Dedicato a Frederik Pohl, autore di
The Sweet, Sad Queen of the Grazing Isles, 1984.
Per volare non servono ali
Disegna un cerchio, fai un balzo e poi sali
Flettendo la schiena a gravità zero
Come nessuno prima, sentiti fiero
Sfiora il cielo con occhi raggianti
Sotto sguardi stupiti di stolti e arroganti”
Negli hangar dello stato del New Mexico, i piloti si fermavano spesso a guardare gli aerei che morivano. Gli aerei venivano demoliti per recuperare l’alluminio e altri metalli nobili. Montate a coppie, le benne aprivano e chiudevano le mandibole meccaniche, tranciando fusoliere che avevano trascorso migliaia di ore nei cieli di tutto il mondo. Quel pomeriggio del 1964, alcuni ragazzini si reggevano il mento, tenendo i gomiti sul manubrio delle bici. I bulldozer calpestavano la sabbia, disegnando con le ruote cerchi enormi. Diviso l’aereo in tronconi e privato delle ali, il lavoro proseguiva con altre bocche di ferro più piccole che smembravano e masticavano, chi il muso e la cabina, chi la coda. Era uno spettacolo di distruzione artistica. Ammaliava, lasciando dentro gli spettatori il senso della demolizione cui la vita inevitabilmente sottopone.
Due uomini, incappucciati nonostante l’afa, stavano seduti sulla tribuna di legno, dalla parte opposta del recinto dove si trovavano i ragazzi.
– Mio figlio è laggiù e non sa nemmeno chi sono… – disse il primo con amarezza.
– Lakin, sai che non puoi portarlo con te, è la legge.
– Una legge ingiusta, che dovrebbe essere aggirata.
– Cosa intendi? Sei stato troppo nello spazio per dire una cosa del genere.
– Resterai dalla mia parte?
– Lakin, ti devo la vita e sono tuo amico… – il secondo uomo sospirò e poi aggiunse: – Come posso aiutarti?
– Ho bisogno di tempo. Tienili occupati.
– Cosa farai?
– Parlerò al ragazzo, poi partirò con te.
Dalla strada uno dei ragazzi si era voltato verso la tribuna. Si era attardato, restando qualche metro indietro rispetto ai compagni. Cercava dietro lo steccato gli uomini incappucciati che aveva intravisto, ma erano spariti. Aveva sentito l’urlo del gasolio che veniva aspirato dalle ali cisterna prima di essere demolite. Il ragazzo aveva fatto una strana smorfia di stupore, poi si era allontanato perché aveva molto da pedalare. Il suo viso restò a lungo nella mente del padre che, non visto, lo stava osservando dall’interno di una baracca di legno. Appesa alla parete c’era una mano di Buddha dorata. Lakin aveva alzato lo sguardo e dalla finestra senza vetri si era aperto un paesaggio di rocce e di cespugli. In lontananza le pareti di un canyon sbucavano tra le colline e il Cerro Pedernal, la montagna blu. Georgia O'Keeffe, la famosa artista, si era trasferita da poco in New Mexico e guardando ammirata la montagna aveva detto che Dio gliel’avrebbe regalata se l’avesse dipinta abbastanza spesso. Lakin pensava che il destino gli avrebbe regalato qualche giorno in più con suo figlio, prima di lasciare per sempre la Terra. Sussurrò il suo nome – Benjamin. – ricordando che vuol dire dono di Dio. Fu un attimo prima che il ragazzo sparisse dietro una nuvola di polvere, alzata dalle ruote della sua bicicletta.
* * *
La fattoria del nonno lambiva il deserto.
Quando Lakin arrivò, Benjamin stava aiutando sua madre a riparare il recinto. Era un puntino che si avvicinava dall’orizzonte e né Ben, né sua madre se ne accorsero subito. La madre era bella anche quando indossava il cappello da cowboy stetson di una misura più grande che portava. Nascondeva tutta la malinconia che l'assaliva durante le lunghe notti di solitudine e cercava di cavarsela con la fattoria.
– Guarda Ben, ho sistemato il recinto meglio di un uomo! – aveva strizzato anche l’occhio, tenendo le mani sui fianchi in una posa buffa che faceva quando voleva darsi delle arie. Aveva dato un colpetto con lo stivale per un collaudo dello steccato. Le assi che aveva sostituito, dopo qualche oscillazione, stavano franando in un putiferio di legno e improperi. La madre di Ben non aveva mai voluto sentir parlare di un altro, lei sarebbe rimasta per sempre la donna di Lakin. Le parole delle persone che le volevano bene non servivano a niente, lei continuava a ripetere che Lakin non l’aveva abbandonata e che non voleva un ubriacone di città nel suo ranch. A certe latitudini, il tempo scorreva in modo diverso e alcuni dovevano farsi bastare i mesi per essere felici, mentre altri potevano stare insieme più di cinquant'anni.
Ben lo aveva visto arrivare con la coda dell’occhio, ma era stato il secondo. Sua madre aveva già scavalcato quel che rimaneva della staccionata per correre ad abbracciarlo; era Lakin, era tornato, il padre che non aveva mai conosciuto, in tutti i quattordici anni da quando era venuto al mondo.
Ben si sentiva amareggiato per il buco che la sua assenza gli aveva scavato dentro, ma anche sorpreso dalla gioia di sua madre. Il cappello da cowboy era volato via e tutto in sua madre lasciava intuire la forza di un amore difficile, che Ben poteva comprendere solo in parte. Ben non riusciva a smettere di guardare uno sconosciuto che baciava sua madre. Intorno ai due stava il terreno più arido del New Mexico, la strada di terra battuta lambiva il letto di un fiume prosciugato da milioni di anni. Ben aveva intravisto sullo sfondo alcuni tronchi. Sembravano appena abbattuti, ma non avevano più nulla a che fare con le foreste. Sapeva che erano di pietra. Così Benjamin sentiva il suo cuore, come la pietra di due alberi morti, indurito dagli anni in cui aveva cercato suo padre nelle ombre e non lo aveva mai trovato. Vederlo comparire di punto in bianco sapeva più di un pugno nello stomaco che della torta della festa. Provava anche una sorta di confusa amarezza nei confronti di sua madre che gli era corsa incontro senza uno straccio di spiegazione. Ben sospirò, era il giorno del suo quattordicesimo compleanno quello, se suo padre era venuto non poteva essere anche per questo? Allora, quasi per cercare l’ultima traccia di vita tra le rocce, aveva portato lo sguardo sul cactus che spiccava nel letto prosciugato del fiume. Il saguaro era alto sei, forse sette metri. Una piccola lince, con le zampe insensibili alle spine, si stava arrampicando fino in cima. Ben aveva iniziato a pensare alla sua gara, era arrivato in finale di salto in alto, forse suo padre voleva vederlo vincere. Si sentiva come quella lince, su un cactus nel deserto con la voglia matta di toccare il cielo.
Lakin si era avvicinato tenendo per mano sua madre. Ben aveva riconosciuto i suoi stessi occhi sotto il cappuccio dell’uomo, erano chiari, quasi bianchi. Il padre gli porse una piccola busta da lettere con dentro venti dollari e un biglietto.
Ben aveva iniziato a leggere:
“Per volare non servono ali
Disegna un cerchio, fai un balzo e poi sali…”
Ma esplose:
– La filastrocca per un bambino e un pugno di dollari e siamo pari?
Gettò i soldi nella polvere. Scappando via tenne il foglio di carta scritto a mano da suo padre. Non ebbe il coraggio di voltarsi indietro.
* * *
Benjamin si era girato e rigirato nel letto per buona parte della notte e poi aveva deciso di alzarsi. Una volta in piedi aveva notato l’orma del suo corpo, incavata ancora nel letto sfatto. Si era diretto in bagno, dove aveva messo la testa nel lavandino e aperto l’acqua gelata. Aveva lasciato che quella lo schiaffeggiasse sulle guance e dietro la nuca. Sgocciolante, si era raddrizzato e, sentendo l’aria pervasa dell’aroma di caffè, ne aveva seguito l’odore fino in cucina.
Suo padre era lì da solo.
Ben provò a spiazzarlo, cercando di ferirlo:
– Sei arrivato qui con una Cadillac Eldorado a farmi fare una corsa in macchina? Vieni a farmi vedere le sue belle pinne sul portabagagli e poi sparirai di nuovo?
Sul calendario un cerchietto rosso evidenziava il 30 giugno 1964, era la data della finale di Stato di salto in alto. La fila di “X” segnate a matita si interrompeva venti giorni prima.
– Sono qui per la capriola sul ponte – rispose Lakin.
Ben da qualche settimana si arrampicava sul vecchio ponte ferroviario a strapiombo sul canyon e, per provare il suo coraggio, faceva capriole sulle travi del ponte mentre sotto passava il treno. Una volta per poco non c’era rimasto, quando il fischio improvviso del treno lo aveva sorpreso, spaventandolo a morte. Si era trovato disteso, con una gamba che dondolava nel vuoto. Quella volta aveva urlato e pianto così forte che, guardando ora il padre, stava pensando che il suo grido doveva averlo raggiunto in qualche modo. Nessuno sapeva di questo gioco pericoloso, per metà era una sfida e per metà era attratto dall'altezza, gli piaceva arrampicarsi e saltare. Non era particolarmente forte, né i suoi muscoli erano nulla di speciale, però si era meritato la finale di Stato delle scuole intermedie. Nell’ultimo salto Karl, il suo avversario, benché più alto e più forte di lui, aveva fatto un errore ed era stato eliminato. Nella logica dei ragazzi della scuola la sua vittoria si era trasformata in una ingiustizia. Lo sport era l’unico modo per evadere da una città affondata nel deserto. I compagni non avevano apprezzato la sua vittoria. Mancavano venti giorni alle finali di Stato di atletica, organizzate proprio nella sua scuola e volevano che fosse Karl a rappresentarli. Ogni suo allenamento era un continuo supplizio. L’allenatore gli aveva chiesto di far finta di sbattere un ginocchio e lasciare che Karl prendesse il suo posto. Così Ben aveva preso ad allenarsi all'alba, prima delle lezioni, ma rimanendo sempre sotto il record del suo rivale. Le capriole sul ponte erano un segreto, un esercizio per poter sopportare tutto questo.
– Ricordi cosa ti disse tua madre quando avevi quattro anni?
Le guance di Ben s'infiammarono, come faceva Lakin a saperlo; era il suo primo ricordo, il più netto e tangibile. Con la mente ripercorse quel momento. Lei si era avvicinata e, poggiando le labbra a un orecchio gli aveva dato un bacio, poi aveva sussurrato:
– Vuoi conoscere un segreto grande grande?
– Certo.
– Mi prometti di non dirlo a nessuno?
– Nemmeno al nonno?
– A nessuno, mai!
– Va bene.
– Papà non ti ha abbandonato, ti vuole bene e ti pensa. Ora sta viaggiando in mezzo alle stelle.
– Tornerà?
– Sì, un giorno tornerà.
Ben era rimasto di sasso. Molte volte, crescendo, aveva pensato a quella frase, l'unica che avesse descritto suo padre. Per questo motivo aveva sempre preferito le discipline sportive che gli consentivano di staccarsi da terra.
– Come faccio a sapere che vieni da un altro mondo?
– Vuoi vedere un disco volante, ti sentiresti più sollevato o mi crederesti meno pazzo di quello che sono?
– No! È che non capisco tutto questo, perché arrivare fino a qui, incontrare mia madre, poi abbandonarci e ora tornare solo per pochi giorni…
– È tempo di fare un giro in Cadillac, andiamo…
In un istante Ben abbassò lo sguardo e, sotto i suoi piedi, il tappeto di ciniglia e il pavimento sembrarono dissolversi; fece un sospiro di sorpresa. Tentava di riconoscere le cose confuse che si accavallavano nella sua mente. Aveva alzato la mano e, tra le dita aperte, vide sgretolarsi le mura della cucina. Prima erano ricoperte di mobili di legno. Poi un lenzuolo, più nero della notte, aveva cancellato tutto, perfino un crocifisso. Ben si trovò a galleggiare nello spazio, era all’interno di una bolla di sapone gigante.
– Atterreremo sul Bacino Skinakas – disse Lakin e indicò un pianeta rosso che sembrava un sasso galleggiante nel mare infuocato. In lontananza Ben era accecato da quello che doveva essere il sole e credette di sognare. Non aveva paura, anche se il cuore sembrava salito sulle montagne russe, era eccitato, incredulo, impressionato.
– Fantastico, da qui la vista è davvero magnifica – disse Lakin al figlio e poi gli domandò: – Vedo che non hai paura. Che cosa ti stupisce di più?
Ben roteava su se stesso nella bolla persa nello spazio. Non riusciva a distinguere un sopra e un sotto, allargava le gambe, piegava il bacino, galleggiava sull'orlo dell'infinito. Davanti a loro due le fiamme del Sole lasciavano intuire la sagoma cremisi di un piccolo pianeta.
– Il silenzio, il silenzio è assoluto, mi piace… potrei abituarmici. Perché mi hai portato su Mercurio, questo è davvero Mercurio?
– Perché sta per avvenire qualcosa di speciale qui, qualcosa che non crederesti possibile e che sta per accadere proprio adesso. Guarda, succede quando Mercurio raggiunge il punto più vicino al Sole.
La bolla era atterrata tra le coste del cratere Skinakas.
– Incredibile, non è possibile!
– La gravità impone le sue regole, ma quando sei a gravità zero c'è più democrazia, non contano i muscoli, pensa a come aggirare l'ostacolo…
Il Sole si fermò alto sull’orizzonte e, invece di continuare il suo movimento, volgendo verso il tramonto, per una straordinaria combinazione di rotazioni e rivoluzioni stava invertendo il suo moto, tornava indietro, calando dalla stessa parte da cui aveva raggiunto lo zenit. Il tempo scorreva velocemente, come se le ore si fossero sovrapposte ai minuti. Ben pensò che quella non fosse la realtà, ma solo un'illusione.
– Il biglietto? – chiese.
– Il mio regalo, un modo per vincere o un modo per darti coraggio. Devi decidere tu.
– Ho venti giorni per la finale di salto in alto.
– Ne hai solo sedici.
– Stai scherzando?
– Guarda tu stesso, quando viaggi nello spazio il tempo scorre in modo diverso.
– Per questo sei sparito per così tanto…
Non era stata una visione. Lakin lo abbracciò stretto e tutto si interruppe. Sul viso di Benjamin erano comparse due macchie rosse, era accaldato e scosso. Il crocifisso, il tappeto di ciniglia, il latrato del suo cane fuori dalla finestra.
– Ben è tutto quello che potevo fare per te. Non posso restare oltre, tra pochi minuti sparirò. Ma potrai sempre ricordarti di questi momenti e di come abbiamo visto fermarsi il sole insieme. Non possiamo spiegare tutto, certe cose vanno oltre le parole.
– Tornerai sul tuo mondo?
– Sì, è quello il mio posto.
– Non puoi portarmi con te?
– Non posso.
– Puoi almeno descrivermelo, per cercare di pensare a te e di ricordarti quando non ti vedrò. –
Lakin si intenerì, gli lasciò un paio di occhiali: – Indossali dopo la gara, sarà il nostro modo di restare in contatto.
– Vincerò!
– Non è importante.
– Balle!
– Un altro si sarebbe già ritirato, il fatto che ci stai provando mi rende orgoglioso di te.
– Tornerai?
– Puoi giurarci.
Lakin sparì. Erano rimasti solo un paio di occhiali scuri sulla sedia della cucina, dove prima era seduto. Il suo tempo era scaduto. Ben cercò di concentrarsi sulla finale e anche se aveva una curiosità folle di inforcarli subito si trattenne. Sudò facendo flessioni ed esercizi, corse sette chilometri e passò l'intero giorno a cercare il modo di superare l'asticella. Lesse e riflesse il biglietto:
“Per volare non servono ali
Disegna un cerchio, fai un balzo e poi sali
Flettendo la schiena a gravità zero
Come nessuno prima, sentiti fiero
Sfiora il cielo con occhi raggianti
Sotto sguardi stupiti di stolti e arroganti.”
Poi, improvvisamente, quando era più disperato, ricordò un movimento che aveva fatto fluttuando nella bolla per spostarsi velocemente. Si era “rovesciato” e capì. Per saltare oltre l'asticella tutti gli atleti fino ad allora avevano seguito lo scavalcamento ventrale, correndo in linea retta e salendo poi in verticale, tuffandosi in avanti con un enorme dispendio di energia. A Palo Alto, Valeri Brummel, meno di due anni prima aveva saltato 2,26 metri, stabilendo il record del mondo, era stato il suo mito fino a quel momento. Ben stava per fare qualcosa che nemmeno in un’Olimpiade era stata mai tentata. E suo padre aveva lasciato che lui ci arrivasse, non aveva fatto altro che invitarlo a pensare in modo originale, sfruttando la sua agilità più che la sua forza. Aveva una strategia, nessuno lo comprendeva né sosteneva, ma sapeva che avrebbe fatto il terzo salto della serie in un modo rivoluzionario.
Quando arrivò il giorno della finale non si curò dello spintone che Karl gli aveva dato, né del biasimo di un continuo borbottio di ragazzi che gli avvelenava le orecchie. Per lui lo stadio della scuola era vuoto, il campo da football con il materassino e l'asticella, posti sotto la curva, erano tutto ciò che contava. La sua mente tornò su Mercurio, là dove il Sole si era fermato.
Doveva fare il terzo salto, era terzo.
Poi saltò e vinse.
Aveva preso la rincorsa su una traiettoria semicircolare e si era girato nel momento dello stacco. Volgeva la schiena all’asta, e stava creando una combinazione di energia centrifuga ed elevazione. Saltò in un movimento obliquo e spettacolare, come se si fosse tuffato all’indietro tra le onde, o nello spazio vuoto, galleggiando a gravità zero.
Ufficialmente la tecnica fu inventata da Dick Fosbury, quando vinse la medaglia d'oro alle Olimpiadi nel 1968. In realtà essa fu utilizzata anche da alcuni atleti negli anni precedenti, su tutti la primatista canadese Debbie Brill, che cominciò ad usare questa tecnica nel 1966. La ragazza aveva 13 anni e l’aveva vista in New Mexico, assistendo alla finale di Stato in cui Benjamin era arrivato primo.
Da allora tutti saltano così, girando le spalle e spiccando il volo, nemmeno ci si ricorda più di quando si prendeva la rincorsa, puntando dritti e tuffandosi oltre l’ostacolo.
Quando i ragazzi avevano ancora gli occhi sgranati e la bocca aperta, con la medaglia della finale al collo, Ben non stava pensando a quello che aveva fatto. Inforcava gli occhiali e, dimenticandosi di tutto, si era lasciato rapire dalla voce di suo padre:
– Ecco casa mia, spero un giorno di portarci anche te e la mamma… – le immagini accompagnavano le sue parole, – Nel mondo d’acqua e ghiaccio cui appartengo, in un anno il nostro sole sorge soltanto due volte. Settimane prima, un bagliore amaranto si forma all’orizzonte meridionale, creando un soffuso contorno di luce. Nell’avanzare dei giorni, con precisione immutabile, il riflesso diventa più intenso, fino alla mattina in cui un disco fiammeggiante si leva all’orizzonte. Il primo giorno il nostro sole si arrampica soltanto per metà sulla volta del cielo. Ha appena il tempo di salutare il suo impero di ghiaccio e di incantare coi suoi raggi obliqui i flutti dell’oceano. Dopo poche ore scivola dietro il bordo delle acque, al di là delle coste. Il suo primo saluto è sembrato solo un timido tentativo di riportare alla vita la terra, che ha attraversato sei mesi di buio perpetuo. Eppure quella chiazza luminosa il giorno seguente si sistema ai confini dell’orizzonte e, senza mai tramontare, ruota e domina per i successivi sei mesi. Sovrasta pianure ghiacciate, trasparenti, all’apparenza fragili come il cristallo, ma in realtà dure più dell’acciaio. Da questo istante si alzano dalle profondità dei crepacci le nostre torri. Antenne climatiche assomigliano a spade piantate nelle rocce. Sono costruite per resistere ai violenti venti del nord, che si riversano nello spazio in silenzio. I venti non trovano costruzioni né insenature capaci di farli sibilare, allora stridono tra le crepe dei ghiacciai e si sovrappongono ai tuoni degli iceberg che si staccano. A mezzogiorno il nostro sole splende da sud, quindi compie un mezzo giro per arrivare a brillare a mezzanotte a nord. Con la prima settimana germogliano fiori selvatici. Sono minuscoli e sembrano esplodere di colori per quanto rapidamente fioriscono. In seguito, dal manto di neve intenerito spuntano alberi bassi, che si estendono in orizzontale anziché in verticale, in modo da catturare la massima quantità di sole e sfruttare l’umidità del suolo. I primi animali escono dal letargo e finalmente noi, con le nostre tute allacciate torniamo all’esterno, riempiendo di aria gelida i polmoni. È da tutto questo che prendiamo i nostri occhi, chiari e bianchi come il nostro mondo alieno, quello che io chiamo casa…
– Ti voglio bene papà, torna presto – mormorò Ben, sfilando gli occhiali e guardando tutta la curva dello stadio che lo salutava applaudendo.
Le sue iridi chiare splendevano, e la luce di un sole lontano le colmava, rendendole trasparenti come l’acqua.
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