In una scena di Matrix (1999), il film degli allora fratelli Larry e Andy Wachowski, oggi diventate sorelle con il nome di Lana e Lilly, il protagonista Neo, interpretato da Keanu Reeves, prende dalla sua biblioteca il libro Simulacra and Simulation (in italiano il saggio è uscito con il titolo Simulacri e simulazione) del filosofo francese Jean Baudrillard. Un omaggio certamente, ma anche un vero e proprio manifesto d’intenti. I registi volevano, infatti, “agganciare” il loro universo narrativo al concetto di simulacro che Baudrillard aveva elaborato, ma in realtà il filosofo francese rigettò al mittente qualsiasi tipo di affiliazione della sua filosofia alla pellicola.
In un’intervista al settimanale “Le Nouvel Observateur”, ad una domanda sul possibile collegamento del film con alcuni concetti della sua filosofia, Baudrillard demolisce Matrix con queste parole:
[…] ci sono già stati altri film che trattavano questa crescente indistinzione fra reale e virtuale. Truman Show, Minority Report o anche Mulholland Drive, il capolavoro di David Lynch. Matrix vale soprattutto come sintesi parossistica di tutto questo. Ma il dispositivo qui è più rozzo e non suscita veramente il turbamento. O i personaggi sono nella Matrice, cioè nella digitalizzazione delle cose, o sono radicalmente al di fuori, cioè a Zion, la città di coloro che resistono. In effetti, sarebbe interessante mostrare ciò che accade nel punto di giuntura dei due mondi. Ma quello che è soprattutto imbarazzante in questo film, è che il nuovo problema posto dalla simulazione qui è confuso con quello, molto classico, dell’illusione, che si trovava già in Platone. Il vero equivoco è qui. Il mondo visto come illusione radicale è un problema che si è posto a tutte le grandi culture e che da esse è stato risolto con l’arte e la simbolizzazione. (Jean Baudrillard, Cyberfilosofia, Mimesis, 2010).
Insomma, Matrix avrebbe frainteso il concetto di simulazione del filosofo francese e nella pellicola i/le Wachowski non avrebbero altro che usato il vecchio concetto di “illusione della realtà”, che risale addirittura a Platone. Nel VII libro della sua opera più nota, La Repubblica, il filosofo ateniese nel discutere di quale sia la migliore forma di organizzazione politica, di chi debba governare (i filosofi) e quale sapere bisogna usare per governar, suddivide la conoscenza in due generi, una che chiama sensibile, e un’altra intellegibile. La prima si acquisisce attraverso i sensi e si rivolge al mondo, alla realtà circostante; la seconda è quella delle idee, cioè gli elementi immutabili e certi del mondo. Il mito della caverna è l’allegoria con cui Platone spiega la conoscenza delle idee. Immaginiamo dei prigionieri che, fin dalla nascita, siano stati incatenati in una caverna, immobilizzati (anche on la testa e il collo) e costretti a tenere lo sguardo fisso su una parete in fondo alla grotta. Alle spalle dei prigionieri, però, viene acceso un grande fuoco e tra il fuoco ed i prigionieri, corra una strada rialzata, lungo la quale viene eretto un muro. Ebbene, se su questo muro si susseguono persone, animali o piante, le cui ombre sarebbero visibili ai prigionieri, quest’ultimi non potrebbero che pensare che quelle ombre siano la realtà, non potendo guardare altrove. La “simulazione”, poi, sarebbe completa se i prigionieri potessero udire anche l’eco delle voci delle persone e degli animali.
Una persona esterna, che entra nella caverna, ha la percezione di tutto quello che accade, ma i prigionieri no, saranno convinti che il mondo delle ombre che vedono proiettate sulla parete della caverna è la loro realtà.
Ecco cos’è Matrix per Baudrillard. Il suo concetto di simulacro è, invece, tutt’altro. Sintetizzando il pensiero del filosofo francese, un simulacro è un’immagine o rappresentazione che non rimanda ad alcuna realtà sottostante, ma pretende di valere per quella stessa realtà. Uno degli esempi più acuti di questo concetto di Baudrillard è la guerra del Golfo del 1991. In quella tragica occasione, tutti noi abbiamo creduto, grazie alla potenza dei mezzi di comunicazione, con la televisione in primo piano, creduto di vedere in diretta la guerra in diretta, in realtà, dice Baudrillard abbiamo assistito solo una massa di notizie e di immagini spettacolari selezionate ad arte al dine di ottenere disinformazione. Non abbiamo visto la guerra “reale”, ma un suo simulacro, per l’appunto, veicolato dalla televisione, una guerra del tutto “immaginaria”. Non un semplice gioco di ombre, come nella caverna platoniana, ma una costruzione della realtà fittizia che però pretende di avere lo stesso valore della realtà.
Il rapporto tra realtà e virtuale, del resto, è un concetto non certo nuovo nella fantascienza, basta pensare a Philip K Dick, che come scrittore si è posto la domanda “cosa è reale?”, finendo spesso al centro di molte sue opere. Prendiamo il romanzo Tempo fuor di sesto (Time Out of Joint, 1959). Il protagonista vive con la famiglia della sorella, in una tranquilla cittadina americana, con le sue villette a schiera tutte eguali. Ogni giorno, Ragle, questo il suo nome, vince al gioco a premi pubblicato dal giornale locale, che gli permette di guadagnare qualche dollaro. Ma Ragle è sempre più infelice della sua vita e cade in una specie di depressione. Alla fine scoprirà che lui, in realtà, è uno stratega militare, l’unico in grado di individuare le traiettorie dei missili lanciati dalla Luna, con cui la Terra è in guerra. Non siamo nel 1959, ma nel futuro, e quando Ragle ha cominciato a non essere più in grado di svolgere il suo compito, i suoi superiori hanno costruito la cittadina del 1959, che rappresentava l’infanzia felice di Ragle, popolandola di attori e permettendo così all’uomo di continuare il suo prezioso lavoro attraverso il giochino del giornale, la cui soluzione è per l’appunto l’individuazione delle coordinate in cui cadranno i missili lanciati dagli abitanti della Luna.
Forse, questo romanzo dello scrittore americano, è più vicino al concetto di simulacro di Baudrillard e non è un caso che il filosofo francese citi, come pellicola migliore di Matrix, The Truman show, film del 1998 di Peter Weir, su soggetto di Andrew Niccol, che ha molti punti in comune proprio con il romanzo di Dick.
I concetti di simulacro, simulazione, realtà virtuale sono tornati di moda grazie a Mark Zuckerberg, il guru di Facebook, che ha annunciato di star sviluppando proprio quell’universo simulato, quella realtà virtuale, che la fantascienza aveva solo immaginato, grazie anche a Dick, alle opere dei cyberpunk, a Snow Crash (1992), il romanzo di Neal Stephenson in cui viene per la prima volta usata la parola Metaverso, senza dimenticare il Ready Player One (2011) di Ernest Cline.
Secondo Zuckerberg il tempo è maturo per costruire quel mondo simulato in cui tutti noi, un domani, potremo vivere parte del nostro tempo. Si potrà avere un proprio avatar, interagire con gli altri e con lo spazio circostante, partecipare ad eventi, fare shopping, fare riunioni di lavoro, vivere insomma in un altro altrove.
Insomma, il guru di Facebook sembra che voglia rendere concreti gli incubi di Dick e Baudrillard, ma solo il futuro potrà dircelo.
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