Ero al Circolo, nella sala detta degli Artisti; stavo sfogliando l'ultimo volume dell'Art pour tous, e prendevo di tanto in tanto qualche noterella.
L'amico Palmieri entrò e mi venne accanto.
‒ Cosa guardi di bello? Ah! l'Art. Un'ottima pubblicazione, non è vero? Sono abbonato da anni.
Si mise a sedere vicino a me, in capo alla tavola, e sbadigliò mollemente.
‒ E dunque, ‒ gli dissi, ‒ hai fatto qualche nuovo acquisto?
‒ No ‒ rispose Palmieri freddamente: ‒ per il momento non faccio acquisti.
‒ E come mai?
‒ Non faccio acquisti; non compro più arazzi, né quadri, né stampe… sopra tutto non voglio più mobili.
‒ Oh! e perché?
‒ Perché non ho più chi sappia né riparare né restaurare.
Carlo Palmieri è un signore molto per bene, di antica e ricca famiglia, amantissimo delle Belle Arti; tutto ciò che ad esse si riferisce gli sta tanto a cuore che la sua palazzina è un modello di buon gusto; ma… è pure un raccoglitore; a mio parere, il tipo del raccoglitore di anticaglie, vale a dire l'uomo più geloso, ombroso e mutabile del mondo: ora gioviale, espansivo, ora nero come un calabrone; oggi disposto a mostrare tutti i suoi tesori a chiunque ne lo richieda, domani pronto a negare l'adito in casa sua a un potentato, a un imperatore.
Restò pensoso un momento, poi ripigliò:
‒ Si ripara una cosa raccomodandola, ridandole alla meglio l'apparenza di prima; si restaura rinnovandola in parte, rendendole lustro, forza e vita… Senti, tu non hai conosciuto Marco Bonadeo?
Accennai di no.
‒ Volevo ben dire! Tu non vieni mai a trovarmi e quindi non sai… Quello era un bravo restauratore! Rispettava sempre religiosamente le parti sane, prendeva tutte le cautele per rifare le guaste: legno vecchio, ma non tarlato, per poter intagliare con finezza figure, ornati, caratteri, qualunque sia disegno; quando il lavoro era compiuto, simulava qua e là qualche bucherello, ristuccato con cura, ma in modo che si vedesse; lasciava che i metalli si ossidassero, acquistassero quel velamento naturale che il tempo imprime sulle pitture, sulle medaglie, su tante altre cose, e che chiamasi patina; poi li ripuliva o non li ripuliva, secondo i casi. Insomma, nelle sue mani ogni rifacimento prendeva subito magicamente l'antico. E che imitatore prodigioso! Sto per dire che avrebbe potuto emulare il sarto cinese.
Mi lesse in viso ch'io non sapevo la storia del sarto cinese, e proseguì piacevolmente:
‒ Un ufficiale della nostra marina, trovandosi in non so che porto del Celeste Impero, macchiò d'olio o d'untume certi calzoni che gli stavano a pennello, e questo proprio alla vigilia d'un ricevimento solenne o d'una parata. Che fare? Manda in tutta fretta per un sarto e glie ne commette un altro paio, raccomandando la più scrupolosa esattezza. Il buon cinese si mette una mano al petto, fa un profondo inchino, e se ne va. La mattina dopo, l'ufficiale aveva due paia di calzoni talmente uguali che non distingueva più i vecchi dai nuovi: la stoffa, il taglio, la misura, le macchie, tutto a puntino. Era uno stupore a vedersi!
Qui l'amico accese una sigaretta, fumò un poco, e intanto si rannuvolò.
‒ Mah! povero Bonadeo! Era un giovane svelto, pulito, educatissimo, con una fisonomia tutt'altro che volgare; aveva la parola facile e ornata, e l'ascoltavo sempre con attenzione. Bisognava vedere come ardeva, come brillava tutto quando gli mettevo davanti qualche bella anticaglia, qualche buona trouvaille. E mai una parola, uno sguardo, il più lieve segno d'invidia. Nessuno spirito di gelosia. Nessuna idea meschina. Non era cantonné dans sa spécialité; comprendeva e ammirava tutto ciò che gli pareva insigne per eccellenza d'arte, per rarità o per antichità: statuette di bronzo, terre cotte, vetri, piatti, smalti, armi, merletti… Egli era intagliatore in legno di figura e d'ornato, ma io l'avevo consigliato a impratichirsi anche sul marmo, materia meno tenera, ma meno ingrata e scabrosa del legno. Non so se vagheggiasse l'idea di far propriamente l'artista… Basta, tiriamo via. Fatto sta che gli volevo bene; lo conducevo con me nei musei, gl'imprestavo i miei libri, le mie cartelle piene di stampe e di disegni. Nei primi tempi io mandavo le cose che avevano bisogno dell'opera sua alla sua bottega, in via dei Fiori; poi, fatto disporre convenientemente lo stanzone che sta in fondo al mio giardino, con fornello, banco e arnesi acconci, diedi a Bonadeo la chiave della porticina che risponde sulla strada: così egli poteva entrare a tutte le ore, senza passare dal cancello; e io andavo a far due ciarle e vederlo lavorare a mio piacimento. Là, s'era come in capo al mondo, e ti so dire…
Palmieri s'interruppe, si alzò, suonò per il domestico, ordinò il caffè.
Ricominciai a scartabellare il mio libro. L'amico pareva assorto nella contemplazione della tazza che gli fumicava davanti; d'improvviso mi posò una mano sul braccio:
‒ Senti; tu credi al maraviglioso, al soprannaturale?
‒ Io?… Nemmen per sogno.
‒ Allora, sia per non detto.
‒ Ho però un'idea, antiquata sì, ma grandiosa… Su via, tira avanti, raccontami tutto.
Carlo Palmieri vuotò la tazza in una sorsata, poi si lisciò la barba e ripigliò:
‒ Quest'estate, girondolando per le montagne, capitai in una valletta oscura, ignota ai viaggiatori, e quel che più importa, ai cercatori di antichità. Nella cucina d'un'osteria da cani, ebbi la fortuna di scoprire una cassa di quercia, una specie di cofano, di forziere… Prima metà del trecento, caro te!… È di forma rettangolare, ben proporzionato, molto nobilmente intagliato; ha il coperchio piano, con bellissimi fregi e dodici scompartimenti o medaglioni, in cui sono rappresentati soggetti erotici e cavallereschi; nella parte anteriore si vedono dodici guerrieri, diversi d'impostatura, di armi e di vestimento, collocati dentro altrettante nicchiette ogivali; nella base si fanno riscontro due mostri con le facce di toro e le ali di drago; sono ben rabescati anche i fianchi; la serratura è antica, i gangheri sono antichi… Quando l'ho comprato, mancavano qua e là braccini e gambette, il fondo era spaccato, il tutto deturpato da una crosta secolare, fatta di polvere appiastricciata e di lordume risecchito.
Come l'ebbi a Torino, nello stanzone, mandai a chiamare Bonadeo. Egli venne e andò in estasi: ‒ Oh Signore! Che roba, che roba, che fior di roba! ‒ E girava intorno pian pianino, considerandolo ora da una parte, ora dall'altra, battendo dolcemente le nocche sul coperchio, palpando i fianchi, tastando gli spigoli: pareva un medico che esaminasse pazientemente e amorevolmente un infermo. Poi mi dichiarò che non vedeva il momento di por mano al restauro; e stavolta voleva superare sé stesso, voleva farmi strabiliare; per questo mi supplicava e scongiurava di non entrare nello stanzone per qualche tempo, di non cercar di rivedere il cofano finché non fosse addirittura ultimato.
Parlava tanto di cuore, con una forza così persuasiva, che io mi cacciai a ridere e promisi di contentarlo.
Pochi giorni dopo m'imbattei in lui, mentre uscivo di casa; mi disse subito, schiettamente, che il lavoro andava adagio, perché più difficoltoso e delicato di quanto avesse creduto; oltre a ciò, qual che si fosse la cagione, gli si era messo addosso un mal essere generale, una prostrazione di forze, accompagnata da affanno e da una sensazione dolorosa che nasceva nel petto, dal lato manco, e scorreva acutamente per il collo, per tutto il braccio, fino all'estremità delle dita. Questo gl'impediva di fare, e talvolta persin di pensare. Un medico, che abitava nella stessa casa, affermava trattarsi di cosa nervosa e di poco momento; un altro, consultato più seriamente, aveva consigliato il moto, cibo carneo e vino buono. ‒ Al vino buono ci penso io ‒ gli dissi. ‒ Conto di andar a passare sette od otto giorni con mia sorella, che sta in villa, nel cuore dell'Astigiano. Parto domani o doman l'altro. Lascia fare a me.
Gli mandai un bel barilotto di quel sincero e stagionato. Ricevetti una lettera, nella quale, dopo di avermi ringraziato con calore e premura, prendeva a parlarmi del cofano, promettendo cose grandi, impegnandosi di darmelo finito per il mio ritorno; e tutto questo con parole così appassionate e di tanta espressione, che ne rimasi colpito. Vidi chiaro che l'intensa applicazione della mente a quel lavoro sviava la sua attenzione da ogni altra cosa. M'impensierii un pochino, e quantunque conoscessi il mio uomo, quantunque sapessi che nulla l'avrebbe rimosso dalla sua fissazione, gli scrissi di andare adagio e di aversi riguardo.
La stagione era ancor buona, l'aspetto della campagna dilettava la vista e confortava l'animo: invece di una settimana restai fuori due.
Tornai a Torino un sabato sera, con l'ultimo treno, in ritardo di un'ora. Appena fui a casa, nel salotto terreno, domandai nuove di Bonadeo al vecchio Eusebio, il mio servitore factotum.
Eusebio pensò un poco. Eh sì, era un pezzo che non gli parlava: non passava mai dal cancello! Però, l'aveva visto entrar dalla porticina sull'imbrunire. Ma non sapeva più quando: gli pareva e non gli pareva…
In quel mentre io mi ero affacciato alla porta che mette in giardino e guardavo attonitamente verso il fondo: non sbagliavo, non travedevo, laggiù c'era un lume!
Mi venne in idea di fare una visita al mio infaticabile lavoratore; di lodarlo prima, sgridarlo dopo, e in conclusione mandarlo a dormire. Ma a pochi passi dallo stanzone mutai proposito; mi ricordai che avevo promesso di non entrare se non dietro invito, pensai alla sensibilità infantile, morbosa del giovane; e, invece di arrivare all'uscio, mi fermai alla finestra a mancina, che era semiaperta… (Per carità, non interrompermi: se mai, mi farai le tue obbiezioni quando avrò finito…) Dianzi ti ho detto che c'era lume? Sì, un chiaror strano, fioco, cinereo; una luce che appariva, spariva, e quasi non lasciava prender forma e colore agli oggetti. Bonadeo era lì, in mezzo alla stanza, a capo alto, diritto colla vita, le braccia distese lungo i fianchi, i piedi uniti; guardava fissamente il cofano posato sul banco, meditando qualche ritocco, e non si moveva. Non si moveva affatto affatto; e per di più mi pareva di scorgere nel suo atteggiamento qualche cosa di rigido, di marmoreo, di troppo composto. Che diavolo aveva? Due volte aprii la bocca per chiamarlo, per parlargli, e non ebbi fiato. Che diavolo aveva? Dormiva in piedi? Era in letargo, in catalessi, ipnotizzato? E la luce tremola, la luce palpitante di donde veniva? Mi rammentai in confuso d'aver letto, o inteso dire, che certe persone, per dono di natura o per effetto d'un regime di vita… da spirito celeste, acquistano una potenza quasi sovrumana, e la facoltà di manifestarla in diversi modi, fra cui quello di emanare un fluido luminoso, non so se elettrico o fosforico. Cose che fanno rizzare i capelli! Ma tutto è possibile al mondo: vedevo dunque col fatto ciò che mai non avevo voluto creder vero? E Bonadeo, che pareva non potesse o non volesse muoversi più!
Sentii come un gelo tra i panni e le carni; scorreva, stringeva, penetrava nel midollo dell'ossa. Era la paura, la paura pazza e balorda che ora stronca i nervi, ora mette in fuga, e può diventar tanta e tale da torre la ragione e la vita.
Attraversai il giardino in tre salti, e rientrai nel salotto; la fosca impressione svanì come per incanto. Presi una buona tazza di camomilla, diedi una scorsa ai giornali arrivati nella mia assenza, e andai a letto.
Dormii d'un sonno profondo e continuo fin verso le otto; appena svegliato, ricordai quello che mi era accaduto, e le prime parole che si formarono nella mia mente furono: «Come si fa a essere così bestia?!»
Mi alzai e corsi subito allo stanzone. Era quale l'avevo sempre veduto: le pareti coperte d'impronte e di modelli in gesso, trucioli a terra, ferri sul banco. Sul banco c'era pure il cofano, ritornato sano ed intero. Rimasi sbalordito; mi maravigliai di non essermi avvisto prima che somigliava in tutto e per tutto a un certo bahut lorenese, che io avevo infinitamente ammirato e invidiato al Musée de Cluny. Non mi stancavo di pascer l'occhio nella contemplazione di quella, che ora poteva dirsi una vera opera d'arte; e intanto aspettavo che giungesse Bonadeo, al quale volevo fare di grandi elogi. A un tratto mi raccapezzai. Per bacco! Era domenica, giorno di riposo! Toh, e poi egli aveva terminato il suo lavoro! E ancora: egli non sapeva ch'io ero tornato. Potevo ben aspettare!
Pochi minuti dopo trottavo allegramente verso via dei Fiori. Arrivato alla cantonata, vidi venire avanti un carro funebre, seguìto da tre o quattro persone: il carro e l'accompagnamento dei poveri. Un uomo, ritto a gambe larghe sulla soglia della sua bottega, rispondeva a una vecchia, che si era soffermata: ‒ Già, portano via il legnaiuolo che stava su al numero 52. Un mingherlino coi capelli lunghi e la barba corta: lo chiamavano l'artista. Si figuri, ventisette anni! E lascia la madre, ch'è paralitica!
Il sangue mi diede un tuffo, le ginocchia mi mancarono sotto; fu un primo momento; al secondo, mi levai il cappello e mi unii al convoglio.
Quando tutto fu finito, tornai in via dei Fiori. Volevo sapere. La madre non aveva più senso di nulla: era una vista che strappava il pianto dal cuore. Interrogai una vicina. Bonadeo si era sentito male, aveva delirato un giorno e una notte, e poi addio! ‒ Bisognava vedere come smaniava ‒ mi diceva colei, ‒ come si disperava per non poter dar l'ultima mano a un certo lavoro!…
Una parola, e finisco. Ho pigliato un abbaglio? È stata un'allucinazione?… Così sia. Intanto il cofano è ancora nello stanzone, e non so quando avrò il coraggio di farlo tramutare in casa. Di giorno, rimugino continuamente sovra questa faccenda: è un pensiero scuro, stizzoso, impotente, un vero martello. Di notte, mi desto di sobbalzo, salto giù dal letto e mi affaccio alla finestra, ansioso e timoroso di vedere il lume, quel tal lume. Qui sta l'affare. Hai capito? Animo, di' su la tua.
Parlava come un uomo seriamente angustiato. Gli dissi:
‒ Ti risponderò con le parole di Amleto.
‒ Come c'entra Amleto?
‒ «Vi sono, Orazio, nel cielo e nella terra più cose che la vostra filosofia non possa sognare…». E questo è quanto.
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