Indi con molle
spugna ben tutto stropicciossi il volto
affumicato ed ambedue le mani
e il duro collo ed il peloso petto.
Poi la tunica mise; ed il pesante
scettro impugnato, tentennando uscío.
Seguían l’orrido rege, e a dritta e a manca
il passo ne reggean, forme e figure
di vaghe ancelle, tutte d’oro, e a vive
giovinette simíli, entro il cui seno
avea messo il gran fabbro e voce e vita
e vigor d’intelletto e delle care
arti insegnate dai Celesti il senno.
Queste al fianco del Dio spedite e snelle
camminavano.
Gli adepti della fantascienza sono sempre attentissimi a mettere il cappello sulla sedia, quando si tratta di far poi accomodare al tavolo della propria passione qualsiasi personaggio che si possa annettere, sia pur vagamente, al loro pantheon. E naturalmente non è sfuggito a nessuno il passo dell’Iliade, libro XVIII, nel quale Efesto (cioè Vulcano) forgia le armi di Achille con l’aiuto di alcune assistenti fatte del più nobile dei metalli. Eccoli, dunque, i primi robot dell’umanità, nella pregevole traduzione di Vincenzo Monti ai primi dell’Ottocento, righe 567/581.
E potevano farsi sfuggire la storia di Talos, il gigante di bronzo guardiano dell’isola di Creta, come nel III secolo a.C. viene raccontata da Apollonio Rodio nelle sue Argonautiche?
Era questi il solo rimasto dei semidei della razza del bronzo ch’era nata dai frassini, e Zeus l’aveva dato ad Europa come guardiano dell’isola, che percorreva tre volte coi piedi di bronzo.
Talos (che era già stato citato da Esiodo intorno al 700 a.C.) era invulnerabile perché il suo corpo era alimentato dall’icore, il sangue degli dèi. Metteva in fuga i nemici che tentavano di sbarcare nell’isola scagliando massi e non esitando a buttarsi nel fuoco per diventare incandescente e poi schiantarsi addosso ai nemici bruciandoli. Aveva però un punto debole (nei miti va a finire sempre così) in una caviglia, dove si trovava scoperta l’unica vena che conteneva il suo sangue pregiato. E la leggenda vuole che quando la spedizione degli Argonauti arriva sull’isola, il gigante viene dapprima reso folle da Medea e in seguito ucciso da una freccia che trafigge la sua vena (in qualche versione “robotica” ante litteram si parla addirittura dell’utilizzo di un attrezzo per rimuovere il grande bullone che chiude il suo punto debole).
L’uomo meccanico, l’essere artificiale, il built not born (non nato ma costruito), accompagna l’Homo da quando esso è definitivamente sapiens, in maniera indipendente da latitudini, longitudini ed epoche, e spinto da due bisogni apparentemente insopprimibili e complementari: essere creatore ed essere artefice, cioè avere l’idea geniale e utilizzare l’arte e la tecnica per realizzarla. Proprio a questo concetto la storica Adrienne Mayor, che insegna Scienza antica e folklore all’università di Stanford, California, ha di recente dedicato un suo cospicuo saggio, pubblicato dalla Princeton University Press: Gods and Robots: Myths, Machines and Ancient Dreams of Technology. Dei e Robot: miti, macchine e antichi sogni di tecnologia. Oltre trecento pagine dedicate soprattutto ai miti greci e romani, pur sapendo che parliamo comunque di un fenomeno trasversale per eccellenza. Nella società degli Inuit groenlandesi, per esempio, gli sciamani già secoli fa costruivano un Tupilak, partendo da pezzi di animali o parti di cadaverini di neonato: cioè una creatura artificiale fatta per uccidere una determinata persona. Nella Cina del III secolo il Trattato del Vuoto Perfetto, di ispirazione taoista, fa invece raccontare all’artigiano Yan Shi come si fabbrica un uomo meccanico con tutti gli organi interni funzionanti. Anche il medioevo islamico era pieno di presunti animali artificiali, compreso un flautista automatico nel IX secolo.
Poco di nuovo sotto il sole, insomma. Agli oppositori dell’automazione accusata di sottrarre posti di lavoro, che tanto hanno agitato il XX secolo, si può ricordare che la questione non è nata con la rivoluzione industriale. “Se ogni strumento potesse eseguire il proprio lavoro quando gli viene ordinato, o addirittura sapesse in anticipo cosa fare, se le spole riuscissero a tessere e le penne suonassero l’arpa da sole, i maestri artigiani non avrebbero bisogno di aiutanti e i padroni non avrebbero bisogno di schiavi”, sosteneva Aristotele già nel IV secolo avanti Cristo (rovesciando però i termini della questione stessa, visto che poneva la “robotizzazione” come elemento di abolizione della schiavitù). E un po’ più tardi, nel I secolo dopo Cristo, secondo Svetonio già l’imperatore Vespasiano, all’equivalente di un moderno ingegnere che gli aveva proposto “di trasportare con un nuovo sistema alcune pesanti colonne al Campidoglio, con una piccola spesa, offrì una ricompensa niente affatto piccola per la sua invenzione, ma si rifiutò di farne uso, spiegandosi: devo pur sfamare il mio povero popolo”.
Ma non è di questo che parleremo nelle prossime pagine. Già in molti hanno raccontato del cavaliere meccanico ipotizzato da Leonardo nel 1495 (per animare le feste degli Sforza), o degli automi settecenteschi, meraviglie di orologeria (per deliziare soprattutto nobili, principi e re) o di tante altre cose, soprattutto giocattoli senza pretese gnoseologiche e suggestioni mitologiche. Tralasciamo dunque il succedersi di saghe, leggende e rappresentazioni fantastiche e dedichiamoci invece a una vicenda che comincia proprio nel momento in cui l’uomo, oltre che libero narratore, scrittore, fabbricante di sogni (o di incubi) cartacei, diventa anche nella realtà fabbro e costruttore di proprie repliche più o meno funzionanti, di automi e di macchine con il cervello (presunto) artificiale. Vogliamo dire metà Ottocento, che è il secolo della chimica, della meccanica, della siderurgia e dell’elettricità, ma anche del grande romanzo? Perché ci sarebbero certo stati Tolstoj e Dickens, Dostoevskij e Dumas, ma anche Mary Shelley e Jules Verne (e poi, in quanti sanno che Ippolito Nievo nel 1860 si divertì a scrivere una Storia filosofica dei secoli futuri che arriva al 2222, e che per quanto riguarda il periodo 2066-2140 prevede la “creazione e moltiplicazione degli omuncoli, o esseri ausiliari”?). Parliamo insomma di un mondo nel quale cominciano a convivere le “storie” (il robot nella fiction, dunque narrativa, cronache, teatro, cinema, arte, fotografia) e la “Storia” (il robot nella realtà delle officine, dei laboratori e della vita quotidiana).
Protagonista del romanzo dell’uomo meccanico è – all’inizio – dunque il robot (o androide o cyborg, poi ci spiegheremo) e la sua rappresentazione, in un periodo che si potrebbe far terminare con la fine della Seconda Guerra mondiale. Poi la prospettiva cambia, la svolta avviene negli anni Cinquanta, e non le è estraneo lo shock delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki, che chiudono la guerra e aprono il dibattito sulle responsabilità degli scienziati. A partire da questi anni, infatti, il robot comincia a perdere molti dei suoi fattori perturbanti, sia in letteratura sia nella vita quotidiana. Diventa quasi un compagno di civiltà, un abituale protagonista di narrativa, e nessuno insomma sembra preoccuparsi più di tanto per il mechanical man che gli gira intorno. Perché? Perché negli incubi degli scrittori, ma anche di molti scienziati e del pubblico più in generale, a sostituirlo è qualcosa di diverso, più evoluto e soprattutto molto più probabile: il cosiddetto “cervello elettronico”.
Si può parlare di trama, scrivendo un saggio storico pur se in linguaggio disinvolto? Immagino di sì, se il soggetto si presta. Infatti nuovo protagonista della nostra trama diventa il computer, qualcosa di ben più complesso dell’uomo meccanico. Ed è così che, grazie al suo vertiginoso sviluppo, nella staffetta dell’inquietudine il testimone passa infine alla Intelligenza Artificiale, ben più angosciosa perché il robot, ostile o empatico che fosse, era comunque una entità fisicamente tangibile, presente, un “corpo”. L’Intelligenza Artificiale no. È una mente. La Mente. Che c’è già, ha cominciato a funzionare, agisce. “Presto lo farà per conto proprio”, prevedono alcuni, e fra loro ci sono anche quelli che l’hanno creata… Ma soprattutto – e questa è un’altra novità – suscita nell’Homo sapiens una paura diversa: non tanto quella di essere distrutto (come capitava d’abitudine con le creature che si ribellavano al loro creatore, vedi Frankenstein & C) quanto quella di essere sostituito dalla Machina sapiens. Ci dicono che un assaggio di tutto è già in corso. Raccontiamolo, prendiamone atto e vediamo come va a finire.
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