro ambito.
Una IA può certamente produrre ad esempio una foto che noi possiamo trovare bellissima, ma siamo noi che attribuiamo la bellezza alle immagini che la IA ha creato. La IA non può farlo, ed è questa la vera differenza.
1 commenti
Aggiungi un commentoL'Ars Magna di Lullo, come l'Ars combinatoria di Leibniz (l'ars inveniendi in particolare) per prima cosa si basa sulla possibilità di simbolizzare i contenuti attraverso un sistema di segni linguistici, numerici, schemi e figure, manipolabili formalmente e flessibilmente tramite principi sintattici combinatori.
Fin qui ci siamo.
Rispetto al passato però molto è cambiato.
L'I.A. supera il concetto Leibniziano di mondo concettuale in sé conchiuso ed esauribile nei suoi limiti, perché i "Big Data" costituiscono un insieme esplorabile ma non determinabile: è l'opposto del progetto del "Calculemus!".
Dal mondo della certezza si passa al mondo dell'imprevedibile.
Ma il problema è che questi simboli e segni vengono collegati tra loro attraverso le regole che l'universo culturale dominante pone.
Da qui il difficile compito dell'artista di piegare l'I.A. a produrro qualcosa che sia al limite di quanto essa ha appreso, in modo di produrre qualcosa di nuovo.
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