1.

– Ho l’impressione che mio figlio mi nasconda qualcosa.

Sara cercò di non dare a vedere che quelle parole l’avevano messa sul chi vive. Finì il suo infuso e posò la tazza sul tavolino di vimini di fronte a loro.

– Sì? – rispose a Silvia.

– Già. E non mi spiego… non so proprio da dove mi venga questa sensazione. Però ogni giorno che passa è sempre più forte.

– Cosa fa Piero, che ti mette così sul chi vive?

Silvia la guardò alzando le spalle. – È sfuggente. Non dico che non dovrebbe, ormai ha sedici anni ed è un uomo, non posso starlo a pressare, tanto più che con l’anno nuovo attacca finalmente con il lavoro.

– Dove l’hanno assegnato?

Anche Silvia aveva finito di bere e posò la tazza accanto a quella della sorella. – Inizia al lago di Bolsena, con le rilevazioni. Lo addestrano per sei mesi, più o meno, poi si farà la solita trasferta alle paludi ioniche per l’ultimo tirocinio. Anche tuo marito è in partenza, vero?

Sara guardò l’orologio. Mancava poco all’ultima corriera, che Silvia avrebbe dovuto necessariamente prendere, e non voleva perdere tempo inutilmente. Doveva capire cosa succedeva, avere qualche dato in più dalla sorella.

– Enrico parte domani, ma solo per un controllo alle strutture di emergenza. Va a Perugia, quindi è un affare di poco.

– Meglio così! E il tuo Luca, invece? Non doveva partire anche lui?

Una punta di inquietudine la colse di nuovo. – Solo per le vacanze annuali. Ma dimmi di Piero. Dicevi che ti preoccupa.

Silvia mosse la mano a scacciare i pensieri molesti. – Sorvoliamo. Magari sono solo mie fisse. Lui appena maggiorenne, e io che vado per i trentacinque… – le fece un’ironica alzata di sopracciglia. – Mi vengono le paturnie. Magari è innamorato. Magari sono solo scema.

L’orologio del paese batté le sei. Era ora di andare e senza aggiungere altro le due si alzarono e uscirono dal patio di Sara sulla strada, dirette alla piazza dalla quale partiva la corriera regionale. Raggiunsero il pullman in silenzio: Sara avvertiva l’inquietudine di Silvia e vi mischiava la propria. Ed era vagamente consapevole che la sorella notava a sua volta quell’atmosfera tesa.

– Eccoci. Ti saluto, Saretta.

– Rimani qualche giorno, la prossima volta.

Si abbracciarono. Intorno a loro, i passanti le guardavano incuriositi, attirati dalla loro somiglianza e dall’estrema, percettibile familiarità che c’era tra loro. Ovviamente conoscevano bene Silvia, Sara e le loro famiglie: tuttavia la visione ormai rara di due sorelle, per giunta erano così simili per età e tratti, era una calamita per gli sguardi. Le due lo sapevano. Ma era solo Sara a provare, a volte, ancora qualche strale di fastidio, come quando era più piccola.

– Cercherò di farmi dare un permesso più lungo… – diceva Silvia, mandando poi i saluti al resto della famiglia di Sara e ai loro genitori. Salì il primo scalino della corriera semivuota, mentre l’autista metteva in moto. – Che poi insomma, questi figli – aggiunse. – Nemmeno Piero è andato in vacanza ad agosto, e ora è tutto strano! Ma che hanno in testa!

Sara restò a salutare con la mano la sorella, che si era accomodata in fondo al veicolo e ricambiava il saluto, fino a che la corriera non terminò il piccolo corso principale e svoltò sulla destra. Poi si concesse di far crollare il braccio lungo fianco e di tirare un lungo sospiro sibilante, mentre il sorriso forzato le moriva sul viso.

Le sensazioni di Silvia. Quella vaga inquietudine. E le sue ultime parole.

Sara provò un senso di sgradevole certezza: anche Luca le nascondeva qualcosa di importante.

2.

Quando tornò a casa, c’era Enri che già si preparava la valigia. Si salutarono e Sara restò in camera con lui, incerta se parlargli oppure no.

– Allora, quand’è che torni? – gli chiese a un certo punto.

– Sto via un dieci giorni, se tutto va bene. I rifugi sono in buone condizioni ma c’è il solito pericolo di sciame sismico e bisogna controllarli di nuovo. – Fece una rapida smorfia. – Protocolli. Solita roba. E mi tocca partire stasera – disse poi, chiudendo la valigia. – Mi accompagni? Passano a prendermi in piazza tra mezz’ora.

– Merda – si lasciò sfuggire Sara. – Così non hai nemmeno tempo di salutare Luca.

Enri fece un gesto vago, forse era dispiacere, forse un fa’ niente.

– Se ne farà una ragione – disse scherzosamente mentre uscivano. Aveva un tono stanco e Sara si chiese all’improvviso se per caso anche lui non sapesse qualcosa.

– Sicuramente – gli disse, mentre percorrevano a braccetto la stessa strada che Sara aveva fatto con la sorella, poco prima. – Ma tra una settimana parte anche lui.

– Ah, già. La vacanza – disse Enrico. – Tutti a correre, ad agosto, e quello parte a ottobre. E a fare che, poi al Nord? Sarà pure passato del tempo dall’instabilità degli anni Novanta, ma c’è ancora tanta di quella umidità! – Salutarono i vicini, che passeggiavano nella quiete del tardo pomeriggio.

– Sai qualcosa che io non so? – avrebbe voluto domandargli Sara. Ma l’aria infastidita di suo marito non la invitava ad approfondire, e se lui non sapeva nulla, suscitargli dei dubbi proprio mentre stava per partire non le parve una buona idea.

Le arrivò un messaggio: tirò fuori il telefono dalla borsa e lo lesse al volo.

– Parli del diavolo – disse a Enrico. – Rimane a cena fuori.

– Magari ha qualcuna. Qualcosa di serio. Ha diciassette anni: alla sua età, noi eravamo già belli che sistemati, perdio.

– Eddai, Enri. Ha tempo ancora qualche anno. E se trova una brava ragazza è anche possibile che non abbiano figli.

Erano arrivati in piazza e si fermarono accanto al bar chiuso, per aspettare l’auto regionale che sarebbe passata a prendere Enrico. Si guardarono. Enrico le parve esitante.

– Che c’è? – disse Sara, e stava per lasciarsi sfuggire la domanda trattenuta finora.

– C’è che sei la solita – disse Enrico, prevenendola. – Va bene tutto, ma un nipotino non è una disgrazia! Lascia perdere la retorica, chi se ne frega del Nuovo Progresso, santo cielo. Fare un figlio non è mica vietato… ancora – aggiunse, con una punta di amarezza.

Sara non rispose. Enrico posò a terra la valigia, e inaspettatamente la abbracciò.

– Scusa – le disse. – È ‘sta partenza. Non mi va. Lo so già che mi mancherai. E mi dispiace anche di non vedere Luca.

Lei ricambiò l’abbraccio e minimizzò.

– Mangia dai tuoi, questa sera – disse Enrico. – Così sono più tranquillo.

– Magari ci passo. Ci vediamo in Rete?

– Certo. Ti chiamo io nei prossimi giorni, dopo i sopralluoghi.

– Va bene.

Non dissero più nulla. Scambiarono parole di circostanza con chi passava di lì diretto a casa propria: quella era l’ora in cui si terminavano anche gli ultimi compiti generici assegnati dalla Filiale Comunale della Banca del Tempo. La sera si avvicinava e le piccole strade parevano più ampie, perché quasi del tutto deserte. Dalla campagna circostante si alzavano i primi richiami delle upupe, e presto il ronzio di un motore elettrico annunciò l’arrivo dell’automobile regionale, guidata dal supervisore di Enrico, che si fermò accanto a loro e con un clack aprì il portabagagli.

Per Sara era il secondo saluto in poco più di un’ora. La cosa non la rendeva affatto felice. Quando la macchina fu sparita oltre la solita svolta si strinse nella maglia e si diresse verso casa dei genitori, prima che facesse buio.