I Sing The Body Electric.

Nel 1855 Walt Whitman apriva con questo verso una delle sue poesie nella raccolta Foglie d’Erba.

Un verso che si è poi rivelato seminale, diventando il titolo di un racconto e poi di una antologia di Ray Bradbury pubblicata nel 1969, quello di un album dei Weather Report del 1972 e, infine, della canzone che chiude Fame, il film di Alan Parker del 1980.

Il concetto del Corpo Elettrico è uno dei fondamenti della Fantascienza. Un corpo che funziona mediante l’elettricità. Un corpo artificiale, costruito in un laboratorio e non in un grembo materno.

Una macchina fatta per il futuro.

Ogni appassionato di fantascienza ha il proprio percorso a base di robot, androidi, macchine senzienti, elaboratori sofisticatissimi, che, se ci fermiamo a riflettere, sono sempre stati descritti o come benigni deus ex machina o come minacce. Che fossero enormi giganti di ferro o androidi caldi al tatto corredati di emozioni, pianeti computer o nanomeccanismi da iniettarci nelle vene, questi corpi o frammenti di corpi elettrici sono destinati a venire con noi nel futuro, con tutto il bagaglio di paure e speranze che si portano dietro.

Sia le une che le altre, ovviamente, sono legate ad un solo problema: il genere umano, cioè noi stessi. Siamo noi a determinare il valore positivo o negativo di queste che una volta potevano sembrare idee da riviste pulp e che invece stanno diventando realtà davanti ai nostri occhi con una velocità che nemmeno immaginavamo.

Per chi è nato negli anni ‘60 sentire parlare realmente di automobili a guida automatica, droni che consegnano pacchi, androidi da compagnia, applicazioni della nanotecnologia in medicina è allo stesso tempo bellissimo e tremendo.

Bellissimo perché scopriamo che quanto leggevamo non erano solo storie, tremendo perché insieme a questo sviluppo abbiamo visto di cosa è capace il genere umano, e per questo non riusciamo a fidarci di quanto potrebbe accadere. Non solo temiamo la robotizzazione industriale per le conseguenze sull’occupazione, ma sappiamo che non è l’invenzione/scoperta ad essere temuta quanto l’utilizzo che ne faremo. Storie come Terminator, Matrix, Westworld non solo rappresentano una delle caratteristiche umane, come la paura del diverso, ma potrebbero anche nascondere qualcosa di più profondo: la paura di ammettere che forse siamo solo un gradino dell’evoluzione.

Perché noi siamo già un corpo elettrico, il nostro sistema nervoso elabora dati, fa funzionare l’organismo e decide azioni attraverso l’elettricità, e se a questo associamo le nuove linee di ricerca sul DNA che viene sempre più interpretato come un software adattativo invece che un corredo di istruzioni rigidamente scritte la similitudine con le macchine che stiamo creando diventa stupefacente. Nessun genere animale comparso sul pianeta ha mai modificato ambiente e società attraverso la tecnologia, siamo i primi, e lo stiamo facendo ad una velocità che aumenta di anno in anno, certo, siamo consapevoli che alle spalle della ricerca non ci sia solo la sete di conoscenza ma anche la logica di mercato e questo è attualmente inevitabile. Ma che dobbiamo per forza essere o spaventati dalle macchine o adoratori di esse, è estremamente riduttivo.

Allo stesso tempo non pensiamo per forza ad una Terra devastata sulla quale regnino solo macchine senzienti, o a una Arcadia priva di ogni artificialità. Proviamo, invece, ad immaginare, e magari costruire, un futuro nel quale avanziamo insieme alle macchine, non solo in senso figurato. Il racconto di Bradbury citato in apertura si chiude con una bambina che impara a fidarsi della sua nonna robotica perché è l’unica immortale. In Matrix le Macchine per rimanere immortali usano gli esseri umani come «batterie», la quintessenza del corpo elettrico. La vera rivoluzione futura, forse, non è se accettare o meno androidi e IA nelle nostre case, ma poter usare tutto questo per cambiare le modalità della società in cui viviamo. Questo si che è un bel sogno, che spereremmo possa nascere anche dal quello brutto della pandemia che stiamo vivendo. Le macchine sopravviverebbero a qualsiasi pandemia, certo, e forse questo ci spaventa ancora di più: creare qualcosa che vinca la morte mentre noi non riusciamo a farlo. Una pesantissima lezione di umiltà. Ma la canzone del film Fame ha un verso che dice: And in time and in time we will all be stars. Prendiamolo alla lettera, dunque, come un augurio per il futuro dell’umanità, quello di evolvere in serene stelle dal corpo elettrico che ci permetta di vivere nel cosmo magari per sempre.