In occasione dei 700 anni di Dante Alighieri, vorrei condividere con voi questo incredibile testo, unico nel panorama della medievalistica; il singolare tema trattato e la controversia che, esattamente un secolo fa (ricorreva allora il secentesimo anniversario del Sommo Poeta), accese gli ambienti accademici anglosassoni, ne fanno un documento la cui rilevanza scientifica supera l'effettivo pregio letterario.
Per qualche oscura ragione il testo e il notevole dibattito da esso provocato furono dimenticati. I motivi potrebbero essere molteplici, in primis lo scomodo e inquietante argomento trattato nella "Canzon di Guido" ma, nondimeno, il vacillare di confortevoli scranni accademici.
A seguire la celebre presentazione che la dottoressa Trisha O'Sullivan lesse al convegno tenutosi presso la Royal York University il 4 novembre del 1921.
"La "Canzon di Guido", come convenzionalmente è conosciuto il testo sotto riportato, fin dalla sua scoperta ha imposto interrogativi di interesse multidisciplinare.
Al centro della composizione troviamo quella che, in accordo con il misterioso autore, potremmo definire una donna; tale centralità colloca di diritto l'opera in un contesto schiettamente stilnovistico.
La forma letteraria, il lessico e il gusto fraseologico hanno suscitato in ambito accademico più d'un sobbalzo. Le terzine di endecasillabi e la conseguente struttura della rimazione, retrodatano lo stile dell'Alighieri di almeno tre lustri, di fatto mettendone in forse la paternità.
Appare del tutto evidente che il Poeta sapesse dell'esistenza di questi versi e certo ne lesse almeno dei frammenti o qualche riduzione.
L'identità dell'autore, rivelataci dalla protagonista solo nel terzo verso della XIV strofa, è oggetto di vive controversie e, ad oggi, come ben sappiamo, le ipotesi più accreditate si riducono a due.
Secondo il professor Kreachton di Baltimora, Guido altri non sarebbe che il celebre Cavalcanti, amico dell'Alighieri. In giovane età il poeta, che aveva antipatia per i Ghibellini, non volle aderire ai Guelfi bianchi perché tutti gli dicevano che copiava sempre Dante ("si Dante se gitta pe'la fenestra che fa'? Pur tu te gitti giuso?" soleva motteggiarlo il comune amico Lapo Gianni); Guido non se la senti', comunque, di contrariare l'amico aderendo a quelli neri e si risolse di fondare i Guelfi grigi, un'ignava via di mezzo che durò un paio di settimane, riunì perlopiù i buontemponi fiorentini (si concluse con una scazzottata per futili ragioni) e finì nel dimenticatoio della storia; lo scontento che questo insuccesso causò al Cavalcanti lo rintracciamo nella prima strofa del componimento.
Il Kreachton dalle asprezze, dalle ingenuità del verso e dalle diffuse imperizie stilistiche presenti nel testo, ipotizza che il Cavalcanti fosse molto giovane al momento della stesura.
Di tutt'altro avviso la filologa Monica Raikkonen di Princeton che in Guido ravvisa il condottiero Guidoriccio da Fogliano. Egli da giovane, coltivava le belle lettere e, come scrisse nelle sue memorie, "I' non volea saperne d'arme et zacchera su li vestimenti"; qualcosa, negli ultimi anni del tredicesimo secolo, potrebbe averlo spinto a cambiare bruscamente carriera, forse i fatti notevoli narrati nel componimento?
Una terza ipotesi, subito rigettata, fu l'attribuzione del componimento a tale Guidotto 'l Bischero, poeta autodidatta a capo di una influente corporazione di portuali livornesi; tale possibilità fu vagheggiata, provocatoriamente, dal professor Olafson di Malmo che nel difendere la propria argomentazione non riusciva a trattenere le risa, ragion per cui fu allontanato dalle aule accademiche.
Ma lasciamo che sia lo stesso Guido a parlare.
Menavami pe' l'erta fronte a Siena/
Assorto ne' penzieri foschi e gravi/
Ch' allor mi tormentavan co' gran pena.
Ti vidi che soletta te ne stavi/
Assisa soppra l'erba rugiadosa/
Col qual color si ben ti simulavi.
Come ti scorsi, picciola e squamosa/
Tutto tremante in cor e nelle vene/
Penzai la fuga laida e vergognosa.
Fiso mi stetti, in ver, pur tra le pene/
A rimirar que' l'occhi obliqui e bigi/
Che sol conobbi in vespe o ver falene.
Mentr'io mi conturbava in tai prodigi/
Tu ti levasti ratta dal terreno/
Tra lumi, schioppi e olenti suffumigi.
Dirò che allor credetti venir meno/
Parean le forze bandonarmi 'l petto/
Presso di me che fosti in un baleno.
"Non puote haver" – penzai – "cotale haspetto"/
Horrevol pulzelletta men che humana/
Mita' mugliera et l'altra mezza 'nsetto.
"Bestia non son che dici disumana"/
Diss'ella a me con voce 'n ver cortese/
Con empito di nobil castellana.
"Ai" – seguitò – "mi sto in cotal paese/
Mesta e solinga come tu m'hai scorta/
Poi che la nave mia più non m'attese".
"Cosa voi dir, qual nave t'intrasporta?/
Mare non havvi pe' queste contrade"/
Fec'io a la donna grama e strania e smorta.
"Non sol in terra e in mar truovi l'istrade/
Ben la celeste volta n'have de molte/
Et astri e assai planeti co' cittade".
"Ai homini mundani, ai genti incolte/
Chi nullo sape cre' saper lo molto"/
Fur le favelle sue ver me rivolte.
"Donna" – diss'io – "mi pingi quale stolto"/
"Guido" – ella a me – "ben tu lo negheresti?"
Tosto mi tacqui e scolorommi il volto.
"Quai sortilegi, deh, mai sono questi?/
Tu mi nomasti co' lo nome mio/
Ch'i nol ti dissi e tu nol mi chiedesti"/
"Guido tu se', poeta, chi son io?/
Lo nome mio tu nol intenderesti/
Pur son criatura de Domeneddio".
Dolci mi furon quell'accenti mesti/
Ombra non v'era in essi de nequitia/
E nobile 'l parlar e urbani i gesti.
M'impresi poi a studiarla co' dovitia/
Breve de gamba et verde lo 'ncarnato/
Più non mi diè timor, ma in ver laetitia.
Lo capo, grande assai, gli era adornato/
De bella chioma come le donzelle/
E tutta ben composta pe' ogni lato.
Puro l'oval n'avea de cose belle/
E tutta la persona 'n propportione/
Ben figuravan pur le tre mammelle.
"Se' tu poeta o laido crapulone?"/
Diss'ella a me mutando nel sembiante/
"Dove t'en vai lo mascolo è porcone".
"Vero" – fec'io con voce in ver tremante/
Che poco lo mentire a me s'addice/
Ella distolse 'l viso e mosse innante.
Suso la seguitai pe' la pendice/
Co' somma pena de' lombi e delli pedi/
Colmi de calli et occhi de pernice.
Pe' istrade 'mpervie drieto a lei mi andiedi/
Fin che non giunsi dello monte 'n vetta/
Pallido, infirmo et sanza li rimedi.
Lei mi fe' cenno e ratta quai saetta/
D'un balzo si gitto' giuso 'n pianura/
Et giunta seguitò quai cavalletta.
I' mi restai quassù pien di paura/
A rimirar que' balzi timoroso/
Quando dal ciel discese un' ombra oscura.
Un disco, tal m'apparve, luminoso/
De gran sembiante et fine de fattura/
In ciel s'envoltolava silenzioso.
Empi' de negra ombra la pianura/
Tant'era grande, quando in un sospirio/
Bianco un gran raggio avvinse la criatura.
"Donna" gridai qual pazzo in pien delirio/
"Donde tu veni et ove te ne vai?"/
Lieta indicommi 'l ciel et disse: "Sirio".
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