Prendiamo ad esempio Dune, non sono molti quelli in grado di fare meglio di Frank Herbert nella difficile arte del Worldbuilding. Chi non ha mai tentato di scrivere Fantascienza non ha idea di come si possa creare un universo immaginario, più o meno diverso dal nostro, credibile e coerente. Sembra una cosa troppo complicata persino da immaginare, qualcosa che presuppone conoscenze approfondite di tutto: dalla fisica alla biologia, dalla sociologia alla linguistica, dalla matematica all’astronomia e via dicendo. Insomma, tutte le discipline che si occupano di descrivere e studiare cultura, civiltà e natura vengono tirate per la giacchetta nell’impresa assurda di pasticciare con quello che già esiste per creare qualcosa di inesistente se non nella testa dell’autore.
La verità è che anche molti scrittori di Fantascienza non sanno come fare ma lo fanno lo stesso.
Esistono due modi di procedere che andrebbero scelti in base alle caratteristiche della storia che s’intende raccontare, oppure in base all’inclinazione personale allo studio e alla ricerca preparatoria. Qualcuno è più masochista, qualcuno meno, in generale però tutti gli scrittori sono tipi strani e non si tirano mai indietro quando c’è da fare il demiurgo.
Dal macro al micro
Arrakis fa parte di un sistema planetario? Come si chiama? E questo sistema planetario in quale galassia si trova? E, tornando su Arrakis, quanto è grande il pianeta? La sua forza di gravità è uguale a quella della Terra? Di cosa è composta l’atmosfera? Gli esseri viventi che lo abitano di cosa si nutrono? Esiste l’agricoltura? Ci sono abitanti autoctoni? Che lingua parlano? Com’è organizzata la loro società? Qual è il loro livello tecnologico? Se ne hanno una, qual è la loro religione? Qual è il loro rapporto con la spezia e come vivono la loro condizione di sudditi senza rappresentanza dell’Impero?
Prima di scrivere anche una sola riga su Paul Atreides, Herbert ha cercato nella sua fantasia (e non solo) le risposte a queste e a molte altre domande su Arrakis, su tutti gli altri pianeti che compaiono nella storia, su tutto ciò che non si vede e su ciò che è successo prima dei fatti narrati.
Il metodo “dal macro al micro” ha molti punti in comune con la teoria dell’Iceberg di Ernest Hemingway: quello che rimane sulla pagina è solo una piccola parte di tutto, è come la punta emersa di un iceberg ma, sotto il pelo d’acqua, ci sono centinaia di migliaia di tonnellate di ghiaccio che il lettore può solo intuire o può comodamente leggere nelle appendici che tanto piacciono agli autori Fantasy e ai nerd (come il sottoscritto).
Com’è facile intuire, questo metodo richiede una grande quantità di tempo, lavoro e studio. Per semplificare un po’ le cose spesso si preferisce non inventare tutto di sana pianta ma basarsi su qualcosa che già esiste come, nel caso di Dune, la cultura araba, la sua fonetica e il suo rapporto con il deserto.
Facendo un bilancio costi/benefici, direi che è un metodo consigliabile a chi ha intenzione di riutilizzare i frutti di tanta fatica sviluppando per esempio una saga o varie storie con un’ambientazione condivisa, oppure a chi insegna Lingua e letteratura inglese al Merton College a Oxford.
Dal micro al macro
Parafrasando Neil Gaiman, raccogli un mattone, sfonda la vetrina, ruba quello che ti serve e scappa. Questo è l’approccio al worldbuilding “dal micro al macro”.
Va bene l’iceberg e tutto il resto, ma non sempre è possibile strutturare un universo, conosciuto nella sua interezza solo all’autore, per scrivere un racconto di poche decine di pagine.
Un po’ del pragmatismo britannico del bravissimo Gaiman ci viene in soccorso, si parte dagli elementi dell’ambientazione che effettivamente compaiono nella storia: un edificio, una città, un gruppo etnico, un particolare dialetto, una professione, un esponente di una razza aliena e via dicendo. Se necessario si aggiungono dettagli e ulteriori elementi ma solo quando indispensabile al procedere della storia.
Per tutto il resto si può fare affidamento su quello che i lettori già sanno o immaginano. Non è necessario stabilire per filo e per segno la dottrina di una setta che ritiene esista una specie di forza invisibile che controlla tutto, basta qualche accenno ai modelli di riferimento già noti (i cavalieri della Tavola Rotonda, per esempio…) e che l’adepto che compare nella storia ci faccia vedere cosa sa fare e lo faccia quando serve all’economia del racconto.
Questo approccio al worldbuilding avvicina l’autore al lettore, c’è una specie di immedesimazione perché quello che sa il lettore è esattamente quello che sa l’autore né più né meno, niente trucco, niente inganno. E dove è finito l’iceberg? C’è finché crediamo che ci sia, fa parte di quell’atto di fede che si chiama sospensione dell’incredulità.
Un consiglio agli aspiranti demiurghi
A prescindere dal metodo che si decide di utilizzare, il consiglio a chi si vuole lanciare nell’impresa di costruire un mondo che faccia da sfondo a una storia è quello di non farsi prendere la mano.
Il worldbuilding può essere una droga.
È un attimo passare settimane, mesi, anni, decenni nei casi più gravi, a definire i dettagli di un’ambientazione che si vuole perfetta in ogni sua parte e tutto questo tempo a volte lo si sottrae alla messa a punto della storia. L’effetto finale di un worldbuilding troppo ingombrante è quello di fare un giro in un luna park decadente, passato di moda qualche anno fa.
Bisognerebbe sempre tenere a mente la lezione del teatro, la scenografia è nella testa del pubblico, va evocata con intelligenza e misura. Sono rarissime quei libri in cui il worldbuilding è importante quanto la storia e, nella maggior parte dei casi, non si tratta del libro che vuoi scrivere tu.
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