…sanguinando passa il genio e a le dimore ultime anela
Aleardi
Quando, pochi mesi or sono, le gazzette ebbero a parlarne, dell’ultima maraviglia che questa fine di secolo ci offriva, la corrispondenza con Marte, io ricordai subito lui, il mio giovane amico di New-York, Frank Donodel, l’innamorato di Marte.
Non occorre, credo, ricordare le strane notizie. Alcuni scienziati di laggiù pensarono che certi grandi fuochi brillantissimi, i quali mediante i telescopi erano stati scorti sulla superficie di Marte, fossero dei segnali fatti dagli astronomi abitanti di quel pianeta ai colleghi della Terra. E perché già avevano creduto di riconoscere dei segnali anche nei famosi canali gemelli scoperti su Marte dallo Schiapparelli, indubbio segno che quella gente aveva conoscenza della geometria, furono spinti a tentare, mediante figure geometriche, una specie di corrispondenza interplanetaria… Tanto più che, frattanto, le proiezioni luminose di Marte si moltiplicavano con sempre maggiore insistenza, come appelli urgenti lanciati, attraverso agli spazii, dalla gente di quel pianeta a noi… «Ma, insomma, ci vedete o non ci vedete?» pareva dicessero. «Volete o non ci volete rispondere?» E gli scienziati americani decisero di rispondere. E nelle deserte, immense lande nude del centro dell’America, costruirono delle gigantesche muraglie di terra per alcune diecine di chilometri lunghe, raffigurando con esse il noto ponte dell’asino degli scolari di prima classe liceale, il teorema notissimo del quadrato della ipotenusa… Poi presero d’assalto il famoso Osservatorio di Lynck, nel quale è il più gigantesco telescopio del mondo, e puntatolo sul rosso pianeta aspettarono… Oh! maraviglia… Appena poche notti erano trascorse, e su Marte apparve luminosa la dimostrazione del teorema!
Povero Frank! Che peccato ch’egli non abbia potuto godere della gioia degli astronomi americani, egli che ne era sì degno, egli che amava tanto l’astronomia, egli che tutte le sue aspirazioni, i suoi studi, la sua intelligenza, il suo cuore, aveva concentrato sul bel pianeta colore di rubino.
Lo trovai e lo conobbi una sera di primavera, a New York, in Bowery, la classica via dei musei di curiosità, dei pignoratari, e dei tagliaborse, ora saranno quattordici anni. Un astronomo da piazza aveva piantato il suo osservatorio, un cannocchiale, non cattivo per vero, davanti al Cowper Institute, e l’aveva puntato sulla luna. Chi voleva, sborsando appena dieci cents, poteva concedersi il piacere d’una rapida corsa a volo d’uccello sulla gialluta faccia del nostro satellite. L’astronomo vagabondo m’invitò a guardare, dicendomi:
— Guardi… Quello è il Mare Crisium…
Guardai… Ma l’astronomo evidentemente ne sapeva ben poco, e glie lo dissi:
— Quello non è il Mare Crisium. Il Mare Crisium, d’un color grigio verdastro cupo, è molto meno esteso di questo che si vede, ed è a nord-ovest, isolato e chiuso… Quello è il Mare Imbrium…
Un giovane ch’era vicino a me guardò alla sua volta; poi:
— Ella ha ragione… Mi rallegro con lei che sa così bene la topografia della luna… mi disse.
E mentre i pochi curiosi ch’erano intorno e avevano udito, canzonavano il malcapitato astronomo, che s’apparecchiava, smontando il suo strumento, ad andarsene e a cercare un pubblico meno dotto, io e quel giovane ci allontanammo insieme.
E fu da quella sera che diventammo amici.
Frank Donodel, di lontana origine irlandese, era un giovanotto di poco più che vent’anni, orfano e solo al mondo, appena laureato in matematiche. Alto, pallido, coi capelli lunghi, a zazzera, d’un color biondo cinereo, e gli occhi, strano contrasto, neri e accesi come carboni ardenti, il giovanotto s’era dato all’astronomia con tanto amore e così esclusivamente, ch’era stato un miracolo se aveva potuto conquistare la laurea. Subito dopo, da tre mesi appena, era riuscito, grazie ad alcune dotte osservazioni pubblicate in un periodico d’astronomia, a farsi accettare come assistente nell’Osservatorio astronomico di New York, e così i suoi voti più ardenti erano stati coronati; se non che, da quel giorno, la sua salute aveva cominciato a deperire. Egli passava le intere notti nell’osservatorio, e appena del giorno concedeva poche ore al sonno, consacrando tutte le altre allo studio ed alle speculazioni mentali, sovreccitandosi di continuo, non saprei come in maggior grado, se coll’uso smoderato del the o con la volontà ferrea di vegliare e di pensare…
Molte volte io gli fui compagno, nella notte, nel manovrare l’enorme strumento, pesante parecchie tonnellate, ma che pure, per un miracolo della meccanica moderna, si poteva dirigere senza fatica, e in meno di cinque minuti, su qualunque plaga del cielo… E sempre, invano, dopo alcune ore d’osservazione continua ed intensa, io lo supplicai a concedersi un po’ di riposo. Egli non m’ascoltava…
Un giorno anche mi confidò ch’egli aveva accettato un grosso e pesante lavoro per poter mettere insieme il danaro sufficiente per recarsi in California, sul monte Hamilton, presso San Francisco, dove è il maraviglioso telescopio dall’obbiettivo di 91,50 cm. dovuto alla generosità di James Lynck, ed ivi poter studiare per un mese…
Che cosa? Quale astro, quale stella, quale pianeta?
Ne ebbi la rivelazione una sera.
Ero con lui nell’osservatorio… Io leggevo, egli aveva a lungo guardato nel telescopio: poi, stanco forse, s’era buttato sur un divano e, gli occhi chiusi, pareva dormisse…
Il telescopio era puntato verso sud-ovest… Guardai… E vidi il mare circolare di Lockyer… Frank studiava Marte…
Non potei trattenere una esclamazione:
— Com’è bello!
Frank balzò in piedi, e mi s’avvicinò. Aveva udito, perché, afferratomi per un braccio:
— È bello, non è vero? – disse. – Tanto bello da giustificare tutto l’amore, tutto l’interesse che io ho per lui, per Marte! Vedete? Esso brilla del suo bel colore di fuoco, più che una stella di prima grandezza. Esso modifica con la sua presenza l’aspetto delle costellazioni alle quali aggiunge il suo splendore… Il suo color di rubino, non l’ha alcun altro degli astri che si scorgono ad occhio nudo. Anche il popolo d’Israello l’avea notato, e lo chiamava l’infocato. I Greci lo chiamavane Ercole o l’incandescente, gli Indiani Angaraka o carbone ardente oppure Lohitanga o corpo rosso. La mitologia ne fece il simbolo della guerra. Dopo Venere e Giove, fu il primo astro notato dagli osservatori. La conoscenza del suo movimento è dovuta a Keplero, che ne derivò la scoperta delle leggi del sistema dell’universo. Tycho-Brahè aveva fatto degli studi su Marte, Keplero volle conoscerli. Tycho-Brahè acconsenti a comunicarglieli solo dopo che Keplero gli ebbe promesso di non giovarsene per provare il sistema di Copernico. Keplero promise: ma fortunatamente per la scienza non mantenne la promessa. Cassini per primo ne avvertì l’atmosfera; poi la studiarono Maraldi, Beer, Maedler… Schiapparelli ne scoprì per primo i canali rettilinei… Ora, vedete, lo conosciamo quasi come conosciamo quest’America nostra… Raffreddato indubbiamente sino al suo centro, una parte delle sue acque fu già riassorbita, i suoi mari sono meno grandi, meno profondi dei nostri, minore è l’evaporazione, minore la quantità delle nubi: probabilmente lassù non piove mai!.., Alcune terre sono così basse, che, al disfarsi delle nevi polari, sono inondate… La Terra ha una luna sola. Marte ne ha due: la prima ne dista appena seimila chilometri, e corre sì velocemente da farne il giro intero in poco più di sette ore, correndo in senso contrario dell’apparente movimento del sole. Si leva quindi a ponente, e tramonta a levante, facendo tre volte al giorno il giro intero del cielo di Marte, e percorrendo il ciclo delle sue fasi in undici ore, giacché ogni suo quarto dura meno di tre ore… Vi figurate voi il singolare spettacolo? Vi figurate le due lune di Marte – l’altra ne dista ventimila chilometri, e compie il suo giro in trenta ore – ve le figurate voi, queste due piccole lune, dalle fasi rapidissime, dalle ecclissi frequenti? Vi figurate voi il cielo di Marte, sul quale, talora, la sera, dopo il tramonto, sale luminoso un astro che è come Venere per noi, la Terra? Noi, osservandolo, intendo il volgo, ce lo figuriamo come un mondo tranquillo, calmo, inabitato, nello stesso modo che gli abitanti di Venere si figuran forse la Terra… Eppure lassù ferve continua l’opera di forze endogene ed esogene come da noi… Sapete, nevvero? di quei canali gemini dello Schiapparelli, lunghi da mille a cinquemila chilometri, larghi più di cento, che, in linea retta, troppo retta per essere opera del caso, traversano i continenti, fanno comunicare i mari fra loro, e s’incrociano, in mille modi… Essi, siatene ben persuaso, non possono essere che l’opera di esseri ragionevoli… L’ipotesi d’una origine intelligente è naturale. Dicono che, se mai, sono opere gigantesche delle quali ci sfugge lo scopo. E perché non potremmo noi cercarne la spiegazione nell’età più adulta di Marte? Lassù i materiali sono meno pesanti: meno della metà che sulla Terra. L’umanità, perché non potremmo chiamarla così? vi deve essere più civile, più colta, più dotta. Pensate ai progressi realizzati in questo secolo, pensate a quelli che si realizzeranno nel secolo venturo, e già ne vediamo l’inizio, sulla Terra… Credete a me. Quelli sono segnali che ci dicono che v’è gente lassù: della gente alla quale noi non sappiamo, non vogliamo rispondere, e che forse penserà, come il volgo da noi, che la loro terra è il solo soggiorno possibile per una vita dolce, ideale, intellettuale, che quaggiù vi devono essere de’ bruti… Eppure, no, che v’è qualcuno che pensa, che v’è qualcuno in comunicazione d’affetti con essi… Io, vedete, non ho altro pensiero. Io lo amo, Marte. E me lo figuro. Io credo che arrivando lassù non dovremmo provare maggiori sorprese di quelle che proveremmo, io e voi, sbarcando in Australia. Le onde là pure batton la riva e vi si spezzano, perché lassù pure il vento spira. E quando il cielo è puro, e l’atmosfera è calma, lo specchio delle acque, come sulla Terra, riflette il sole lucente e il cielo luminoso: e, senza la colorazione speciale, rossa, gialla forse più che rossa, delle piante, e le loro nuove forme, potremmo crederci sulle rive dell’Atlantico… Quanto agli esseri animali, io sono con Swerdenborg. Non sono con Fontenelle che crede che gli abitanti di Marte sian tali da non meritare la pena che si pensi ad essi: non sono con Kant, che non li crede più intelligenti di noi: non con Fourier pel quale Marte è un pianeta inferiore. Toussenel, quando nel suo Spirito delle bestie scrisse che non si può imaginare il numero di tipi odiosi, velenosi, orridi, ributtanti, che la Terra deve all’influenza di Marte, e citò il rospo, mostrò d’aver meno spirito della più stupida delle sue bestie. Il padre Kircher mi fa compassione quando nel suo Itinerarium extaticum guarda Marte di cattivo occhio come gli antichi astrologi, e mostra di credere alle sue influenze maligne, sebbene non lo creda abitato, dicendo che Colui il quale volle creare i rettili, i ragni, le erbe velenose e le piante mortifere, l’arsenico e gli altri veleni, può benissimo aver posto nel cielo astri di sventura, l’influsso dei quali sia pericoloso per coloro che sulla Terra tentano di prevalere… Io sono con Huyens che crede alla necessità che siano identici a noi: sono con Richard che difende la universalità del tipo umano… Lo so bene, che noi non possiamo concepire cosa che non somigli a cosa che già non esista… Anche gli dei ci siamo creati fatti come noi. E noi, imaginando, non possiamo creare… Goethe mostrando un giorno ad alcuni amici una moltitudine di piante, di fiori fantastici, ch’egli aveva prima tracciato chiacchierando, forme imaginose, bizzarre, pazze, bene osservava: fossero state anche mille volte più bizzarre, si avrebbe sempre potuto chiedersi se non ne esistesse il tipo in qualche punto della natura. Disegnando, l’anima racconta una parte del suo essere essenziale, e sono precisamente i segreti più profondi, che, in quanto riguarda la sua base, riposano sul disegno e la plastica ch’essa in tal guisa intravedo… Ma, e poi? Marte è passato per tutte le nostre fasi: Marte è quale sarà la Terra fra dieci, fra venti secoli, e la materia è una per tutto l’universo. Io sono con Swedenborg che dice che gli abitanti di Marte sono uomini, ma sono migliori di tutti, e crede siano nel maggior numero uomini non diversi da quelli che furono nell’antichissima chiesa cristiana sulla Terra, quali, sulla Terra, ridiventeranno fra non molti secoli…
Frank parlò press’a poco in questi termini, ma parlò per tre ore… E le cifre, e i nomi, e gli argomenti per dimostrare che gli astri son fatti per essere abitati, come i bottoni di rosa son fatti per sbocciare, e che le manifestazioni della vita debbono essero press’a poco le stesse per tutto l’universo, furono tali e tanti, e parlò con tanto calore, con tanta enfasi, con tanta convinzione, e andò sì oltre con le sue conclusioni, ch’io mi domandai più volte s’io avevo a fare con un dotto, di dottrina e d’ingegno e di vedute superiori, o… con un pazzo!
Tre mesi dopo – nel frattempo ero stato sempre l’amico suo, il suo confidente, l’unica persona alla quale parlasse liberamente, mettendo a nudo tutto il suo cuore e tutto il suo ingegno – una sera, andando come di solito all’Osservatorio, trovai dal portiere una lettera sua per me. Mi dava semplicemente notizia che il caso e la sua buona fortuna l’avean messo in possesso d’una somma sufficiente, e ch’egli era partito per la California, in gran fretta, perché temeva di non arrivare in tempo… E non diceva a far cosa, e non aggiungeva altro che un addio, in italiano. Pochi giorni appresso anch’io lasciavo New York, e l’America, e ritornavo in Italia.
Or sono otto anni le gazzette americane narrarono che uno sconosciuto, il quale non si potè mai identificare, era stato arrestato nelle vie di New York, perché senza mezzi di sussistenza, e perché avea dato segni non dubbi d’alienazione mentale. Ricoverato nell’ospedale dei pazzi di quella città, la sua era stata trovata una strana mania: affermava d’aver conosciuto una fanciulla abitante sul pianeta Marte, di averla amata e d’esserne poi stato tradito; e voleva ad ogni costo recarsi su Marte a punirla del suo tradimento… La sera dovevano rinchiuderlo bene, ed impedirgli d’avvicinarsi alle finestre, e di vedere il cielo e le stelle, perché tentava di salir su quelle per dare la scalata a Marte… Ora in quell’anno appunto 1892, il perielio di Marte corrispondendo coll’afelio della Terra, Marte si trovava ad una delle sue minori distanze possibili dalla Terra: appena a quattordici milioni di leghe… E una sera, eludendo la vigilanza de’ suoi custodi, potè salire sul tetto, e di là spiccare il volo, che, povero Icaro, lo menò a sfracellarsi miseramente sul lastricato della corte sottoposta…
Allora io pensai al mio povero Franck, come ho pensato a lui, a Frank Donodel, l’innamorato di Marte, quando, pochi mesi or sono, le gazzette ebbero a parlare dell’ultima maraviglia che questa fine di secolo ci offre: la corrispondenza con Marte.
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