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La sensazione sulle dita è quella intima del velluto. Un gambo morbido, sottile eppure resistente. Nulla a che vedere con la durezza del bocciolo. Se ci fosse solo una lieve brezza, le piante ondeggerebbero quasi all’unisono, frangendosi sui corpi degli uomini che le ostacolano e sui mezzi elettrici – indaffarati, operosi – che ronzano tra loro. Se invece fosse qualcosa di più di una bava di vento, la giornata sarebbe rovinata. Il lavoro, concluso. Fino a domani, o chissà quando.

Invece l’aria è immobile. Il vento non esiste.

Il cucchiaino da caffè che Zac tiene tra le labbra dondola seguendo il flusso dei suoi pensieri. È la modalità zen in cui entra quando lavora, come in un vecchio manuale di filosofia orientale: la mente si distacca dal corpo, viaggia, approda a lidi sconosciuti mentre il corpo-macchina ronza e consuma calorie.

Incidi, apri, scava.

Metti al sicuro il tesoro e il tempo che hai speso per portarlo alla luce.

La fretta schiaccia quelli che non hanno capito come funziona, convinti di dover dare il massimo nel poco o tanto tempo a disposizione, perché lui – il Tempo – è un idiota capriccioso.

Raccogliere l’ishba è un’arte.

E allora perché sento che non è più così?

Dov’è finita la soddisfazione di un lavoro ben fatto, la sicurezza di saper fare qualcosa di concreto o di possedere un’abilità?

Tutte cose perdute.

Zac ripensa all’offerta che ha trovato nella mail. Gli sembra uno scherzo. Probabilmente lo è.

Triplo della paga e orari concordabili, in cambio di non meglio specificate consulenze.

Se non fosse stato per la crescente insoddisfazione tra una sessione e l’altra di raccolta, non l’avrebbe mai vista. Se non fosse stato per questo nuovo sentimento di nausea per le dirette neuronali di eventi sportivi e programmi di crescita personale, non avrebbe mai sprecato tempo a verificare se il codice del mittente fosse autorevole o meno.

L’Ufficio della Delegazione.

– Consulenze. Io che faccio consulenze.

Si guarda le mani tagliate. Osserva il rosa della carne viva che non sanguina più, in mezzo alla scorza indurita macchiata di terriccio e resina. Un lieve fastidio, nulla di più, ma le sue non sono mani da consulente.

– Da non crederci – borbotta.

Alza la testa per controllare se Kurtz ha sentito qualcosa, ma ne vede solo la schiena solcata da vertebre sporgenti.

Torna a concentrarsi sul lavoro.

E invece loro sanno tutto, pensa. Forse da prima che me ne rendessi conto io stesso. Loro hanno i computer. Quelli della Delegazione hanno un sacco di giocattoli.

Le righe della mail scorrono nuovamente davanti alla retina di Zac. Nei cinquantasette minuti di lavoro trascorsi, nell’intervallo tra un fiore e l’altro, il messaggio ha continuato a invadere le sue connessioni neurali potenziate. La cifra proposta – per una sola consulenza – supera di gran lunga il ricavato medio settimanale della raccolta di ishba, al netto della quota dei caporali.

Zac infila la punta del coltello tra due petali, fa leva con la lama per aprirsi un varco abbastanza grande da infilarci le dita. Se non fosse un raccoglitore esperto, gli sembrerebbero denti di uno squalo.

Uno squalo.

Il regolamento di prevenzione dice che per raccogliere l’ishba bisogna indossare dei guanti in fibra resistente, ma le dita di Zac sono nude, ricoperte di tagli.

Il varco non è abbastanza grande. Zac lo fissa. Copre il bocciolo con la mano libera per evitare che gli altri raccoglitori possano vedere e spera che la magia si ripeta. Si concentra, sforzandosi di non chiudere gli occhi. Zen condensato.

E il fiore cede. I petali si ammorbidiscono senza ragione apparente. Come la prima volta e le altre che sono seguite, la magia non ha fatto marcire il fiore. Non è la perizia delle sue dita. Non è un calo di pressione. È qualcos’altro.

È il cambiamento.

Uno squalo è un grosso pesce mangiauomini. Ci hanno fatto un sacco di film.

Il raccoglitore infila la cannuccia della bomboletta nel varco che si è appena creato. Un sibilo accompagna la fuoriuscita della resina. Poi un rigurgito. L’aria è fuori.

Easy peasy, pensa Zac. Si blocca un attimo. Non ricorda questa espressione. Probabilmente l’ho sentito a scuola, decide alla fine, sulla Terra.

Tira fuori la cannuccia ancora gocciolante e la ripone nella tasca laterale dei pantaloni da lavoro. Sfila dalle labbra il cucchiaino e lo rigira dentro la corazza di petali. Adagio, fa emergere il tesoro.

Easy peasy, lemon squeezy.

Alza il cucchiaino davanti agli occhi. Ammira in controluce la pallina gelatinosa, le minuscole particelle di ishba all’interno che brillano come polvere d’oro. Ne ammira lo splendore per un istante prima di riporla con le altre nel flacone trasparente.

Controlla l’orologio.

E con questa siamo a venticinque in un’ora. Non male.

Si raddrizza. Piazza le mani sui muscoli lombari e si inarca all’indietro, confortato dallo scricchiolio delle vertebre. Per quanto può vedere, è l’unico a concedersi una pausa. Anche questo è un cambiamento recente.

Davanti a lui, la distesa di ishba si spalma a perdita d’occhio sui quattro punti cardinali. Un mare verde punteggiato dal nero dei boccioli e solcato dalle varie tonalità di terra smossa tra un filare e l’altro.

Solo le schiene rompono la composizione cromatica. Centinaia di uomini e donne che raccolgono la propria giornata, sotto un cielo illuminato dalla stella, così vicina oltre la cupola geodetica. Più tardi scambieranno il raccolto con crediti sonanti.

Zac fa scorrere lo sguardo sull’onda di schiene, arriva fino ai casermoni di stoccaggio e le palazzine dei raccoglitori, cerca di mettere a fuoco la cupola della Città che trema giusto sopra l’orizzonte. Una striscia di palazzi lontani, ipotetici. Oltre, il letto asciutto del Mar di Copernico.

Un cargo ha appena lasciato la rampa di lancio, carico di polline grezzo, lasciandosi dietro una pennellata di vapore bianco.

Tutto l’universo è ishba, pensa Zac. Tutto l’universo ne ha bisogno.

Anche Kurtz si raddrizza. Emerge dal suo filare a petto nudo. La sua onnipresente maglietta dei Grateful Dead è annodata sulla testa, anche se oggi la Stella del Cane non picchia così tanto.

– Che fai? – chiede.

Non ottiene risposta. Si passa la mano sulla barba rossiccia come per controllare che sia ancora lì.

– Quanto hai fatto finora? – insiste.

Zac annusa l’aria. Il cambiamento, pensa, quello vero. Devo sbrigarmi.

Riprende in mano il coltello e sceglie un vasetto nuovo dalla cintura.

Posso ancora raccoglierne tre o quattro se mi sbrigo.

Oltre il campo di ishba c’è la promessa di un sacco di crediti.

Kurtz solleva il viso alla volta della cupola, offre le palpebre chiuse e un sorriso da bambino al vuoto siderale. Molto probabile che abbia in circolo ancora qualche granello di polline.

All’improvviso, anche lui se ne rende conto. L’espressione infantile si sfalda, sfiorisce.

– Oh, cazzo. Sta cambiando, vero? – chiede, ma è tardi per parlare ancora.

Zac scardina un petalo dell’ishba successivo, tiene la ferita aperta con due dita mentre con l’altra mano armeggia per liberare la bomboletta dalla chiusura a bottoncino della tasca.

– Sei troppo sveglio – dice al compagno. – Dai, che riesci a raccoglierne altri due.

– Cos’è? Calo di pressione? – chiede ancora Kurtz. Sembra che non abbia capito l’antifona.

– Raccogli, cazzo! – sbotta Zac.

Il fiore gli scivola dalla mano. Un nuovo petalo si genera nella corona e sigilla il contenuto. Il bordo segna la pelle di Zac in profondità. Il raccoglitore ritira la mano e si porta le dita in bocca assaporando il sangue. Una sensazione sorda, distante, che sbiadisce dopo il primo battito cardiaco.

Kurtz ha provato a fare lo stesso, ma si è mosso con troppa fretta. Sul suo cucchiaino c’è una pallina di gel con all’interno il polline annerito, inservibile.

L’aria è tagliata dal suono della sirena. Fine dei giochi.

Kurtz guarda i fiori chiusi. Dà una manata a quello più vicino, che si spezza e cade in mezzo alla polvere, dove si affloscia e rilascia il polline nero. I petali degli altri boccioli intorno sono così serrati da sembrare ostili.

– Questa volta ha suonato in ritardo – sbuffa Kurtz, pulendosi le mani sui pantaloni.

– Succede, quando cala la temperatura – risponde Zac.

– Secondo te quanto dura?

Zac alza le spalle. – Possiamo tornarcene a casa. Il minimo è tre ore.

– Merda – sibila Kurtz. – Meno male che ho ancora qualcosa da parte.

– Ti presto un tappeto, casomai dovessi trovarti in difficoltà. Puoi stare ai piedi del letto come la brava bestiola che sei.

Una ventina di steli più avanti, i filari terminano in un sentiero perpendicolare che adesso si affolla di raccoglitori a testa bassa. Trascinano gli scarponi nel terreno e sollevano un pulviscolo di creta asciutta. Toccano distrattamente i flaconi appesi alla cintura. Quelli pieni valgono cinque crediti.

– Sarebbe bello avere qualcuno capace di regolare in modo decente la cupola – insiste Kurtz. Il suo broncio è ancora più infantile del sorriso. Si sfila dalla testa la maglietta psichedelica e la indossa al contrario. L’etichetta gli solletica il pomo d’Adamo. – Cioè, qualcuno che non facesse marcire subito questa merda.

– Difficile –Zac lo guarda appena. – L’apertura può durare due giorni come un quarto d’ora. E in mezzo puoi avere anche una settimana. È così che funziona. Non c’è controllo ambientale che tenga.

Kurtz sputa a terra e poi disperde con un calcio il grumo di saliva e terra. – Secondo me l’ishba è un fiore che non sa di essere già morto. A un certo punto se ne accorge e va in merda.

– Puoi sempre sporgere un reclamo.