Il giorno dopo ero sempre più in ansia per via della polizia, perché un paziente mi aveva riportato alcune voci di un presunto combattimento con un morto. West aveva anche un’ulteriore fonte di preoccupazione, perché nel pomeriggio era stato chiamato per un caso che si era concluso in modo molto minaccioso. Una donna italiana era diventata isterica per la scomparsa del figlio – un bambino di cinque anni che si era allontanato di primo mattino e non si era presentato a cena – e aveva sviluppato alcuni sintomi molto allarmanti, visto il suo cuore alquanto debole e malandato. Era un’isteria che non aveva molto senso, perché il bambino era già scappato spesso di casa; ma i contadini italiani sono estremamente superstiziosi, e questa donna sembrava tormentata tanto dai presagi quanto dai fatti.

— Howard Phillips Lovecraft, Herbert West, rianimatore, 1922

1.

Chiamate il Dago!

Joseph Petrosino non si era mai sposato. La durezza della sua professione gli aveva negato un conforto e una consolazione così naturale come il matrimonio. Nessuna compagnia domestica aveva mai allietato e addolcito la sua vita nel tempo libero. A dir la verità, da almeno tre decenni lui avvertiva come se da qualche parte vivesse una donna fatta per lui. Infatti, continuava a sentire una costante vibrazione arcana di fondo, come se un filo psichico lo collegasse a questa misteriosa presenza. Ma le lunghe ore di lavoro e le frequenti esposizioni a pericoli mortali che erano proprie della sua attività avrebbero riversato un grave stress su una moglie, un fardello che Petrosino aveva sempre ritenuto eccessivo. Troppe volte le sue audaci imprese nella lotta contro il crimine lo avevano portato faccia a faccia con la Grande Mietitrice. Un pensiero che, saltuariamente, ma neanche troppo, ritornava alla sua mente quasi ogni giorno.

L’incontro più ravvicinato con la Triste Signora era stato sicuramente quel giorno a Palermo. Petrosino era tornato in Sicilia per indagare sulle minacce di morte indirizzate a Enrico Caruso, diventato di recente famoso in tutta l’America. Il 12 marzo 1909, a Piazza Marina, aveva un appuntamento con un presunto informatore, che avrebbe dovuto fornire delle prove contro tutta una schiera di criminali mafiosi che erano andati a vivere nella sua amata New York City, tutti collegati in un modo o nell’altro con il famigerato don Vito Cascio Ferro. Se avesse ottenuto queste prove dei loro crimini, Petrosino avrebbe potuto far ritorno alla sua patria adottiva e alla sua beneamata metropoli per liberare le strade da dozzine di uova marce.

Ma Petrosino era stato tradito e, invece di incontrare un informatore, si era scontrato con una pioggia di proiettili esplosi dagli assassini della Mafia. Solo quell’indefinita sensazione di allarme proveniente da una fonte invisibile, quella capacità che gli aveva “salvato il culo” così spesso in passato, gli aveva permesso di eludere parzialmente l’imboscata. Ferito, era riuscito a mettersi al riparo, tra tutte le cose possibili, dietro un chiosco in muratura che ospitava un orinatoio pubblico. Da quella posizione, con le schegge dei mattoni che volavano via sotto le raffiche dei proiettili, aveva tenuto a bada i sicari con il suo grosso revolver di ordinanza fino a quando le autorità italiane – lente ad agire e probabilmente in parte anche coinvolte nell’aggressione – erano finalmente arrivate.

Dopo essersi fatto curare le ferite, fortunatamente di lieve entità, Petrosino era andato a rintracciare il vero informatore, aveva raccolto le prove, ed era rientrato a New York per realizzare la più grande retata di banditi della Mano Nera nella storia della città. La fama che ne era seguita – dovuta in gran parte al resoconto sensazionalistico del New York Morning Journal di Hearst – si era andata ad aggiungere alla sua precedente notorietà come primo italiano a servire nelle forze di polizia della città, e questo lo aveva reso una figura di rilievo nazionale.

Enrico Caruso, enormemente grato per l’azione eroica del suo compatriota, aveva dedicato al suo angelo custode la sua splendida interpretazione dell’opera I Pagliacci. Quelle erano state le ore più famose e più importanti della vita di Petrosino.

Nella sua carriera successiva, Petrosino non aveva conseguito altri risultati di simile importanza ma, piuttosto, aveva accumulato una serie ininterrotta di piccole vittorie contro diversi criminali di ogni sorta, prevenendo così chissà quali problemi a livello cittadino, fino ad arrivare al momento del suo pensionamento, all’età di sessant’anni, nel 1920.

Adesso, dopo cinque anni di tranquilla lontananza da quelle sue vecchie attività così piene di pericoli – un periodo dedicato alla produzione amatoriale di vino nei suoi alloggi di Mulberry Street a Little Italy, un po’ di orticoltura in vaso, qualche partita a scacchi a Washington Square – Petrosino aveva quasi dimenticato quei giorni di vita temeraria. Le sue vecchie imprese gli risuonavano a volte come sbalorditive e inverosimili. E più di tutte i fatti di Palermo. A pensarci! Sarebbe potuto morire allora, a quarantanove anni, e non avrebbe mai conosciuto i piaceri e i risultati degli anni successivi. Adesso, di quegli antichi splendori rimanevano solo alcune vecchie fotografie sbiadite che occupavano la superficie del suo comò, a casa, vicino ai ritratti dei suoi defunti genitori. A volte, queste riflessioni sulla sua quasi morte lo lasciavano scosso, confuso dagli strani percorsi che la vita poteva prendere, come se il suo sopravvivere a quell’attentato fosse stato voluto da altri, che gli avevano cambiato il destino.