La stanchezza era diventata per lei un’abitudine.
Le sembrava di essere schiacciata costantemente da una nebbia fitta. Ci era immersa dalla punta dei piedi a quella dei capelli, la respirava a pieni polmoni. Conviverci era avvilente e, allo stesso tempo rassicurante, sapeva di non poterla diradare ma aveva iniziato a percepirla come un muro che la proteggeva dal resto del mondo.
Era come se non avesse mai conosciuto giorni di sole.
Lei, loro, tutti si trascinavano in avanti quasi senza sapere quando era notte e quando giorno. Non esisteva più una reale differenziazione, e lo avevano accettato, tanto da non ricordare quanto tempo fosse passato.
Forse meno di quello che in realtà percepivano.
Mara aveva iniziato a lavorare da “Logidream” da un paio d’anni, non appena uscita dall’università. Un nome che sembrava un brutto scherzo del destino, visto che, tra tutte le altre cose, non si ricordava nemmeno più cosa fosse un sogno.
Era stata una delle tante aziende a cui aveva inviato il curriculum, una della lunga lista di nomi che aveva preparato prima dell’invio massivo della sua auto candidatura.
“Accetterò la prima offerta che mi arriva” così si era detta non appena aveva messo piede nel mondo reale. Non si poteva essere schizzinosi di quei tempi, non dopo una pandemia che aveva bloccato il mondo del lavoro, affossato l’economia e sfornato milioni di disoccupati.
Non posso di certo lamentarmi…
Continuava a pensarci mentre ritornava a casa soffiando aria calda nella mascherina, quel pomeriggio in cui il sole era già calato da un bel pezzo dietro i bei grattacieli del quartiere Isola. In realtà ci pensava tutti i giorni, e sempre quando attraversava quella zona. Forse perché durante la pandemia, se c’era una cosa che le aveva fatto impressione, era stato vedere il quartiere Isola deserto, il palazzo Unicredit rispecchiare il verde intorno senza nessuna sagoma o volto umano, le luci rosse in cima che la sera sembravano lanciare segnali di aiuto al nulla, e poi la piazza Gae Aulenti con la fontana che zampillava in una quiete mortale. Per non parlare del bosco verticale che si ergeva in tutta la sua bellezza, come se la vita umana lo avesse abbandonato e la natura avesse finalmente fatto il suo corso.
Si era trasferita a Milano durante gli anni dell’università da una cittadina dell’Umbria piccola e silenziosa. Non era stato facile per lei abituarsi al caos di una città che non dorme mai. Eppure ci era riuscita. Aveva assimilato la frenesia delle persone, il vociare costante che accompagnava ogni momento del giorno come un sottofondo musicale e che mutava in base all’ora. La corsa al lavoro, l’attesa dell’aperitivo, la cenetta fuori scegliendo tra un’infinità di ristoranti diversi, la notte con la musica dei club e dei festaioli alticci.
Si era abituata a questa vita.
A questa Milano.
L’aveva sempre vista talmente affollata da restare scioccata del cambiamento… quello le aveva fatto impressione: l’immobilità, il vuoto, il silenzio.
E ora? Era tornato tutto normale, o quasi. O forse si illudeva che lo fosse. Lavorava, lavoravano tutti, se possibile più di prima. Sì, molto più di prima, c’era troppo da recuperare. Soprattutto in Lombardia, soprattutto a Milano.
Sospirò affrettando il passo, doveva cenare, e poi ricordarsi di andare in standby.
Sì, ricordarsi.
Si era abituata alla stanchezza, ma non era ancora riuscita a far nulla per… per quell’altra cosa. Ogni sera guardava la pillola, la teneva nel palmo e si chiedeva perché era obbligata a farlo. Che cosa diavolo c’entrava lei. Non era una sua responsabilità salvare l’Italia, non la voleva.
Lanciò un’occhiata all’orologio, erano le 21:00. Ok, avrebbe avuto giusto il tempo di cenare e di guardare un po’ di tv.
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