Nero latte dell’alba lo beviamo la sera / lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte / beviamo e beviamo… questi i primi versi della celebre Todenfuge, Fuga di morte di Paul Celan – dove la "fuga" è il componimento musicale che si diparte e poi torna a un nucleo ricorrente. 

Risulta naturale e consigliabile, leggendo le pagine di Sheng Keyi, richiamare alla mente la celebre querelle tra Celan e Adorno: Adorno affermò che dopo Auschwitz fare poesia era un atto barbarico, con l'approvazione di Primo Levi; Celan al contrario rivendicò sempre la poteza della poesia, ma di una poesia oscura, vertiginosa, "in negativo".  

Il nucleo di Fuga di morte si raggruma proprio intorno a questi temi. È possibile fare poesia dopo un evento orribile, epocale, spaventoso? E quale? Quella necessaria, quella richiesta, quella scomoda? È possibile che il silenzio stesso costituisca una sorta di poesia – l'atto poetico ultimo, l'unica possibile declamazione della verità?

Qui sta il tormento del protagonista, Yuan Mengliu: un uomo che da ragazzo era poeta, impegnato in una contestazione collettiva al governo oppressivo del suo paese, Dayang (località immaginaria, posta nei paraggi della Cina). Ma, dopo la brutale repressione alla quale scampa per caso (e da cui ricava un sordo senso di colpa che non cesserà più di mordergli la gola) Yuan Mengliu si sprofonda nell'anonimato, smette di fare politica, diventa chirurgo ospedaliero e (per citare un altro poeta ebraico, Saba) appende la cetra alle fronde dei salici, conducendo da allora in avanti una spenta e muta sopravvivenza, e affidandosi allo stordimento della soddisfazione sessuale. Il suo silenzio, però, viene improvvisamente messo in discussione. 

Molti anni dopo la "restaurazione" del cupo regime di Dayang, Yuan Mengliu fa una delle sue consuete gite alla ricerca di Qi Zi, sua antica compagna di lotta e amante, inghiottita dalle antiche repressioni. Trova invece un tifone, che lo trasporta violentemente in un mondo "altro" – tipico espediente dell'utopia classica occidentale, che l'autrice non tenta affatto di mascherare; anzi, procede su questa china, e ci presenta, appresso a Yuan Mengliu ora "pellegrino", la ridente Valle dei Cigni: una società apparentemente perfetta, serena e pacifica, ma in realtà dominata da un tiranno-robot, sempre nascosto e sempre in ascolto grazie a dispositivi disseminati ovunque, che porta avanti raggelanti principi eugenetici. (Il fatto che l'autrice abbia lavorato per diversi anni in una clinica cinese statale impegnata nel controllo delle nascite, e abbia assistito agli abusi e agli orrori perpetrati dallo Stato sui corpi delle donne, conferisce a certi episodi del testo un realismo agghiacciante). Da subito, Yuan Mengliu è riconosciuto come famoso ex poeta, e presto la richiesta di diventare cantore della Valle dei Cigni diventa una aperta e brutale pretesa.

Non è facile, in particolare all'inizio, stare appresso a una narrazione che con immagini improvvise e destabilizzanti si muove tra il passato della contestazione utopica e successiva ricaduta distopica, e il presente dell'antiutopia da manuale. L'autorevole Mo Yan ha definito il romanzo "stravagante"; a tratti si fa persino strampalato. Strampalati risultano anche alcuni fatti, ad esempio il casus belli della contestazione a Dayang, una grande cacca alta nove piani: ma questo in fondo si concilia con un certo spirito cinese, che ama il grezzo quanto l'altissimo, e si dispiega bene anche nel desiderio sessuale che Yuan Mengliu tenta spesso di accontentare, a volte con esiti comici, altre volte con risvolti spaventosi.

Se si vince il disorientamento iniziale, e ci si affida al flusso con fiducia, si viene colpiti da un altro nucleo tematico persistente, espresso in termini fisici. Il dolore di Yuan Mengliu: il peso del sopravvissuto, che è assalito dall'odore di sangue in un giardino fiorito, o rievoca all'improvviso rumore di stivali nel mezzo di una canzone. E il silenzio di Yuan Mengliu: la poesia che preme in corpo, che sale alle labbra ma che il poeta sconfitto sopprime con un'energia disperata, contro sé stesso e contro il mondo in cui la menzogna perverte qualsiasi parola.

Anche lo stile di Sheng Keyi è complesso e sottilmente tormentoso: la tradizione espressiva cinese, fatta di ricchi artifici retorici che ingannano più di quanto svelino, dialoga con la poetica celaniana grondante rimandi dal buio e grida soffocate. 

Fuga di morte è quindi un complesso dialogo anche tra Cina e "Occidente": Keyi porta fuori dai suoi confini la devastazione esistenziale seguita alla repressione di piazza Tien An Men, e ne fa una denuncia. Ma ne fa anche, forse soprattutto, una domanda, la ripresa di una domanda che è originariamente scaturita dal cuore nero dell'Europa. 

Il romanzo è stato rifiutato in Cina, ed è pubblicato solo all'estero. Leggere Sheng Keyi significa quindi leggere una vera intellettuale contestatrice, una fantascientista non foraggiata dal Partito, che rovescia le patinate tecnoutopie in incubi bizzarri e sibillini, costruiti intorno al grido soffocato e ingoiato di chi non sa più come parlare a chi non ha mai voluto ascoltare.