Sono debitore della scoperta di Agathea a un improvviso nubifragio estivo che mi costrinse a entrare nella libreria internazionale di piazza Repubblica. Rimasi qualche minuto a osservare le strisce diagonali di pioggia sulle vetrine, colpito da quanto somigliasse alla luce artificiale del set di un film di Rohmer, prima di dirigermi per deformazione professionale verso la sezione arti e spettacolo. Scorsi i titoli delle monografie dedicate ai grandi registi. Le possedevo praticamente tutte. Mi sorprese la copertina del volume su Jean-Luc Godard, evidentemente una nuova edizione: un fotogramma in bianconero da Le petit soldat, Anna Karina con il volto parzialmente nascosto dietro un obiettivo fotografico. Feci scorrere con indolenza l’indice del volume per controllare se contenesse schede sugli ultimi lungometraggi, magari quel Socialisme ancora in lavorazione o addirittura Les disparus che risultava “in preparazione”.
Provai un brivido di gelo. Il sommario riportava, dopo i capitoli “Gli anni Karina” e “Gli anni Mao”, un incomprensibile “Gli anni Agathea”. Pensai a uno scherzo, un libro parodistico come quelle guide turistiche di paesi inventati con nomi tipo Păh Tak e Molvanîa. Il capitolo era piuttosto breve, c’era la sinossi di un solo film intitolato appunto Agathea, datato 1973 e interpretato da Marlène Jobert. Assurdo. Oppure no? Che fosse stata definitivamente attribuita a Godard un’altra pellicola del collettivo cinematografico Dziga Vertov? Inutile tergiversare, dovevo acquistare la monografia.
Mi presentai alla cassa. Il terminale pos era fuori servizio. Non avevo contante con me, per cui raccomandai a un giovane commesso di tenere il libro da parte e uscii per cercare un bancomat sotto il cielo bluastro. Mi ritrovai a considerare la proposta del mio collega Bertelli di tenere un’altra volta il medesimo corso, io a Roma e lui a Torino, su Cinema e Utopia, oppure sul Cinema come Utopia. Non erano passati quindici minuti quando tornai alla libreria. Il cassiere era scomparso, a quanto pare a fine turno; il nuovo commesso cercò sotto il bancone, chiese spiegazioni a una collega, consultò sul pc il magazzino del negozio: l’ultima copia della monografia su Godard risultava venduta dieci giorni prima. Protestai inutilmente, ottenni solo scuse poco convinte da un’addetta alle vendite con capelli rossi e una lunga gonna color antracite.
I marciapiedi erano ancora lucidi di pioggia, l’acqua scorreva come un torrente dalle grondaie. Raggiunsi rapidamente la libreria più vicina, che sapevo avere un ricco reparto sulle arti figurative: niente da fare, del volume su Godard era ancora in vendita la precedente edizione, quella che già possedevo. Chiesi al commesso di verificare sul catalogo, a quanto pare la nuova edizione ampliata sarebbe stata disponibile solo il prossimo autunno. Pretesi che telefonasse agli altri punti vendita della catena; il risultato fu quello che avrei dovuto aspettarmi. Chiamai con il cellulare la casa editrice della collana, ma il redattore capo, con il quale avevo in comune la collaborazione alla stessa rivista di arte e filosofia, era in ferie. Anche Michele Bravo, l’autore della monografia su Godard, si trovava in vacanza in Campania; l’impiegata non si sentiva autorizzata a dettarmi il suo numero di cellulare, ma mi assicurò che se il mattino seguente fossi passato in redazione, si sarebbe informata se poteva stamparmi una copia delle bozze.
Tornai a casa di cattivo umore. Mia moglie era fuori città per lavoro, passai il resto della serata a cercare notizie sul web, versandomi una tazza di caffè dopo l’altra. Finalmente, una filmografia di Marlène Jobert trovata su un oscuro database francese di cinéma citava una pellicola del 1973, con il titolo Agathea – douze étapes vers l’Utopie, senza indicazioni sulla regia né la produzione. Grazie al motore di ricerca immagini, in capo a un’ora visionai praticamente tutte le gallerie fotografiche di Marlène Jobert presenti in rete, fino a rintracciare un singolo fotogramma sottolineato dalla didascalia “Sul set con J-L Godard, Campania 1970”, dunque tre anni prima della data accreditata per il film: mostrava la Jobert a piedi nudi su una spiaggia, con gonna e dolcevita neri. Nessuna indicazione sul film.
Mi strofinai gli occhi e preparai l’ennesimo caffè. Era quasi mezzanotte, non potevo essere sicuro che Bertelli, il mio collega di Filosofia dell’arte alla Statale di Torino, fosse ancora sveglio; composi comunque il numero di telefono. Rispose la moglie; se era sorpresa vista l’ora, per delicatezza non lo dimostrò. Bertelli invece era divertito dalla mia eccentricità. Eravamo quasi intimi: due anni prima avevamo tenuto il medesimo corso nelle rispettive cattedre; su Godard appunto, titolo “Storia/e del Cinema”; e mi aveva proposto di replicare nel prossimo anno accademico con l’Utopia.
— Agathea? — rispose per prendere tempo. — Platone, il settimo libro della Repubblica, se non erro? Tò agathòn, il Bene. Non mi dice nulla, — ma quando accennai alla Campania nella foto trovata su Internet il tono di voce di Bertelli cambiò completamente: — Curioso che tu mi ponga questa domanda proprio oggi.
Mi confidò che non più di due giorni prima era stato contattato da un certo Marano, padre di un suo allievo, intenzionato a vendere gli originali di alcune foto inedite di Godard: un réportage a quanto pare ereditato dallo zio paterno, che era stato freelance de Il Mattino; in sostanza, uno dei paparazzi che avevano tormentato Brigitte Bardot e la troupe di Godard a Capri nel 1963, durante le riprese di Le Mépris, il lungometraggio in technicolor tratto da Il disprezzo di Moravia. Il Marano sosteneva che lo zio paparazzo avesse ricevuto una soffiata a proposito di una breve vacanza fuori programma di Godard, così l’aveva pedinato nella speranza di sorprenderlo in piccante adulterio con B.B.
Non ero completamente convinto, c’era un intervallo di dieci anni tra le riprese di Le Mépris e il presunto Agathea, almeno secondo la data accreditata sulla monografia che mi ero lasciato sfuggire, e comunque sette anni rispetto al fotogramma rinvenuto su internet. A ogni modo, Bertelli non aveva voluto visionare le foto del paparazzo; mi feci dare il numero di telefono di Marano, ripromettendomi di chiamarlo il giorno successivo.
Faticai a prendere sonno. Il mattino seguente ero davanti alla sede della casa editrice ancora prima dell’impiegata, che vedendomi di persona mi riconobbe: ricordava che durante una mia precedente visita in redazione l’avevo definita “una perfetta attrice non-protagonista in un film di Rossellini.” Era riuscita a mettersi in contatto con Michele Bravo, l’autore della monografia su Godard: le vacanze in Campania erano al termine, il suo rientro era previsto in tarda mattinata; a ogni modo, mi autorizzava a prendere visione delle bozze di stampa, visto che erano già state consegnate alla tipografia. Insistetti per averne una copia stampata da tenere per me.
— Spero di non dovermene pentire, professore, — acconsentì con dolcezza l’impiegata, mentre cercava il file sul computer.
Mi tremavano le mani per l’emozione quando finalmente tenni la risma di fogli A4 tra le mani, con il traguardo delle dimensioni di pagina segnato da lineette discrete sul margine. Anna Karina mi osservava dalla copertina attraverso la lente del teleobiettivo del Petit soldat. Era proprio l’edizione che avevo avuto tra le mani per pochi minuti in libreria.
Mi fermai al caffè più vicino, sapevo che sul retro c’era una saletta tranquilla. Infatti ero l’unico cliente; una lunga teoria di lampadine a basso consumo si rifletteva negli specchi alle pareti toccati dall’umidità, l’atmosfera era quella di una brasserie parigina. Sfogliai febbrilmente la risma di fogli stampati. La delusione fu grande: non era assolutamente l’originale dell’edizione che mi era sfuggita alla libreria internazionale; sembrava piuttosto una versione in progress. Il nuovo capitolo intitolato “Gli anni Agathea” non era che una sinossi di poche notizie, poco più di appunti sparsi: qualche cenno alla crisi seguita al periodo militante in cui Godard si era diluito nel collettivo cinematografico Dziga Vertov; le riprese di diversi film iniziati e svaniti nel nulla, come il fantomatico “cartone animato materialista” da girare a Cuba; tutti progetti troncati dall’incidente automobilistico del luglio 1971. Fra questi “incompiuti”, un lungometraggio concepito come resumé del concetto di utopia. Nessuna indicazione su una possibile trama, tranne un promemoria da sviluppare: Agathea = Alphaville = Atlantic Cité. Sospirando, cercai la scheda filmografica in appendice. Era ancora più sintetica: niente indicazioni sulla produzione né sulla durata, come attori riportava “Marlène Jobert e comparse non professioniste”, la conferma dell’anno di edizione (1973) e l’informazione che la pellicola era incompiuta e mai distribuita.
Una ragazza vestita di blu entrò nella saletta, si accomodò al tavolino accanto al mio e cominciò a leggere un libro. Chiusi gli occhi e mi appoggiai allo schienale della sedia. Ordinai un secondo caffè doppio, chiusi gli occhi e ascoltai brandelli di conversazioni dal bancone all’ingresso del locale. Inspirai profondamente e mi guardai intorno. La ragazza del tavolino accanto sollevò gli occhi dal libro e mi sorrise. Portava occhiali con montatura di celluloide nera.
— Peccato che piova, — disse.
Era vero, non mi ero neppure accorto che si era rimesso a piovere con insistenza, come il giorno prima. Righe d’acqua strisciavano la finestra dietro i tavolini, la luce nella saletta del caffè aveva assunto la qualità inesorabile di una scenografia di Bergman, così bianca e così grigia. La ragazza leggeva un tascabile di Herbert Marcuse, non riuscii a vedere il titolo. Non avevo voglia di fare conversazione; dissi qualche frase di circostanza, poi tornai a scartabellare la risma di fogli stampati.
Cosa intendeva Bravo? Alphaville è la disumana città del futuro nel film omonimo che Godard girò nel 1965; circolò anche un’edizione italiana con il titolo Lemmy Caution missione Alphaville, ferocemente contestata al festival del cinema di fantascienza di Trieste. Un’antiutopia nera e lugubre, nella tradizione di Orwell e Huxley, una civiltà rigidamente pianificata nella quale chi non è in grado di comportarsi razionalmente viene eliminato. Atlantic Cité è l’immaginaria città che fa da sfondo alla surreale indagine hard boiled di Made in Usa, il “Film Po” (po-liziesco, po-litico e po-etico) di Godard del 1966: è la città-America, il futuro di un’Europa in via di omologazione. L’u/topia, il non-luogo per antonomasia, l’anti-utopia di un consumismo senza limiti, stigmatizzato da una battuta di Anna Karina, la protagonista: “Pour moi la publicité c’est une forme de fascisme”.
Deluso, mi strofinai gli occhi e guardai l’ora. Avevo dimenticato di telefonare a Marano, ma rimediai subito con il cellulare. Decisamente la ruota della fortuna girava a mio favore: l’uomo che sosteneva di possedere foto inedite di Godard in Campania si trovava di passaggio a Roma, per la precisione a pochi isolati di distanza da me. Aveva bisogno solo di pochi minuti per recuperare i negativi e raggiungermi al caffè.
— Aspetta qualcuno? — domandò ancora la ragazza del tavolo accanto.
La osservai meglio. Era molto bella: poco più di venti anni, un orecchino di corallo al lobo sinistro e capelli nerissimi lunghi quasi fino alla vita. La classica studentessa universitaria, ne avevo viste tante dalla mia cattedra durante gli anni.
— Ci conosciamo? — dissi.
La giovane sorrise a occhi chiusi, come se l’avessi colta in flagrante.
— Sono iscritta a Filosofia, — rispose. — Tre anni fa ho seguito il suo corso di Storia del cinema. 30 e lode.
Annuii.— “Il volto umano nel cinema di Ingmar Bergman”, — dissi.
La luce polarizzata attraverso vetri rigati di pioggia era dunque un avvertimento. Forse ricordavo la ragazza, o forse no: ho sempre invidiato il modo in cui una donna può modificare la fisionomia semplicemente con un cambio di pettinatura.
— Qual è l’argomento monografico di quest’anno? — domandò la giovane con un cenno al plico di fogli sul mio tavolo.
— L’utopia, — risposi senza riflettere.
La ragazza approvò con passione, e aggiunse che era un peccato essersi già laureata.
— Cinema e utopia, — commentò. — Ho sempre pensato che fosse un tema trascurato. Letteratura in quantità, e praticamente nessuna pellicola.
— A me non stupisce affatto, — replicai senza troppa convinzione. Avevo la testa altrove. — Il cinema è un’arma carica, — aggiunsi.
In quel momento arrivò Marano. Entrò in scena come un protagonista di Pasolini: non so come, mi riconobbe subito e venne a salutarmi con la sua stretta di mano molliccia. Portava una valigetta con gli angoli consumati dall’uso; dentro, in una carpetta chiusa da nastri, c’era un pacco di buste di carta piene di negativi fotografici, strette da due elastici verdi. Ogni involucro conteneva anche la stampa dei provini su carta Kodak. Aveva con sé una pesante lente d’ingrandimento da tavola.
Osservai la ragazza, si era rimessa a leggere come se non avesse mai attaccato discorso. La prima busta di negativi era datata “primavera 1963” con una calligrafia antiquata. Erano tutti scatti di Jean-Luc Godard a zonzo da qualche parte nel Mezzogiorno. L’espressione del regista non dimostrava entusiasmo per il fotografo. Aprii la seconda busta: neppure l’ombra di Marlène Jobert, come di qualsiasi altro attore. Eppure in diverse immagini si vedeva una macchina da presa Mitchell 35mm che Godard aveva con sé. Marano capì dalla mia espressione che il materiale non mi interessava, per cui estrasse dal plico una delle ultime buste di negativi. Mi curvai con l’occhio sulla lente e trattenni il fiato. La Jobert, senza dubbio; in altre foto c’erano anche dei giovani sconosciuti, vestiti alla moda degli anni Settanta, forse i dilettanti accreditati nella filmografia di Michele Bravo: ma l’obiettivo era interessato soprattutto all’attrice professionista. Finalmente, nei provini della busta successiva Marlène Jobert era vestita come nel fotogramma che avevo trovato su Internet, dolcevita e gonna nera; evidentemente erano foto rubate con il teleobiettivo, perché la troupe aveva allontanato il paparazzo. Con la Jobert c’erano un cameraman, Godard e diversi studenti.
— Sapevo che le ultime foto erano quelle più interessanti, — disse Marano.
Non trattai più di tanto sul prezzo. Acquistai i diritti di riproduzione delle ultime quattro pellicole, e con mia sorpresa l’uomo tirò fuori un cd che conteneva la scansione di tutti i negativi, che masterizzò su un altro cdr vergine e mi consegnò.
Soltanto quando se ne andò mi resi conto che ancora non aveva smesso di piovere. Il segnalibro della ragazza era avanzato di parecchie pagine, un’altra teiera era comparsa davanti a lei sul tavolo.
— Che sollievo scoprire che non è così cinico, — disse con un sorriso malizioso, posando il suo Marcuse, così che lessi il titolo: La fine dell’utopia. Aveva origliato qualche brandello della mia conversazione con Marano? La ragazza aveva un volto elegante e decisamente fotogenico, quasi esistenzialista. Non avrebbe sfigurato in qualche film nouvelle vague.
— Dunque, perché il matrimonio fra cinema e utopia non dovrebbe funzionare? — insisté la giovane.
— Scommetto che se cercasse la parola utopia su un archivio di film, per esempio IMDb, troverebbe una quantità di titoli, — risposi.
— Pellicole di serie B?
— Non è questo il punto, — precisai. Improvvisamente, con le foto del film di Godard virtualmente in tasca, mi scoprivo loquace. — Il fatto è che il Cinema è molto più affine al rovescio dell’utopia, lo chiami come vuole: distopia, anti-utopia o utopia negativa.
— Ha detto che secondo lei il cinema è un’arma carica.
— Precisamente. Il vero film di guerra non ha bisogno di mettere in scena la guerra, perché fino dalla sua invenzione è stato utilizzato direttamente come un’arma, c’è chi l’ha definito “una macchina da guerra” per la sua capacità di creare una vera e propria sorpresa psicologica nelle masse. E il corollario della guerra non è l’utopia, ma il suo negativo, l’anti-utopia appunto.
La giovane incrociò le braccia per ascoltare meglio. I suoni del mondo di fuori sembravano così distanti.
— Questo è molto interessante, ma fatico a credere che lei abbia un’opinione così cinica. Pensavo che il cinema fosse una componente essenziale della sua vita. Se c’è una cosa che ho imparato nello studio della filosofia, è la capacità di intuire chi ha una propria Weltanschauung e chi invece si lascia andare alla deriva.
Feci un gesto vago con la mano. Mi stava provocando, e oramai mi sentivo in cattedra.
— Favole per bambini, — risposi seccamente. — Il cinema è il punto d’arrivo del materialismo scientifico. Il miracolo della tecnica, la dittatura della Ragione. La guerra mondiale ha distrutto il filo doppio che legava Stato e religione, il cinema è un culto sostitutivo imposto alle masse degli Stati industriali.
— Eppure esiste anche il cinema d’arte, gli autori…
— Chimere. Negli anni Venti pretendevano che l’immagine-in-movimento fosse in grado di imporre uno choc alle masse, di stimolare il pensiero nei cervelli. Il cinema doveva spaccare i crani. Poi però la violenza delle immagini è diventata violenza rappresentata, la sua messinscena: sangue e sesso, il cinema commerciale. In questo modo l’utopia è morta.
— Questo è vero soltanto per il cinema di cassetta! Non è sempre stato così, e anche oggi c’è chi fa delle immagini un’arte!
— Non facciamoci illusioni. Se sono stato io a infonderle questa visione romantica, mi spiace sinceramente. Forse lei pensa che il cinema sia una forma d’arte, e che strada facendo abbia subito qualche forma di deviazione commerciale; ma non è così. Si rilegga Virilio, immagino di avere segnalato il testo nella bibliografia del mio corso: il cinema è intimamente legato all’organizzazione del consenso, alla propaganda di Stato, al fascismo. Il Lebensraum nazista non è altro che uno schermo cinematografico con le stesse dimensioni dell’Europa. C’è un sottile trait d’union che collega Hitler a Hollywood, ed è il fascismo dell’immagine-in-movimento.
L’espressione stupefatta della ragazza mi mise in guardia. Avevo esagerato. Il telefono cellulare per fortuna vibrò traendomi d’impaccio. Era Michele Bravo. La segretaria della casa editrice era stata così gentile da dettargli il mio numero.
— Sto arrivando in taxi da Termini, — disse. — So che ha fra le mani la mia scheda sul film di Godard. Penso quindi che le interesserà il materiale che ho trovato durante la vacanza in Campania.
— In Campania? — non riuscii a trattenermi dal domandare. La ragazza aveva ripreso discretamente a leggere il suo Marcuse.
— Una piccola isola non molto distante da Sorrento, per la precisione. La latitudine è quella della mitica Xanadu di Qublai Khan, e guarda caso forse anche della leggendaria Shambhala, almeno secondo coloro che non credono si trovasse in Tibet. Anche Shangri La, e non sarò certo io a insegnarle qualcosa sul film di Frank Capra.
Trattenni il fiato. Tante coincidenze erano difficilmente spiegabili.
— E lei… è stato là? — domandai.
— Non più di sei ore fa ero ancora sull’isola. A questo punto, immagino già sappia che prima di me c’è stato Godard, due volte: la seconda nel 1970 con Marlène Jobert una piccola troupe. Lei non ha idea di cosa stiano facendo su quell’isola, Agathea; vogliono ricreare l’Utopia in Terra. Ma non vorrei anticiparle troppo, altrimenti addio sorpresa.
— La bozza del suo libro che mi hanno consegnato in casa editrice è incompleta, — mi affrettai a aggiungere. L’urgenza nella mia voce stimolò la curiosità discreta della giovane all’altro tavolo.
— Davvero? — rispose Bravo. — In questo momento la redazione è chiusa, ma torni là dopo pranzo. Io la raggiungerò tra breve, cosa ne dice?
Appena terminata la conversazione mi alzai esultante. La ragazza terminò la lettura proprio in quel momento, e posò il libro accanto alla tazza di ceramica bianca.
— È stato un piacere conoscerla, — accennai come saluto.
— Si racconta che Harùn ar-Rashid, l’emiro dei credenti, una notte non riuscisse a dormire, — disse la giovane mentre levava gli occhiali per posarli sulla copertina del libro. — Si aggirava insonne nelle immense sale del palazzo, quando nell’oscurità incontrò la più bella fra le ancelle, quella che mai gli si era concessa.
Mentre parlava, la giovane mi teneva inchiodato con lo sguardo. Non sapevo cosa pensare.
— In preda al desiderio, Harùn ar-Rashid la attirò a sé e le chiese di trascorrere la notte con lui. L’ancella rispose che non era pronta, e domandò che la lasciasse stare fino all’indomani, quando si sarebbe concessa. L’emiro dei credenti rimase desto il resto della notte, e appena l’alba rosa sorse su Baghdad si fece annunciare all’ancella nei suoi appartamenti, ma la risposta della fanciulla fu: “Le parole della notte sono cancellate dal giorno”.
Guardai imbarazzato l’orologio, ma la ragazza continuò in tono didascalico: — Per vincere l’amarezza della sua passione insoddisfatta, Harùn ar-Rashid convocò i tre migliori poeti del califfato e ordinò componimenti in versi che contenessero la citazione esatta dell’ancella, “Le parole della notte sono cancellate dal giorno”. Il primo poeta fu premiato con una moneta d’oro per una breve ode in rima. Il secondo fu premiato con un’altra moneta d’oro per i suoi versi sciolti. Il terzo poeta descrisse perfettamente la situazione: l’incontro notturno nelle sale buie, i vestiti che cadono frusciando, il desiderio e la promessa d’amore, infine la doccia fredda del mattino. Fu condannato a morte con l’accusa di avere spiato l’incontro dell’emiro dei credenti con l’ancella; dovette prostrarsi e confessare che aveva ricostruito l’accaduto unicamente a partire dai versi, e salvò la testa ricordando le parole del corano: “coloro che seguono i poeti sono traviati”.
Mi resi conto che ero rimasto a ascoltare il racconto chino verso di lei, il peso del busto sbilanciato sulle braccia appoggiate alla superficie del tavolo. La ragazza continuò a fissarmi con la sua espressione enigmatica, finché serrai le palpebre per allontanare l’incantesimo, salutai a occhi bassi e uscii. L’aria fredda della strada mi ricondusse alla realtà. Naturalmente non avevo ombrello, per cui risvoltai il bavero della giacca estiva e camminai a passi veloci sotto i cornicioni.
“Coloro che seguono i poeti sono traviati”.
A Trinità dei Monti la prospettiva si allargava sulle vie diritte che si allontanano a raggiera verso il Tevere, le tegole lucide di pioggia; i campanili svettavano nella luce pomeridiana sopra le terrazze, filtrata attraverso la tiepida foschia argentea dell’evaporazione. Sentii musica di pianoforte da una finestra aperta. Era la Pathétique in do minore. Mi fermai a ascoltare in piedi sotto il cornicione, mentre la gente usciva dai caffè perché il cielo tornava azzurro.
Jean-Luc Godard ha usato spesso Beethoven come colonna sonora. Mi venivano in mente Une femme mariée, 2 ou 3 choses que je sais d’elle e soprattutto Prénom Carmen. Tentai di ricapitolare le notizie raccolte intorno a questo Agathea. Nel 1963, durante le riprese del lungometraggio in Technicolor con la Bardot, Godard si reca una prima volta su un’isola nel Tirreno, al largo della costa amalfitana. In qualche momento imprecisato a fine anni Sessanta, Godard torna sull’isola con una troupe ridotta, una protagonista (Marlène Jobert) e scrittura comparse e attori non professionisti, gente del posto: un po’ come gli studenti universitari di Marco Bellocchio nel quasi contemporaneo Discutiamo, discutiamo, l’ultimo episodio del film collettivo Amore e rabbia. Le riprese sull’isola terminano di sicuro prima dell’estate 1971; segue un’interruzione di due anni durante i quali Godard gira Tout va bien, il film con Jane Fonda sulle lotte in fabbrica. Dunque, un interesse cinematografico di Godard per l’argomento utopia è assolutamente plausibile, sia durante gli “Anni Mao” che subito dopo. Nel ’73 forse il regista riprende il materiale, potrebbe esserci un tentativo di montaggio e di edizione, ma dopo così tanti anni anche la produzione non sarebbe più interessata. E le parole di Michele Bravo su quello che succede sull’isola? Vogliono ricreare l’Utopia in Terra. Agathea. Godard ispiratore di un tentativo di comunità ideale? La sola idea mi provocava ilarità.
Arrivai alla sede della casa editrice, gli uffici erano aperti solo da pochi minuti. Entrai scuotendo i capelli, l’acqua mi scese dentro il colletto della camicia. L’impiegata era in piedi davanti alla scrivania, ascoltava il telefono reggendo con la mano il ricevitore all’altezza dell’orecchio. Quando mi vide arrivare mi guardò con un’espressione smarrita, con una disperazione così intensa da farmi intuire che era successo qualcosa di terribile. Senza dire una parola, riagganciò lentamente e portò entrambe le mani alla bocca.
— È accaduta una disgrazia, — sussurrò. — Il signor Bravo…
Sollevai le mani, impotente alla cattiva notizia. — Mi ha dato appuntamento qui, — riuscii a dire, scioccamente.
— Un incidente automobilistico… — tentò di spiegare — Lo hanno investito sulle strisce pedonali — poi impallidì e si lasciò andare a peso morto sulla sedia.
Non riuscivo a credere a quello che succedeva. Avevo parlato con Michele Bravo solo pochi minuti prima. Uscii sconvolto dagli uffici, e credetti di girare senza meta fino a quando mi trovai alla fermata dell’autobus per il Laterano. Salii automaticamente. La città scorreva fuori dai finestrini, parzialmente sconosciuta. Avevo la sensazione assolutamente irrazionale di essere io la causa dell’incidente automobilistico.
Fu facile entrare al Pronto soccorso. Nessuno fece caso al mio deambulare nei corridoi, nessuno mi domandò chi fossi, anzi al triage un infermiere molto gentile mi indicò la rianimazione. Mi ritrovai fuori dalla porta delle Emergenze, accanto a una lettiga vuota. Infermieri entravano e uscivano a passo veloce, alcuni avevano il giubbetto fluorescente dei volontari. Sentivo piangere qualcuno nelle stanze attigue.
“Che ci faccio qui?” mi domandai. Avrei fatto meglio a rientrare, mia moglie sarebbe tornata per cena. Non potevo fare nulla per aiutare Michele Bravo.
Lo sguardo mi cadde sulla lettiga: sotto il materassino della barella c’era un portaoggetti di metallo a rete, che conteneva una borsa di pelle apparentemente gettata in tutta fretta. Vidi chiaramente strisce di sangue sul cuoio chiaro. Presi la borsa e la portai sulla sedia accanto alla mia, aprii con cautela e sbirciai: trovai subito la copia di un biglietto ferroviario elettronico intestato a Michele Bravo. Sentivo battere forte il cuore, stavo commettendo un illecito, quanto meno morale. C’era anche una piccola videocamera digitale nella sua custodia: la prelevai e rimisi la borsa al suo posto nella lettiga.
Uscii dall’ospedale in preda alla leggera euforia del proibito, con il timore di essere scoperto e denunciato. Invece nessuno si accorse di me. Tornai a casa in metropolitana. Mancavano ancora alcune ore al rientro di mia moglie; collegai l’apparecchio digitale al mio computer e scaricai il contenuto per visionarlo. Feci scorrere il file video a velocità accelerata. Sembrava un documentario, una serie di interviste con perfetti sconosciuti che parlavano con forte inflessione napoletana. Mi fermai in un punto a caso: Michele Bravo mostrava una fotografia a un giovane dai capelli corti e rasato male, che indossava una felpa nera e stivali di gomma da pescatore. Bloccai l’immagine per ingrandire sulla foto nella mano dell’intervistatore: era il fotogramma di Marlène Jobert tratto dal film Agathea. Ascoltai la traccia audio: il giovane, che parlava un italiano preciso e senza inflessioni dialettali, poco adatto a un pescatore, affermava di ricordare la visita del regista francese sull’isola. Cominciava a girare molto presto al mattino, intervistava uno per uno gli abitanti dell’isola tenendo la cinepresa in spalla. Bravo gli domandò di datare l’avvenimento, l’uomo si strofinò la barba, tentò di agganciare il ricordo con eventi familiari (una nascita, un matrimonio, un decesso), con qualche difficoltà riuscì a indicare la fine degli anni Sessanta.
Visionai con pazienza il materiale, quasi due ore di riprese. Bravo aveva raccolto una serie di testimonianze sul passaggio di Jean-Luc Godard dall’isola dell’utopia. A quanto pare la maggior parte degli abitanti di Agathea non erano originari del luogo: vi si era trasferita una colonia di insoddisfatti della civiltà, in fuga dalla società dei consumi, che considerava una virtù la mancanza di contatti con il resto del paese. Quasi tutti gli intervistati da Bravo appartenevano a questi eremiti intellettuali; la cosa che mi suonava falsa è che molti di loro affermavano di ricordare il giovane solitario arrivato tutto solo, con una valigia e una cinepresa nel 1963, anche se molti non potevano essere già nati a quel tempo. Pensai che anche Bravo avesse voluto fare il suo film di fiction su Godard e la sua isola dell’Utopia.
Appena dopo la telefonata di mia moglie che annunciava di essere arrivata alla stazione Termini, raggiunsi la fine delle registrazioni. Mi aspettava una terrificante scoperta: l’ultima intervista era quella con un giovane che affermava di essere tra gli ultimi a essersi trasferiti sull’isola da bambino insieme alla famiglia. Il padre negli anni Cinquanta e Sessanta era stato promotore dell’unico cinematografo all’aperto (a quanto pare gli eremiti di Agathea non disdegnavano di recitare come comparse, ma non amavano il Cinema), e si dilettava con una cinepresa 8 mm per filmini amatoriali in famiglia. Naturalmente non aveva resistito alla tentazione di tirarla fuori in occasione dell’arrivo di Godard. L’intervistato possedeva ancora la pellicola di papà, e un piccolo proiettore casalingo che utilizzò per riprodurla contro il muro imbiancato a calce della sala da pranzo affacciata sullo Ionio.
Michele Bravo aveva a sua volta ripreso integralmente il filmino con la videocamera digitale.
Rimasi a osservare nel silenzio pressoché assoluto, perché l’originale non aveva sonoro: era una pellicola in un bianco e nero per uso domestico, ma il cuore mi saltò in gola quando vidi avanzare verso di me Marlène Jobert, e dietro di lei i giovani abitanti dell’isola che gesticolavano teatralmente, come studenti peripatetici della scuola di Atene. Sembrava che nessuno sull’isola di Agathea avesse più di trent’anni: forse consideravano anche l’età un compromesso consumista? Marlène Jobert sorrise al cameraman amatoriale, la ripresa si spostò su Godard che salutò con un cenno del capo. Il filmato indugiò sull’attrice mentre provava una, due, tre volte la medesima scena, in piedi su una roccia di fronte al mare; poi passò in rassegna le comparse sedute in spiaggia, in attesa del loro momento. I giovani sorridevano e salutavano con la mano, declamavano facezie senza sapere che la ripresa non aveva pista audio. Il mio cuore accelerò quando per qualche secondo comparve l’ultima figurante, una giovane di forse venti anni. Bloccai il filmato, tornai indietro e avanzai fotogramma per fotogramma. Non era possibile. Osservai il vestito scuro della ragazza, i suoi capelli lunghi quasi fino in vita. Sentii un brivido alla spina dorsale. Era la ragazza del caffè, la mia ex allieva che aveva raccontato la storia dell’ancella e dell’Emiro dei Credenti.
Mi abbandonai contro lo schienale della sedia, fissando lo schermo del pc bloccato sul primo piano della ragazza. Pensai subito a un trucco, un complotto: impossibile, erano passati quasi quaranta anni dai tempi di quel filmino amatoriale, la giovane avrebbe dovuto essere in possesso dell’elisir di vita eterna. Da chi l’aveva ottenuto, da Harùn ar-Rashid?
La vita eterna. Agathea. L’Utopia in terra.
— Sei sicuro di sentirti bene? — domandò mia moglie posando il trolley da viaggio nel corridoio di ingresso. Non l’avevo neppure sentita entrare.
— Sto benissimo, — risposi sbrigativamente. — Nel congelatore trovi qualcosa da scaldare nel microonde.
Da qualche parte avevo sicuramente il registro dei cedolini degli esami di tre anni prima. Riuscii a trovarlo mentre mia moglie era sotto la doccia. Sfogliai pagina per pagina: non ero sicuro di come si chiamasse la ragazza, ma ebbi fortuna perché quando inserii nel motore di ricerca su internet il primo nome che avrebbe potuto essere il suo, la trovai subito su Facebook, con tanto di ritratto. Anna Geymonat, nata nel 1982; riconobbi i suoi capelli neri e il sorriso graffiante che aveva mostrato poche ore prima al caffè.
La ruota della fortuna era ancora a mio favore, decisamente non era un cognome molto comune. Mi bastò fare una semplice ricerca sul sito delle Pagine bianche: a Roma c’era un solo Geymonat Sergio, abitava a poche fermate di metropolitana da casa mia. Gridai a mia moglie che avevo bisogno di uscire e mi precipitai giù dalle scale senza aspettare la risposta.
Passai il breve tempo del viaggio a inventare una scusa plausibile per presentarmi a casa della ragazza, anche se qualcosa mi diceva che non ne avrei avuto bisogno: avrebbe capito appena mi avesse visto. Scesi alla stazione e uscii all’aria aperta, nel frattempo si era fatta notte. Raggiunsi l’indirizzo e passai in rassegna tutti i nomi sui campanelli di un palazzo signorile protetto da un’alta cancellata di ferro. C’era un solo Geymonat all’ultimo piano. Guardai a naso in su le imposte scure dalle quali filtravano bacchette orizzontali di luce. Premetti il campanello, anche se non sapevo cosa rispondere al citofono.
Qualcuno dall’appartamento aprì il cancello d’ingresso con un breve scatto elettrico. Spinsi l’inferriata e entrai. Nell’androne del palazzo c’era un vecchio ascensore che odorava di carnauba e olio di lino. Senza accendere la luce, salii osservando i piani che scorrevano dall’alto verso il basso. All’ultimo piano c’era una porta socchiusa sopra una linea retta di luce.
Si affacciò un giovane. Mi resi conto di riconoscerlo, mi ci volle un attimo per ricordare che era uno delle comparse di Godard che avevo visto nel film amatoriale. Lo guardai a occhi spalancati, come un idiota: non sembrava invecchiato di un solo giorno rispetto a quelle immagini, che risalivano al 1970.
— Finalmente — disse con un sorriso.
— Anna è in casa? — fui stupito si sentire la mia stessa domanda, e poi mi sentii mancare.
Davanti a me non c’era più il giovane, ma Anna Geymonat. Un attimo prima guardavo lui negli occhi, un attimo dopo mi ritrovai davanti lei: pensai che qualcuno stesse montando il Tempo come una pellicola, e io ero uno degli attori involontari.
Anna tese il braccio verso di me. Mi ritrovai in mano una di quelle buste imbottite che si usano per le spedizioni di oggetti fragili, sigillata con una striscia gommata lungo il lato più corto. Alzai gli occhi: lei era di nuovo scomparsa in un battito l’ali di farfalla. Non c’era nessun altro oltre a me sulla soglia dell’appartamento. Mi voltai con il pacco sotto il braccio, tornai come un sonnambulo in ascensore e poi in strada, nel refrigerio della sera romana.
Mia moglie aveva appena finito di mangiare un piatto scaldato al microonde. Mi osservò come se fossi un marziano, e si appropriò stizzita del televisore quando mi chiusi nello studio.
La busta conteneva un dvd. Respirai profondamente, poi inserii il disco nel lettore del computer e rimasi a guardare ipnotizzato.
Nella prima inquadratura una giovane studentessa del nostro tempo (Anna Geymonat), ripresa nel reparto arti e spettacolo della libreria internazionale di piazza della Repubblica, espone il progetto di fare un film con il recupero di materiale di un lungometraggio inedito di Jean-Luc Godard, Agathea: scopo del lavoro è verificare se cinema e utopia siano davvero inconciliabili.
Il materiale girato in bianco e nero da Godard si apre con una scena riutilizzata più volte dal regista negli anni successivi, per esempio in Numéro Deux e anche in Ici et ailleurs: una famiglia riunita nel salotto buono per guardare la televisione, genitori e due figli di età scolare. Sullo schermo una giovane giornalista, Olympia Sophia (Marlène Jobert), inquadrata su una scogliera in mezzo alla macchia mediterranea, annuncia di essere arrivata su una minuscola isola del Mediterraneo, Agathea, la prima “utopia realizzata”. Segue una lunga scena che rappresenta un’auto-citazione dal film Alphaville, nel quale i condannati confessavano in pubblico il crimine di provare sentimenti prima di essere abbattuti a colpi di mitraglia e precipitare nell’acqua di una piscina durante una coreografia di atlete in costume da bagno. La scena è un unico piano-sequenza: le comparse scritturate sul posto emergono una per volta dall’acqua di una piscina naturale ricavata nella roccia, e si presentano secondo il consueto metodo godardiano del personaggio “intervistato” dalla macchina da presa. Ognuno di loro rappresenta una fase dialettica (étapes, tappe, secondo il titolo originale) della realizzazione dell’Utopia: c’è chi sostiene di essere Platone, ovvero la Repubblica spartana; Harùn ar-Rashid, o il Governo del Compassionevole; Saint-Just, la Costituzione dell’Anno II; il barone von Rotschild, l’utopia consumistica del capitalismo; Alphaville, la Super-scienza futura; e così via. Prima di depositare ai piedi di Olympia Sophia un’arma simbolica (un modellino di ghigliottina, una pistola a tamburo, falce e martello, un libretto rosso), ogni personaggio ci tiene a sottolineare le differenze rispetto all’utopia di Agathea: Rotschild per esempio si dichiara “più ricco degli agathoniani”, Alphaville “più razionale”, Harùn ar-Rashid “più fariseo”, Saint-Just “più radicale”.
Ripresa con una telecamera nascosta; nella libreria internazionale di piazza Repubblica a Roma, un uomo entra nel reparto arti e spettacolo: è il titolare della cattedra di Storia e critica del Cinema alla Statale. Improvvisamente l’immagine si arresta, tutte le persone presenti rimangono congelate come manichini. Anna Geymonat si materializza improvvisamente a fianco del professore, ma nessuno può accorgersi di lei; estrae dalla borsa una monografia di Godard, che riporta in copertina un fotogramma di Anna Karina tratto da Le petit soldat, e la depone tra i libri in vendita. La disinvoltura con cui la macchina da presa si destreggia tra gli avventori immobili ci mostra che non si tratta di un trucco cinematografico tridimensionale. La ragazza scompare e la scena si scongela. Il professore prende in mano la monografia apocrifa su Godard, che fino a un attimo prima non c’era, e la sfoglia con interesse.
Ritorno al bianco e nero del materiale inedito: la madre di famiglia già vista nella prima scena domanda al marito se nel mondo dell’utopia realizzata cambierà qualcosa; a risponderle è direttamente Olympia Sophia dallo schermo: differente sarà la comunicazione. Scomparirà il linguaggio figurato, parole e immagini diverranno intercambiabili. L’utopia sarà la pietra tombale della metafora.
Nella scena seguente un critico cinematografico (Michele Bravo) è al computer. Più che interpretare le immagini girate da Godard, proclama la validità del materiale artistico come macchina per fornire interpretazioni. L’immagine inquadra lo schermo del computer, che mostra il processo di impaginazione grafica della monografia sul regista francese; si tratta dello stesso libro che Anna Geymonat ha lasciato sugli scaffali della libreria: evidentemente un apocrifo prodotto dal medesimo autore della monografia ufficiale.
Bianco e nero: le comparse passeggiano nel cortile di quello che sembra un tempio greco stilizzato, recitando a vuoto come studenti della scuola peripatetica, o forse come una citazione degli uomini-libro del film Fahrenheit 451 di François Truffaut. Improvvisamente la qualità dell’immagine cambia: questo frammento è stato girato con una cinepresa amatoriale da un appassionato cinefilo, uno degli ultimi abitanti a trasferirsi sull’isola. Come nella libreria romana, improvvisamente il Tempo si congela per chiunque non sia uno dei misteriosi abitanti di Agathea. Jean-Luc Godard, Marlène Jobert e la troupe si immobilizzano in una rigida postura che mantengono per pochi minuti, durante i quali gli agathoniani si muovono liberamente. Anna Geymonat, identica a come si presenterà 45 anni dopo nella scena della libreria, tiene un breve monologo, rivolgendosi direttamente alla telecamera: una comunità di anacoreti che secoli fa abbandonarono il mondo, la possibilità di controllare la materia con il pensiero e la conseguente conquista della vita eterna, la sorveglianza discreta del mondo.
La scena successiva è ripresa in un caffè ancora da una telecamera camuffata, all’insaputa del professore di Storia del Cinema; il docente parla di cinema e utopia. L’arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica è intimamente legata alla propaganda di Stato, all’organizzazione del consenso: non utopia quindi, bensì il suo contrario, anti-utopia. La telecamera riprende la reazione incerta dell’accademico quando l’autrice delle riprese, che non viene mai inquadrata (ma dalla voce si riconosce Anna Geymonat), gli racconta un apologo tratto da Le mille e una notte che finisce con le parole “Coloro che seguono i poeti sono traviati”. Le stesse parole rimangono scritte come epilogo su uno sfondo nero.
Rimasi a guardare per diversi minuti lo schermo, poi mi affacciai alla finestra. Era notte. Per quanto ne sapevo, Anna Geymonat o qualsiasi altro agathoniano poteva in quel momento essere lì nel mio studio, nascosto fra i singoli momenti del mio flusso temporale. Anacoreti, una comunità fuori dal Tempo. Il pensiero che sottomette la materia. La vita eterna.
Avevano montato tutta quella complicata messinscena per cooptarmi. Per qualche ragione, volevano che mi unissi a loro, su quell’isoletta dimenticata nel Tirreno. Con Jean-Luc Godard non aveva funzionato, è evidente: aveva preferito continuare a immergersi nel mondo, nella materia, nella morte. Ma io non ero lui.
Continuai a guardare l’orizzonte di Roma fino ai primi raggi dell’aurora, poi presi la mia valigia più piccola e la riempii con poche cose. Acquistai il biglietto del treno su Internet con la carta di credito, forse l’ultimo mio gesto economico consapevole nella società dei consumi, e partii per Agathea.
L’aneddoto raccontato da Anna Geymonat è la fiaba “L’ancella e il califfo Harùn ar-Rashid” tratta da “Le mille e una notte” a cura di Hafez Haidar, Mondadori 2001
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID