Dopo il grande successo di pubblico e critica per Lo chiamavano Jeeg Robot (2015), Gabriele Mainetti torna sul Grande Schermo con un’altra opera originale e fuori dai “canoni” del cinema italiano. Il titolo della sua seconda opera è Freaks Out, la cui sceneggiatura è firmata dallo stesso Mainetti e da Nicola Guaglione, da un soggetto originale di quest’ultimo. Il film ha come protagonisti Claudio Santamaria, Aurora Giovinazzo, Pietro Castellitto, Giancarlo Martini, Giorgio Tirabassi, Max Mazzotta, Franz Rogowski, Eric Godon.
Il film è ambientato a Roma, nel 1943: Matilde, Cencio, Fulvio e Mario vivono come fratelli nel circo di Israel. Quando Israel scompare misteriosamente, i quattro "fenomeni da baraccone" restano soli nella città occupata dai nazisti. Qualcuno però ha messo gli occhi su di loro, con un piano che potrebbe cambiare i loro destini… e il corso della Storia.
Gabriele Mainetti ci racconta in quest’intervista come è nato il film e cosa ha significato per lui immergersi in una storia fantastica e originale, così come lo era il suo precedente film.
Come è nata l’idea alla base di Freaks Out?
Dopo Lo chiamavano Jeeg Robot, con Nicola Guaglianone, ci siamo domandati «e adesso che facciamo, di altrettanto “fico”?». Un sequel era fuori discussione, e così abbiamo iniziato a buttare giù alcune idee, guidati da un’unica, grande domanda: «Tu cosa vorresti fare?». Perché un film deve nascere prima di tutto dalla passione, non da un calcolo.
Perché avete ambiento la pellicola durante la Seconda Guerra Mondiale?
Freaks Out nasce da una sfida: ambientare sullo sfondo della pagina più cupa del Novecento un film che fosse insieme un racconto d’avventura, un romanzo di formazione e – non ultima – una riflessione sulla diversità. Per farlo ci siamo avvicinati alla Roma occupata del 1943 con emozione e rispetto, ma allo stesso tempo abbiamo dato libero sfogo alla fantasia: sono nati così i nostri quattro freak, individui unici e irripetibili, protagonisti di una Storia più grande di loro.
In Lo chiamavano Jeeg Robot si alludeva a un supereroe di quelli robotici, qui invece si parla di “mostri”, di essere diversi nell’aspetto ma non certo nello spirito. Come è nata questa scelta?
Il primo a pensare ai freak è stato Guaglianone, grande appassionato della materia, che tra l’altro si era appena cimentato nel tema scrivendo Indivisibili. All’inizio non capivo: soprattutto, da grande fan di Freaks di Tod Browning, ricordavo quanto quel film – seppure di una bellezza unica – fosse costato al suo autore, bannato da Hollywood per aver mostrato la “diversità”. Sulle prime, insomma, avevo più di un dubbio. Non avevo ancora messo a fuoco la visione più “pop” che si poteva dare del mondo dei freak, e come empatizzare con quei personaggi così “diversi”, portando lo spettatore a voler stare accanto a loro.
Nel frattempo, anch’io coltivavo una mia personale ossessione, quella per la prima guerra mondiale. A un certo punto, sul tavolo, c’erano 7 storie, anche molto diverse tra loro (una era il romanzo di formazione di una bambina che doveva trovare sé stessa). Come era già successo per Jeeg, li “condensavamo” man mano, finché un giorno con Nicola mi ha detto «ce l’ho: i freak li facciamo con i poteri, nella Seconda guerra mondiale». È lì che ho visto per la prima volta i film, e da lì abbiamo iniziato a immaginare i nostri “eroi”.
Anche in Freaks Out uno dei pilastri della storia sono i superpoteri che hanno i protagonisti. Ti affascina il mondo dei supereroi?
Spesso – dopo Jeeg – sono stato raccontato come la via italiana ai “cine-comic”. Il punto, al di là del riconoscersi o meno in una definizione, è che credo che il cine-comic sia, più che un vero e proprio genere, una formula giornalistica che corre il rischio di dare lo stesso nome a opere diversissime, dai film Marvel al primo X-Men di Brian Singer a un grande western moderno come Logan. E non è certo il “potere speciale” di un personaggio a fare un cine-comic, altrimenti sarebbero cine-comic – che so io – Ghost, o Il sesto senso, o Il profeta di Jacques Audiard. Quanto alla mia formazione, io di fumetti ne ho sempre letti pochi, al massimo qualche Dylan Dog (e soprattutto perché c’era dentro un po’ di sesso): sono stato un figlio del mio tempo, per me erano più importanti i cartoni animati (come appunto Jeeg Robot). Poi, da adulto, mi sono avvicinato al mondo dei manga, dove la divisione tra buoni e cattivi non è manichea, basta pensare a Devilman. Insomma, tra Devilman e Spiderman, chi mai sceglierebbe Spiderman?
Ma chi sono i Freaks del tuo film?
L’idea dei poteri un po’ mi spaventava: non volevo replicare Jeeg, e soprattutto mi interessava che la forza dei protagonisti nascesse – più che dai singoli poteri – dall’unione di 4 persone speciali. Mi sono sforzato di rendere originali e “cinematografiche” queste loro abilità, ovviamente a modo mio, ma senza mai dimenticare – e anzi esaltando – l’umanità dei personaggi: in questo il modello è stato, oltre a Browning, un capolavoro come La donna scimmia di Marco Ferreri. Abbiamo sempre pensato ai nostri protagonisti come gente vera, cercando di guardarli senza pietismo perché sono loro stessi i primi a rifiutare ogni (auto)commiserazione, a non viversi come “mostri” ma come persone.
Un ruolo centrale è quello del cattivo Franz, interpretato da Franz Rogowski. Come è nato questo personaggio?
Cercare di comprendere, senza giudicare. Anche i cattivi. Credo che la riuscita di un film come questo (o come Jeeg) si misuri anche nella capacità di rendere tridimensionali gli antagonisti. Franz, il cattivo di Freaks Out, incarna ovviamente una delle pagine più buie della storia, ma è anche un perdente totale, il risultato di una frustrazione famigliare e sociale, a cui Franz Rogowski ha regalato a tratti una tenerezza “inspiegabile”. I cattivi che mi spaventano di più, nella storia del cinema, sono quelli che nascondono una debolezza, una sofferenza: il Buffalo Bill di Il silenzio degli innocenti, ma anche il Darth Vader dei primi Star Wars. Per questo ci siamo avvicinati a Franz cercando nel suo vissuto personale le ragioni che possono averlo spinto ad abbracciare il Male. Credo che l’attenzione per le “sfaccettature” dei personaggi, anche le più inaspettate e imprevedibili, si ricolleghi in qualche modo alla tradizione del nostro cinema, che certo non ha il culto dell’eroe “senza macchia e senza paura”: basta guardare alla commedia all’italiana, popolata di figure irresistibili seppure meschine, bieche, persino mostruose.
Tra i Freaks c’è Matilde, che possiamo considerare un po’ la ver protagonista. Quanto è importante l’universo femminile nel tuo cinema?
Soffrivo molto quando, all’uscita di Jeeg, alcuni che magari non l’avevano ancora visto pensavano fosse un film “maschile”. Al contrario, io l’ho sempre visto come un film profondamente femminile, che ha nell’Alessia di Ilenia Pastorelli il vero motore, una sorta di “mentore” toccata dalla grazia di saper credere in un supereroe (e non certo dei più tradizionali). Allo stesso modo, il femminile è centrale anche in Freaks Out, dove in fondo gli uomini sono tutti – chi più chi meno – un po’ “piagnoni”, ed è Matilde (interpretata da una ragazza che per me è un’autentica rivelazione, Aurora Giovinazzo) a scoprirsi la vera guida del gruppo. Abbiamo raccontato l’ingresso nella vita adulta di una ragazzina ancora pura: non ci interessava inseguire un femminile “falso”, alla Wonder Woman, con le donne che menano come fabbri. Volevamo invece accompagnare una bambina alla scoperta della forza che possiede dentro di sé. Che poi è la forza delle donne, che non ritrovo in me stesso e negli uomini che mi circondano. Ma che ho sempre visto, da quando sono piccolo, nelle donne della mia famiglia, e adesso vedo nella mia compagna.
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