“Beh, cosa vuoi da me? Io sono un populista sovranista convinto e però non li ho ancora visti, questi trifidi. Sono forse bifidi… sicuramente saranno infidi. Eheh..! Perciò, segnatelo sul calendario, razza di smidollato: verrà il giorno dei trifidi e come minimo resterai a bocca aperta e… a occhi chiusi!”
Non so chi è il simpaticone che potrebbe parlarvi così, ma in base a questa frase da strafottente ci si può chiedere sicuramente: “Ma quando sarebbe, ‘sto giorno dei trifidi? E perché resterei con gli occhi chiusi?” Prima risposta, ovvero messaggio ontologico sulle catastrofi: non si può mai sapere quando arriverà il giorno che vi sconvolgerà la vita nel bene o forse più facilmente nel male, quindi, come disse un mio amico poeta metropolitano, meglio non vivere di sola sensibilità ma essere anche tosti quanto basta, perché quando imparerete a segnarvi i giorni dei trifidi sul calendario o sul diario per cercare di tenere tutto sotto controllo sarà già troppo tardi, perché l’evento scatenante vi avrà colto di sorpresa al momento sicuramente meno opportuno, e “rimontare” il punteggio del karma sarà solo un’illusione (per inseguire la quale però continuerete almeno a battervi con valore). Risposta due: le disgrazie spesso non vengono da sole, quindi avrete a che fare con i trifidi (o con due cugini deficienti, o con una ex persecutoria, tanto per fare due esempi equivalenti) e contemporaneamente – come nel romanzo – la stragrande maggioranza della gente diventerà cieca, ed ecco che c’è da sperare che resterete solo a bocca aperta e non con gli occhi chiusi per sempre o aperti fissi e bianchi diafani; e inoltre ci sarà un’epidemia, non di Covid ma di qualche altro virus diabolico che colpisce in questo caso il sistema digerente.
Ok… che cosa avremmo mai fatto di male per meritarci questi schifi? Due le scuole di pensiero in proposito: la società umana nel suo complesso si è sviluppata male, su presupposti che si son via via corrotti – e allora avrebbe ragione l’ecclesiastico che tetramente tuona il solito sermone sul modello del “Pentitevi”, eccetera, e John Wyndham lo inserisce nella scena della prima riunione della comunità di sopravvissuti, come a dire: vi serve proprio, questo tipo di interpretazione colpevolizzante della realtà? Ve lo inserisco nel ventaglio delle opzioni, servitevi! Oppure: siamo perlopiù innocenti, ma di fronte a un destino di melma sarà fisiologico cercare laicamente qualche nostra colpa pregressa anche se non c’è o se è discutibile, e trascinarsi ‘sto fardello sul groppone anche mentre si cercano con grande impegno soluzioni (progressiste).
E invece no, sto barando, aggiungendo qualcosa di mio a un romanzo del filone apocalittico che già è abbastanza ricco di suo. Infatti, l’ansia di attribuirsi una qualche vaga colpa che renda più faticosi gli sforzi per la sopravvivenza non è presente nel libro così come l’ho formulata (ma psicologicamente esiste), bensì come imbarazzo, fortissimo scrupolo, di chi per fortuna ha conservato la vista, nel decidere di mettersi in salvo abbandonando al loro destino i nuovi, improvvisi, ciechi derelitti, che si ritrovano a vagare saccheggiando a casaccio i negozi sperando di aprire scatole che contengano materiale commestibile. Pietosamente, il protagonista toglie a una di loro una scatola di caffè e gli passa un barattolo di fagioli, per consentirgli di sfamarsi subito. Ma per quanto? Queste orde di eterogenei Tiresia senza la capacità di profetizzare alcunché hanno la sorte segnata. E invece Wyndham fa interrogare a lungo i suoi personaggi principali su questo; è il dilemma morale che anima la prima parte del libro. Ho detto prima che è un romanzo ricco, perché, a dispetto dello schematismo shock dello sviluppo del genere apocalittico, un autore che abbia mano sicura come il britannico riesce a riempire il desolato scenario con vari spunti e sfaccettature.
L’inizio, ad esempio, è da mystery tale, perché è tutto indefinito e il protagonista non ricorda neanche chi sia, perché Wyndham per sorprenderci ci fa assistere all’evento scatenante attraverso gli occhi di un tale che era bendato alla testa e ricoverato privo di sensi in un letto d’ospedale. Anche noi, quindi, menomati come lettori, e senza l’aiuto del “narratore onnisciente”, capiamo solo poco per volta cosa può essere successo, mettendo insieme delle impressioni per lo più sonore. Questa è una situazione che oggi va di moda ricondurre alla categoria dell’eerie (si veda il noto saggio di Mark Fisher): l’inquietante che si configura in un gioco di assenze e presenze che induce a porsi domande assillanti che quasi sempre restano senza risposta. Eppure lo scrittore abbandona questo gioco terribile di farci immedesimare nell’impotenza di un cieco, perche invece questo protagonista, proprio perché era bendato al momento fatale per l’umanità, un po’ dopo essersi tolto da solo le bende si rende conto di essere guarito dal precedente incidente (su cui tornerò in seguito) e di essere quindi rimasto uno dei pochi che, non avendo visto, potrà vedere tutto il dopo. Segue la fuga dall’ospedale. E ogni attraversamento di territorio, per tutto il territorio testuale, è disseminato di incontri e visioni sconfortanti di gruppetti o singoli individui rimasti ciechi che “si attaccano” ad ogni suono pensando che possa indicare la presenza di qualcuno che invece ci vede e che potrebbe guidarli, o per carità o se schiavizzato con la forza, come accade alla protagonista femminile (ma d’altronde anche nel celebre romanzo del 1995 Cecità del premio Nobel Josè Saramago esistono ciechi malvagi, e in generale la condizione di non vedere simboleggia l’indifferenza, la mancanza di solidarietà che troppo spesso si riscontra nella vita reale. Anche nel racconto del 1904 di Herbert G. Wells Il paese dei ciechi, altrettanto noto per gli appassionati, al di là di qualche aspetto poetico della isolata comunità ecuadoriana di ciechi, bloccata tra le montagne, l’aspetto sociologico del conformismo collettivistico assume un tono distorto, minaccioso, e il vedente, casuale intruso, rinuncia all’integrazione ed è costretto a fuggire, e in tal modo, per i lettori, il proverbio "Nel paese dei ciechi l’orbo è re” viene smentito). Ma parliamo di nuovo di Il giorno dei trifidi e andiamo per ordine: dunque c’è la disperazione per lo più impotente dei non vedenti, il loro vagare, ma l’evento misterioso, che veniva dal cielo, ha determinato anche e soprattutto un gran vuoto: il traffico non esiste più, tutto è immoto, e Londra sembra una città fantasma.
Il libro è del 1951 e il film con la regia di Steve Sekely che ne è stato tratto è uscito nel 1963, mentre successivamente c’è stata una trasposizione radio della RAI negli anni ’70 e due adattamenti televisivi a puntate della BBC, nel 1981 e nel 2009, a indicare la longevità di quest’idea distopica seppure un po’ datata – ma a proposito di allarmi apocalittici vorrei annotare che verso la fine degli anni ’70 il neonato movimento punk voleva demolire il gusto della musica (rock, esattamente Progressive Rock) da salotto borghese con simpatie per l’Accademia e il Conservatorio, richiamando brutalmente e ruvidamente l’attenzione sulla crisi recessiva che aveva colpito il mondo occidentale e in particolare il gruppo dei Clash scrisse e registrò un pezzo divenuto una sorta di inno, “London calling“, che richiamava l’annuncio radiofonico di epoca bellica “Qui è Londra che trasmette”, per indicare con un testo opaco e livido, e cantato con voce rauca, che non era tempo di svolazzi estetizzanti perché sembrava di essere vicini alla fine, a qualche tipo di degrado apocalittico: negli USA una centrale nucleare era esplosa, e a Londra il Tamigi, a distanza di non troopo tempo, minacciò di esondare, e questi musicisti giovani e proletari, angry young men avvezzi alle difficoltà, sentivano di essere i primi a poter “annegare” e quindi lanciavano l’allarme con una forma di (volutamente?) rozza poesia da sobborghi e da rissa nel pub a tarda notte, in cui diverse generazioni si sono identificate anche quando si disse che ormai anche il “Punk is dead“. Ma la copertina con la foto “vera” sfocata, del bassista secco filiforme e selvaggiamente dinoccolato nell’atto di sfasciare in terra il suo strumento per un momento di incoercibile rabbia di classe (sociale) è rimasta iconica.
E quindi la vena apocalittica era nell’aria, in quel periodo. Un mio amico, oggi, formidabile videoartista (che ho recensito in altre occasioni), ha ricordato, a proposito di questo romanzo: “Libro bellissimo! L’ho letto a 18 anni e mi aveva impressionato moltissimo, soprattutto le descrizioni delle autostrade e dei paesaggi urbani completamente deserti”. Gli fa eco un suo conoscente: “Anch’io l’ho letto, ma a 12 o 13 anni, e mi sono sentito perfettamente a mio agio in quello scenario, soprattutto per la semplicità del “rimedio” contro le bestie vegetali. In sintesi quel libro ha solleticato cose che sono in me da sempre: la solitudine come dimensione metafisica e quel tipo di soluzione dei problemi che è rinvenibile in un rimedio naturale, cioè basato sul buon senso e sulle risorse disponibili. Inoltre mi ricorda un brano dei Genesis, “The return of the giant Hogweed“, contenuto nell’album “Nursey Crime“. Un pezzo in cui si evidenzia il lato negativo del colonialismo: ti porti a casa malattie o “animali” che possono distruggerti”. Il videoartista ha replicato: “Anch’io, quand’è uscito “Nursery Cryme”, pensai immediatamente al libro. E ultimamente, anche certi scenari durante il lockdown me lo hanno ricordato…” Interverrei per evidenziare dunque come, ben prima dei “riottosi” punk, il Progressive Rock, dei Genesis ma non solo, se da una parte riusciva incredibilmente a imporre nel contesto della musica pop o leggera delle forme elaborate e altamente sofisticate, d’altra parte sul piano dei contenuti non lesinava neanch’esso rappresentazioni “velenose” della critica situazione sociale. sia pur sotto metafore letterarie, in questo caso riferite al passato coloniale ma anche in altri casi al presente (in “Get’em out by Friday” il bersaglio in chiave fantascientifica era la speculazione edilizia). Restando a “The return of the giant Hogweed“, è pertinente qui perché l’organismo pericoloso importato in Inghilterra da un esploratore vittoriano, reduce non proprio da un viaggio nelle colonie ma in Russia, è una pianta: non un trifido ma un'”Artemisia gigante” che poi in terra d’Albione, secondo il testo, cresce e prolifera in maniera abnorme, ricoprendo tutto e avvelenando gli uomini, da quel rampicante invadente e mostruoso che è. Lo spunto venne da una specie botanica realmente esistente, l'Heracleum mantegazzianum, e il testo del brano in effetti cita tale nomenclatura latina nel finale (cantato con urgente e graffiante solennità dall’allora vocalist del gruppo Peter Gabriel) sebbene con un errore: mantegazziani. Questa pianta dagli effetti altamente urticanti per l'uomo costituirebbe una minaccia per la biodiversità in Europa, specialmente in Inghilterra, se si diffondesse.
Nel libro di Wyndham, invece, i misteriosi trifidi, capaci di muoversi e spostarsi su tre-quattro radici pronte ad affondare nel suolo in caso di sosta per agguati prolungati, vengono prima considerati utili e allevati, con qualche precauzione (vengono legati), e questo pone in evidenza, nei primi capitoli, quella che poi sarebbe stata chiamata la manipolazione genetica e isuoi pericoli, in questo caso insiti nel rischio di coltivare esseri mostruosi, delle piante carnivore che possono attaccare l’uomo e che forse comunicano con loro picchiettando in modo fitto e inquietante sul loro stesso fusto. E infatti poi, quando a causa della catastrofe – la cometa che ha reso quasi tutti ciechi – non vengono più controllati, questi esseri riescono a liberarsi e, potendo contare sui loro organi d’offesa, che nel romanzo vengono chiamati variamente “aculei”, “sferze” o “lungo flagello verde”, tendono a occupare ogni spazio, dalle città grandi e piccole fino alle campagne, venendo attirati, pare, proprio dai rumori che producono gli uomini con le loro attività.
Come dicevo all’inizio, le calamità nel libro sono più di una, e la cecità non è provocata dai trifidi – anche se il protagonista Bill nell’incipit si trova in ospedale e bendato alla testa proprio perché, essendo un chimico, in un allevamento di trifidi gli è capitato di ricevere sugli occhi il veleno di uno di quei pestiferi vegetali e di doversi far ricoverare per salvare la vista. Per quanto riguarda la cecità di tutto il resto della popolazione, nei primi capitoli del romanzo si parla di una sorta di cometa, o di una serie di meteoriti di passaggio nel cielo, che avrebbero abbacinato tutti, ma nel finale, per voce di uno dei personaggi, si attribuisce la cecità diffusa che getta in un nuovo Medioevo tutto lo UK a un’altra causa, non un evento naturale, ma – spostando il focustematico in direzione di una critica sociopolitica pungente – la caduta di qualche satellite artificiale portatore di armi batteriologiche che era (per errore?) precipitato, spargendo il virus. I terrapiattisti, se il libro fosse uscito oggi, avrebbero speculato per mesi tutti i giorni su uno spunto simile, e ne avrebbero dato la colpa senz’altro a Obama ma probabilmente anche a Letta e al suo distacco dal popolo, stigmatizzato fino alla nausea e magari in fondo solo presunto.
Sulla solitudine e l’abbandono e il reticolo di strade e autostrade si può anche abbozzare un accostamento con un grande autore successivo: James G. Ballard, con la sua interpretazione psico-surrealista della modernità e la sua post-fantascienza molto sociologica.
D’altra parte, la fantascienza inglese rispetto a quella americana, almeno per un buon periodo, si distingueva per aver ereditato il mood gotico delle storie di fantasmi o dell’orrore, sin dal Settecento, ed era arcinoto in tutto il mondo il senso del mistero, dell’ignoto, e il gusto per le leggende folk tipico dei britannici – anche se Poe e Lovecraft e Hawthorne sono americani. La manifestazione palmare e sfacciata del mostro venuto da un altro Spazio o un altro Tempo aveva più spazio nelle pagine americane – specie dei fumetti anni ’50 – che non nelle storie “made in England“.
Naturalmente certe distinzioni non sono mai davvero nette: in USA, nel 1942, fu girato “Il bacio della pantera” di Jacques Tourneur, che giocava appunto sulla suggestione di orrori non visti, tanto che la trasformazione della donna in pantera viene mostrata una sola volta, e contro le intenzioni del regista, mentre per il resto del film la tensione è assicurata “solo” da ombre, varie immagini di felini, e ambigui effetti sonori (la cosiddetta tecncica del “Lewton bus”, dal nome del produttore). Dieci anni dopo, anche l’ancora più importante “L’invasione degli ultracorpi” di Don Siegel (1956) è una pellicola statunitense (in piena Guerra Fredda) decisamente drammatica e significativa per il suo sottotesto politico (le copie prive di umanità delle persone, prodotte da alieni in disgustosi baccelli giganti, alludono ai comunisti americani veri o presunti a cui aveva lanciato la caccia in tutto il Paese il famigerato senatore McCarthy), nonostante l’apparizione del “diverso”, dell’orrido, sia anche in questo film dosata attentamente. Viceversa, in tempi più recenti la filmografia inglese si è adattata, come successo in vari Paesi del mondo, ai modelli americani. Per tornare ai pestiferi trifidi, l’adattamento cinematografico del 1963 del libro di Wyndham è molto approssimativo e ingiustificatamente lontano dall’originale, compresa l’idea semplicistica di far scoprire per caso a due personaggi una sostanza naturale capace di uccidere i trifidi: l’acqua di mare, espediente assolutamente non fedele al libro e fin troppo simile a quello che chiude “La guerra dei mondi” (da Herbert G. Wells), con l’aggravante che in questo caso c’è una nota religiosa che è piuttosto estranea allo spirito con cui Wyndham ha scritto il romanzo originale.
E allora è senz’altro il caso di focalizzarci di nuovo sul libro. Prima delle digressioni sulla musica e sul cinema, stavo soffermandomi sulla desolazione ballardiana ante litteram di un’Inghilterra desertificata o percorsa da ciechi disperati, e invasa sempre più dalla vegetazione, su cui spiccano i temibili trifidi semoventi: ebbene, i movimenti di Bill sul territorio lo portano ad avere infatti la sconfortante e allucinata visione di simboli di Londra come il Palazzo del Parlamento, il Tamigi, e l’Abbazia di Westminster in un tale stato di selvaggio abbandono che “Era difficile convincersi che tutto quello non significava più niente, che era ormai soltanto un portentoso ammasso di pietre malferme che potevano crollare”, eppure era così, e l’Abbazia conservava al suo interno “i monumenti di gente la cui opera era ormai completamente distrutta”. A pag. 81 si osserva che la malinconia terrea porta a dire addio ad alcune bellezze, perché, per quanto terribili, i bombardamenti aerei nazisti su Londra furono meno tremendi della situazione attuale, che a differenza di quella bellica non è recuperabile. Poi, più avanti, le impressioni sul paesaggio continuano (seguendo gli spostamenti dei superstiti) nel confronto tra città e campagna, con le riflessioni sociologiche tradizionali che vengono sostituite dalle analisi su quella distopia vegetale definitiva, che costringe chi vive in provincia ad asserragliarsi in casa, con la impossibilità in molti casi di trovare rifornimenti, quasi sempre cinto d’assedio dalle malefiche creature verdi.
E se peraltro questi esseri di dubbia origine vengono illustrati già nei primi capitoli nelle loro caratteristiche (le dimensioni; l’adattabilità a vari ambienti; una forma d’intelligenza che li porta a colpire gli umani nelle parti scoperte come mani, testa, occhi; gli aculei spesso fatali; ma anche proprietà che in una prima fase li avevano fatti molto incautamente considerare come “una benedizione” – tipico atteggiamento umano sconsiderato che accetta dei pericoli pensando di poter sfruttare economicamente certe risorse naturali o artificiali; e viene riportato anche il processo filologico di attribuzione a essi dello stesso nome “trifidi” e le considerazioni sulla loro stranezza considerata in fondo solo relativa), la maggior parte del romanzo, facendo onore alla definizione di Fantascienza , esibisce ancora di più il carattere razionale dell’approccio da avere sia narrativamente sia nell’affrontare le minacce catastrofiche. Infatti, è vero che il romanzo trabocca di manifestazioni di disperazione, su cui tornerò a breve, ma è chiaro che a stagliarsi nel panorama umano è l’appello di alcuni alla logica, alla necessità di organizzazione e di trasmissione della conoscenza. In particolare, è il personaggio di nome Coker, figura particolarmente versata nell’arte oratoria, con un eloquio sia forbito che spiccio, che rivela delle origini difficili che lo hanno temprato, a svolgere il ruolo a volte antipatico di portatore dell’unica ideologia che conta in quelle circostanze: quella del pragmatismo associato al merito, perché – afferma – “econdo il concetto che mi sono fatto studiando la Storia, per valorizzare la conoscenza è indispensabile aver agio di dedicarvisi. Là dove tutti devono lavorare duramente per guadagnarsi il pane non c’è tempo libero per pensare, la Scienza stagna e il progresso con essa”. Nel regime restrittivo da adottare per garantire la sopravvivenza, cioé, c’è il rischio del declino intellettuale e del poter assicurare alla discendenza un’istruzione solo rudimentale. E invece, “per utilizzare il tesoro di cognizioni contenute nelle biblioteche, dobbiamo avere tra noi l’insegnante, il dottore, il capo, e sostentarli in cambio del loro aiuto”. Non è un discorso settario ma di mera suddivisione del lavoro – in condizioni eccezionali d’emergenza, per giunta. È anche per questo, oltre che per rimproverare per il mancato uso in un “rifugio” (a Tynsham) dell’impianto autonomo di elettricità, che ancora Coke attacca una giovane ignara di nozioni tecniche, non cieca, che stava dandosi da fare rammendando, per la comunità, a lume di candela; le dice che è vanità snobbare la tecnica, e che la presunta debolezza femminile è solo pigrizia; e malgrado sia lei che il protagonista Bill obiettino che lei non è la responsabile, e che è normale che le persone abbiano diversi interessi e che non tutti possano essere portati per le discipline scientifiche, Coke si accanisce al punto di dire, “con la franchezza di un facchino” – osserva Bill, che narra tutto in prima persona – che “nel mondo ormai finito le donne avevano tutto l’interesse di recitare la parte dei parassiti”. Santi numi! Se l’avesse scritto oggi uno scrittore qualsiasi, si sarebbe attirato contro il finimondo. Ma attenzione: questo stesso personaggio chiarisce anche che non ha fatto col suo discorso che “dimostrare che le donne hanno tutte le capacità, se solo si prendessero la briga di farne uso”. Oggi si potrebbe aggiungere, altresì: e se solo i datori di lavoro garantissero loro uguale trattamento degli uomini, in certi settori dove ancora sono molto svantaggiate. Quanto a Wyndham, che inventa certi personaggi, a pag. 119 dà corpo ai pensieri di Bill: “Cominciai a riflettere sui sistemi di donne risolute e rivoluzionarie come Florence Nightingale ed Elizabeth Fry. Non si può fare nulla con donne come quelle, e inoltre spesso si scopre che, dopo tutto, hanno ragione”. Giusto, giustissimo; non è il caso della mia ex più importante, però, perché lei ha torto marcio – chiusa parentesi.
Le idee su quale messaggio ricavare dalla catastrofe e sul come organizzarsi sono comunque diverse ed emergono in due diversi capitoli del libro, su due diverse riunioni, più o meno: c’è un colonnello, e poi il capo carismatico Michael Beadley, un professore di Sociologia, un ecclesiastico e poi una donna puritana, la signorina Durrant, che appunto in una fase avanzata della storia esprime con rigidità i valori morali a cui dovrà improntarsi la sua comunità “onesta”, che rifiuta la “gente perduta”, ma anche “I cinici e i superintellettuali”, che saranno degli “indesiderati qui, per brillanti che siano le teorie con cui ammantano la loro licenziosità e il loro materialismo” (sic!). Ovviamente, costei dovrà fronteggiare Coker, che non si lascerà congedare facilmente e affermerà in buona misura la sua personalità, etichettando inoltre, in disparte, Miss Durrant come una tipa tutto “Orgoglio e pregiudizio”, citando così il capolavoro di Jane Austen del 1813.
Comunque le concezioni prima raccolte nella coalizione di Beadley in seguito conoscono una scissione, ma il nodo della questione morale, del dissidio, è esprimibile soprattutto nella contrapposizione tra chi ha ancora il dono della vista e cerca di organizzarsi in modo razionale per sostenere solo una quota selezionata di poveretti rimasti ciechi, soprattutto le donne, secondo alcuni, e chi invece come Bill non si dà pace per un bel pezzo al pensiero di dover abbandonare i disgraziati al loro destino. È il senso di colpa di cui parlavo all’inizio, determinato dal troppo scrupolo di uno spirito idealista e da un forte senso d’umanità: l’opera pietosa e sfiancante di Bill, in una certa fase, di aiuto e sostentamento di un ampio gruppo di ciechi, viene poi da lui definita come un palliativo, come “uno di quei calmanti che si iniettano agli ammalati gravi per tenerli invita ancora un poco… Non hanno alcun valore curativo, non fanno altro che rimandare il momento”. Va innestata qui allora la considerazione di tutti gli aspetti e spunti psicologici dolenti che danno sostanza a questo romanzo, come in ogni distopia solida che si rispetti: “La vita è molto preziosa, anche così”, soggiunge tesa una ragazza condannata con cui parla Bill; non è la sua donna, ma lui avverte comunque da un’altra sua frase una nobiltà non comune, e con rammarico se ne distaccherà, conoscendone il destino, pensando “E non seppi mai neppure il suo nome”. Sono, questi, drammi che fanno sentir soli, e io conosco fin troppo bene questa sensazione, “La solitudine assoluta era il peggiore stato che si potesse immaginare. Da solo, uno era come nulla. Un compagno significava progetti, e i progetti aiutavano a tenere a bada la paura”. Wyndham torna inevitabilmente diverse volte su questo tema, come quando scrive “Ma i miei genitori erano morti, il mio unico tentativo di sposarmi era fallito anni prima, e non c’era nessuno a cui fossi legato in modo particolare…” oppure “l’orrore che la completa solitudine riserva a una specie per sua natura socievole”. Esatto: la solitudine è una condizione contro natura per l’Uomo. nel corso della sua vita. Tuttavia, la “forza di volontà” può far molto, e anche a me non manca di certo, e questa recensione ne è uno dei tanti risultati. “Dobbiamo avere il coraggio morale di pensare e di decidere da soli”. Come il protagonista avanzava scuro in volto verso Regent Street, così io, nel pieno di una incertezza esistenziale senza consolazioni, e con il serbatoio della benzina in riserva, ho affrontato, l’1/9/2022, una lunga corsa in automobile verso un istituto di una zona cittadina a me sconosciuta, senza “navigatore” digitale e lottando contro il tempo che stringeva: sono arrivato a destinazione, ma a tutt’oggi non so se quella volta sono riuscito a risolvere qualcosa; per il momento no. Questa mia breve divagazione personale è funzionale a introdurre qui un altro tema presente nel romanzo: il senso del tragico. Esso ha qualcosa di sublime, tuttavia con spirito pratico Wyndham ci spiega che “Non possiamo piangere che per un limitato periodo di tempo anche sulla perdita più irreparabile del mondo”, eccetera. Certo, come dicevo ad inizio recensione, quando le difficoltà sono molteplici è difficile riuscire ad assestarsi in uno spazio intermedio di speranza: la malattia che colpisce molti dei sopravvissuti è un morbo unico o sono vari malanni che colpiscono a grappolo, per così dire? L’autore non ce lo spiega, ma ci trasmette il senso di una specie di pestilenza quando dice che l’igiene e il cibo avrebbero aiutato, e che bisognava fare incetta di medicinali e cercare di vaccinarsi, mentre poi ogni tanto menziona un “odore” pervasivo, sparso un po’ ovunque. Un malato, e cieco, dice a Bill: “Se state qua ancora un po’, finirete con il rimanerci, come me”.
Le risorse alimentari finiranno, prima o poi, per chi non si organizzerà dandosi alla coltivazione o all’allevamento, e questo però significherà tornare indietro, avere una regressione collettiva, verso un nuovo Medioevo, quando anche lavorare la sera sarà quasi impossibile perché le candele non ci saranno più, “se non impareremo a farle”.
Si assiste a una donna che volontariamente picchia il capo più e più volte contro il muro, per la disperazione, lungo una strada, quando da lì riparte un convoglio guidato da pochi vedenti, e lei e un gruppo di poveri disgraziati rimasti ciechi viene lasciato lì, a vagabondare impotenti, senza speranza.
Altre notazioni psicologiche sparse nel testo: chiedere direttamente “Che tipo sei?”; in altri casi, lasciar cadere il discorso; augurarsi che i sospetti tipici di certe persone coscienziose non siano mai fondati; il modo più efficace per persuadere qualcuno; la fissazione per gli americani e il loro efficientismo, ridicola nel momento in cui tutto il mondo è sopraffatto probabilmente da queste “piaghe” e gli aiuti non arrivano da nessuna parte.
Il protagonista per primo, per noi che leggiamo, ma anche poi la sua compagna, si chiede se un giorno le cose torneranno alla normalità, se ci saranno soccorsi.., o se in particolare lui, Bill, così scrupoloso (quanto lo capisco, dannazione!), dovrà accettare una nuova logica e viventare un ladro, ovvero più precisamente un saccheggiatore, “un avvoltoio famelico che si avventava sul cadavere del sistema che lo aveva nutrito”.
Più avanti, quando arriva in un nuovo rifugio, una base scelta dalla comunità di sopravvissuti, nelle campagne, qualcuno gli chiede: “Dovete aver visto cose orribili…” (sottinteso: nella metropoli da dove venite). Wyndham scrive: “”Sì”, tagliai corto”. In un regime di resistenza (che a volte verrebbe da scrivere con la maiuscola) vanno applicate anche ulteriori norme etiche, tra cui quella di non drammatizzare troppo dinanzi ai più fragili.
Ci si sposta in autocarri, quelli che si è riuscito a reperire, per poter raccogliere viveri e beni indispensabili, tra cui, per proteggersi, particolari maschere e armi anti-trifidi, e naturalmente ci si sente vivi e reattivi quando questi esseri verdi possono essere eliminati, ma sono numerosi, e non c’è certo una vera gioia nell’abbattere questi mostri, perché il contesto resta opprimente, come quando con un colpo di uno di questi speciali fucili viene ucciso in città un trifido; “Il rimbombo nella piazza deserta non avrebbe potuto essere più allarmante se avessi sparato un colpo di cannone” (p. 153).
D’altronde, viene osservato in un altro luogo del romanzo, “Toglici la vista, e la nostra superiorità rispetto a loro è finita”. In generale questo vale per ogni uomo che perda non necessariamente la vista ma la capacità di discernere, socialmente e politicamente.
Particolarmente commoventi sono alcuni episodi, tra cui quello su una vecchia, lungo Buckingham Palace Road, che era rimasta indietro rispetto a un gruppuscolo oranizzato e che cercava a tentoni di procurarsi del cibo oltre la vetrina infranta di un negozio e che si lamentava: “Una vecchia come me non può star dietro ai giovani”. Il protagonista le offre un piccolo aiuto e in cambio le chiede un’informazione, e lei riesce a dargliela, mentre in modo tristissimo e supplichevole, pensando che Bill possa riprendersi le scatole di fagioli, “con un braccio fece un gesto come a raccoglierle tutte”. Lacrime.
Chi prendere, per salvarlo, e chi lasciare? Come già detto, l’interrogativo è il dilemma morale della prima parte del libro, che scatena perfino il senso di colpa per essere stato fortunato a non perdere la vista come gli altri. Come sempre, trovare una compagnia permette di avvertire più vivo il senso di uno scopo e, narrativamente, costituisce un motore della storia. Anche quando questo accade, l’elemento assume coloriture peculiari che dipendono dal dramma ma che, nell’ottica della riorganizzazione dei rapporti umani, alludono anche a temi della Storia del costume (l’amore libero nella Controcultura fine anni ’60 e inizio anni ’70), mostrando però come in condizioni difficili l’integrità degli uomini giusti resta intatta senza indulgere in tentazioni. Però, per offrire il mordente di un po’ di sensualità, Wyndham non lesina qualche accento che oggi qualcuno potrebbe ancora considerare sessista o al contrario volto a sostenere una piena espressività delle donne (la compagna di Bill, Josella, confessa con imbarazzo di aver scritto tempo addietro un romanzo rosa dal titolo compromettente, però quando i due prendono possesso di un appartamento disabitato lei sceglie una camera in cui comparivano “le più aggressive manifestazioni della femminilità”), ma preoccupandosi di bilanciarlo con la nota, ansiogena e romance al tempo stesso, della lunga ricerca di lei da parte di Bill, dopo la loro forzata separazione per motivi organizzativo-logistici.
Peraltro, lei era stata salvata da Bill in una situazione disperata, quando lei era ancora “impreparata” alle nuove catastrofiche condizioni della città (e del mondo), e un’altra coppia, più avanti, meno fortunata, va incontro ad una fine straziante, tanto per ricordarci costantemente che nessuna sopravvivenza è garantita, neanche stando insieme.
Insieme, in gruppi e poi in comunità, ci si può organizzare meglio, ma a volte concezioni diverse entrano in conflitto e comunque si è obbligati più volte a spostarsi in cerca di sedi migliori, con tutti i travagli che un complesso trasferimento comporta. Non farò spoiler, anche se il romanzo è piuttosto celebre, ma vorrei ricordare la considerazione fatta dal protagonista quasi all’inizio, prima di immergersi completamente nel caos: sarebbe stata questione di “come e dove iniziare la nuova vita”, e “vedere che cosa quello strano mondo avesse da offrirmi”.
Mentre i trifidi attorno a noi continuano misteriosamente a frinire come cicale i loro misteriosi e sinistri, striduli messaggi, perché “I piccoli peduncoli spogli” continuano a “tamburellare contro lo stelo”, la stella polare che deve guidare chi vuole strenuamente essere davvero UMANO è il principio del comportarsi bene, perché, come dice Coker quando obbliga con manette Bill a fare da guida per un corposo gruppo di ciechi, facendolo tenere sotto stretto controllo da due di loro, corpulenti guardiani, “Comportatevi bene con loro, e loro si comporteranno bene con voi”. Certamente la routine pesante e il fiato sul collo di certi cani da guardia portano a sgranare maledizioni e rimuginare (è quello che in molti proviamo in questo concatenarsi di distopie nell’Italia reale), ma con un po’ di buona sorte e una bella dose di intraprendenza ci si può liberare anche dei “gorilla” e continuare poi a comportarsi bene, anzi anche meglio.
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