Chiedermi quando è nato il mio rapporto con la fantascienza è un po’ come chiedermi quando è iniziato quello con i miei genitori. È qualcosa che mi accompagna da talmente tanto che ormai fa parte della mia identità. Penso comunque di essere in grado di ricostruirne il momento iniziale.
Prima di tutto, però, una premessa.
Immaginate un bambino che, a causa del lavoro del papà, cambia città più o meno ogni due anni. Questo ha, per usare un eufemismo, fortemente limitato la sua possibilità di farsi degli amici, tanto più che è patologicamente timido e poco portato a socializzare con gli sconosciuti.
Non è quindi strano se questo bambino senza amici, piuttosto che giocare a pallone (con chi, poi? Palleggiare contro il muro dopo un po’ annoia…), preferisca starsene a casa a leggere e fantasticare.
Ecco, se vi siete fatti il quadro, quello ero io. In casa di libri ne avevamo parecchi perché papà leggeva molto e anche per questo motivo i libri divennero presto una parte importante della mia vita.
Come dicevo, credo di ricordare il mio primo libro di fantascienza: papà me lo comprò per farmi stare tranquillo durante un viaggio in treno ed era intitolato Asimov Story. Era la raccolta dei primi racconti di Isaac Asimov, presentati e introdotti con la sua consueta verve da lui stesso.
Quel libro fu per me una bomba! Descriveva un giovane un po’ eccentrico, amante della lettura e dello studio, che riusciva a fare una vita interessante e piena di stimoli, addirittura a guadagnare dei soldi!, scrivendo fantascienza. Leggendolo devo essermi convinto che essere uno scrittore di fantascienza poteva essere una cosa fantastica.
Di lì passai a Lucky Starr e poi un’amica di mamma mi regalò “dato che sei un bambino curioso e magari ti possono piacere”, Il pianeta degli dei di Andre Norton e Immortali tra le stelle di Jean e Jeff Sutton. A quel punto ovviamente era fatta, ero stato conquistato.
Tenete conto che in quegli anni leggevo anche tantissimi fumetti. Topolino aveva iniziato a leggermelo mamma quando non sapevo ancora farlo da solo e poi io continuai. Ci aggiunsi Tex e Zagor, più tardi Mister No e Martin Mystere e soprattutto Thor, i Fantastici 4, l’Uomo Ragno, Doctor Strange, Capitan America… il mio preferito era Thor per come mescolava mitologia norrena e superscienza.
Sempre in quegli anni un’altra amica di mamma mi regalò La Spada di Shannara di Terry Brooks e da lì arrivai al Signore degli Anelli che fu un’altra presenza importantissima nella mia vita da ragazzino, ma questa è un’altra storia.
Potete immaginare facilmente che cosa rappresentasse la fantascienza per quel bambino, poi ragazzino, solitario e senza amici, che passava le sue giornate a casa a leggere: una maniera per vivere una vita fantastica e piena di emozioni, pianeti esotici, eroi spaziali, viaggi a bordo di straordinarie astronavi. Il modo perfetto per sfogare un’immaginazione perennemente sovraeccitata.
Sia chiaro, non voglio che pensiate che ho avuto un’infanzia infelice, alla Dickens. Ricordo con piacere quegli anni, ma sono consapevole che le cose che rendevano felice me (leggere un fumetto o un libro, per esempio) non erano le stesse a cui si dedicava la maggior parte dei miei coetanei.
Penso non ci sia lettore di fantascienza cui, presto o tardi, non venga il desiderio di scriverla. “Che bello questo racconto! Potrei riuscire anch’io a scrivere qualcosa del genere? Ci provo!” E a quel punto è finita, si cade nel gorgo e non se ne esce più.
Così è successo anche a me. E poi scrivere è un lavoro che si fa bene da soli, cosa che per me era un altro bell’incentivo. Ho scritto il mio primo racconto mentre frequentavo, se non sbaglio, le medie, stimolato dalla lettura della Grande Enciclopedia della Fantascienza edita dalla Editoriale del Drago. Ricordo anche una successiva storia, molto ingenua, di un investigatore (sul modello, pensate un po’, di Lucky Starr) che risolveva un mistero su una base lunare.
Crescendo scoprii che mi piacevano moltissimo anche Buzzati, Kafka, Borges per cui con il passare degli anni mi prefissi di scrivere racconti simili ai loro… obiettivo ambizioso che non ho mai neanche sfiorato, naturalmente.
L’Università era impegnativa, mi piaceva leggere cose di vario genere e un po’ di infelici letture sf raffreddarono la mia passione per il genere per cui per qualche anno mi ci dedicai meno. Sono stati due cicli a farmi di nuovo innamorare: i Vor e Hyperion. Sin da subito amai alla follia i personaggi coinvolgenti di Lois Bujold e trovai Dan Simmons la summa di come si dovrebbe scrivere fantascienza. Leggerli mi ha fatto ritrovare l’entusiasmo e mi ha instillato il sospetto che la fantascienza non fosse soltanto (e non è poco, comunque) divertimento ed evasione.
Oggi sono convinto che la fantascienza possa essere (anche) uno strumento acuminato, un bisturi affilato che penetra la realtà e ne lascia allo scoperto le parti nascoste. Un mezzo magnifico per interpretare il nostro mondo.
E ho scoperto di amare libri che avevo letto quando non ero ancora pronto, e che mi avevano fatto un po’ disamorare, penso per esempio a quelli di Ursula Le Guin o a Octavia Butler, che ora adoro.
Finita l’Università, ritrovata la passione, mi sentivo in grado di affrontare un ambizioso progetto: scrivere un romanzo di fantascienza. Iniziai qualche giorno prima di partire per il servizio di leva, e l’incipit spiega esattamente come mi sentivo: «Mentre sono qui, in una cella biologica, una specie di aberrante, mostruoso stomaco, prigioniero, e aspetto di morire».
Si intitolava Q (come il romanzo storico di Luther Blisset/Wu Ming, ma il mio è venuto molto prima!) e ci misi una vita a scriverlo, anche con l’aiuto di un amico. Una volta finito naturalmente mi chiesi che farne. Cominciai a spedirlo qua e là, a case editrici di ogni genere, convinto che avrebbero esultato per il nuovo genio della letteratura che si era rivelato. Non andò proprio così.
Però mi ero divertito davvero tanto e decisi di continuare. Negli anni seguenti produssi una serie di romanzi che non hanno mai visto la luce e (spero) mai la vedranno, a volte di fantascienza a volte ibridi sf/fantasy: L’ultimo stregone di Kolodia, Fitz e il demone supremo, Il dio della notte, Cinque giorni a Londra, Nella terra del tuono.
Tranne l’ultimo, destinato a esser letto soltanto dalla ragazza a cui l’avevo dedicato, li inviai in lettura a varie case editrici, sempre con risultati sconfortanti. Naturalmente era colpa mia: sapevo poco della fantascienza italiana attuale, non conoscevo le case editrici che se ne occupavano, non sapevo come presentarli e finivo per fare invii alla cieca. E comunque probabilmente non erano granché, a dirla tutta…
Non nego però che mi ritrovai un po’ demoralizzato. Scrivere mi piaceva, sì, ma aveva senso dedicare tanto tempo della mia vita a farlo se poi mi leggevano soltanto pochi generosi amici? Mentre rimuginavo su questa cosa venne pubblicato il bando del Premio Odissea della Delos per il miglior romanzo di genere inedito, ma mi ero convinto che fosse inutile partecipare: ciò che scrivevo non interessava, probabilmente non sapevo neanche farlo bene, mi dicevo. Un’amica (la stessa del romanzo dedicato) mi convinse a provarci ancora una volta.
Scrissi De Bello Alieno con l’idea che potesse essere la mia ultima cartuccia, che se anche questa volta fosse andata male mi sarei rassegnato e avrei smesso di intasare la posta degli editori con le mie spedizioni. Mi dissi però che per attirare l’attenzione dovevo fare qualcosa di diverso dagli altri e allora inventai un romanzo di fantascienza ambientato in una Roma di Cesare alternativa e steampunk (la storia romana è un’altra delle mie passioni) scritto in forma epistolare (non solamente epistolare, peraltro, ci sono anche manifesti, articoli di giornale, pagine di diario e altro).
Spesso si parla male dei concorsi letterari. Io ovviamente posso giudicare solo quelli di fantascienza cui ho partecipato, gli altri non li conosco. Sento dire per esempio che per vincerli occorre essere “introdotti” nell’ambiente. Quando ho mandato il mio libro all’Odissea non conoscevo nessuno nel mondo della fantascienza e nessuno mi conosceva. Ero non solo ignoto ma del tutto ignorante: lessi su Internet che tra i giurati c’erano Franco Forte e Silvio Sosio, Forte lo conoscevo perché avevo letto qualche suo romanzo storico ma non sapevo si interessasse anche di fantascienza, e Sosio proprio non l’avevo mai sentito nominare, cercai su Google chi fosse e che c’entrasse con la fantascienza (!!).
Eppure De Bello Alieno arrivò in finale. E poi, dopo un ventennio o più di attesa frustrante (in realtà furono pochi mesi ma mi sembrarono lunghissimi), il 22 aprile 2013 alle 14;28 mi arrivò una mail proprio da quel tale Sosio.
Ovviamente l’ho conservata come una reliquia ma l’inizio lo ricordo ancora benissimo: “Salve Davide, ti scrivo per darti una buona notizia: il tuo romanzo De Bello alieno ha vinto il Premio Odissea”. Feci un salto tale sulla sedia che per poco non bucai il soffitto.
Come mi sono sentito? Era la realizzazione di un sogno. Un’amica di vecchia data mi ha ricordato che quando ci siamo conosciuti, anni e anni fa, una delle prime cose che le avevo detto era che a tempo perso scrivevo romanzi di fantascienza e che un giorno o l’altro mi sarebbe piaciuto vederne uno pubblicato. E adesso c’ero riuscito!
Gli amici mi guardavano stupiti e anche un po’ sollevati, speranzosi che da quel momento avrei cessato di propinare loro i miei scritti. Ormai avevo realizzato il mio sogno, avevo pubblicato un romanzo di fantascienza!
Potremmo intitolare questa parte “come e perché sono diventato uno scrittore di fantascienza”. È una specie di storia di formazione, con un happy end stile Hollywood, no? Certo, con De bello alieno non sono diventato né ricco né famoso ma ho realizzato un sogno, quindi a questo punto potrebbero partire i titoli di coda.
A differenza dei film, però, la vita continua anche dopo che hai realizzato un sogno. E, dato che ovviamente dopo aver pubblicato il primo libro la voglia di scrivere non è diminuita, anzi, ne sono venuti altri.
Scrivere è per me un tormento e un piacere. Mi fa sentire benissimo e malissimo, contemporaneamente. È un po’ una dipendenza, però è meno costosa e dannosa della cocaina. È anche una terapia, molto meno impegnativa e (di nuovo) meno costosa di uno psicanalista. Quando per un po’ di tempo non scrivo divento triste e insofferente, farlo è un bisogno, per me. Capita che le idee bussino alla mia porta e insistono e insistono e sono costretto ad aprire altrimenti non mi lasciano stare.
Uno delle belle cose che succedono quando uno scrive fantascienza (ma anche quando la legge) è la possibilità di frequentare altri che hanno la stessa passione. Come avrete forse capito non mi piace stare in mezzo alla gente: mi sento a disagio nei luoghi in cui ci sono tante persone, a parlare con persone che non conosco, a fare chiacchiere banali senza significato. Sì, non sono affatto socievole. Con queste premesse pensavo che andare alle convention sf sarebbe stata una tortura, invece non è stato così. Lì ho scoperto un tesoro di persone piene di cultura, talento, immaginazione. La fantascienza italiana ne è piena ed è un peccato che non lo si sappia. Con alcune è nata una bella amicizia, ci si sente e quando possibile ci si frequenta anche fuori dagli eventi istituzionali e sappiate che non è vero quello che si dice, che le vere amicizie nascono soltanto quando si è giovani.
Un’altra cosa che succede quando si decide di continuare a scrivere è la sensazione di non essere all’altezza (il complesso dell’impostore elevato all’ennesima potenza). Io ho sempre letto e continuo a leggere molto ma la vita mi ha portato a seguire studi e a un lavoro che non hanno nulla a che fare con la mia attività di imbrattacarte. Non ho una preparazione teorica sulla scrittura e avverto questa carenza. A un certo punto quindi ho sentito il bisogno, per migliorare le mie scarse capacità, di un rapporto con qualcuno che ne sapesse più di me. Con un editor, in parole povere. Per i miei due ultimi romanzi ho quindi avuto la fortuna di lavorare con due persone stupende, dal punto di vista umano e professionale: Giulia Abbate che è stato il mio editor per Ubermensch e Anna Pullia che ha svolto lo stesso ruolo per Il Pugno dell’Uomo. Da loro ho imparato tantissimo, e quello che non ho imparato è ovviamente perché sono io ad avere la testa dura non perché loro non abbiano cercato di insegnarmelo!
Quando Carmine Treanni mi ha chiesto di scrivere questo articolo mi ha raccomandato di inserire anche qualche consiglio per chi volesse mettersi a scrivere fantascienza. Io non so se sono in grado di dare consigli (non sono Neil Gaiman, su questo credo siamo tutti d’accordo!) e poi credo che, se siete arrivati fin qui, avrete capito quale è stata la mia strada: ho sempre letto tantissimo, ovviamente fantascienza, non si può scriverne senza averne letta a ritmo continuo, e anche non fantascienza. Ho cercato di leggere libri scritti bene, di ogni genere, per rubare i loro segreti, e ho letto saggistica, per capire come va il mondo. E poi ho scritto, ho scritto tanto e di continuo. Chi decide di farlo si troverà a passare le domeniche davanti al computer e gli verrà in mente che gli amici sono a divertirsi, al mare, in montagna o chissà dove, mentre lui si sta dannando per dare personalità a un personaggio o per rendere realistico un dialogo. Se nonostante questi pensieri non lascia perdere e non telefona agli amici per organizzare un’uscita insieme direi che è già sulla buona strada.
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