La notte azzurra era sul finire; la gialla, non ancora prevalsa, colorava l'orizzonte presso il segno della Chimera, con un chiarore diffuso che invadeva il cielo a poco a poco, giocando d'iridi con le nubi altissime e rade, immobili nella remota sfera degli aloni.
I basalti i quarzi gli schisti lampeggiavano nel silenzio immenso della montagna.
Stormi nereggianti si levavano a tratti, frammettendo al sibilo delle membrane l'urlo lugubre, simile ad un singhiozzo, con cui salutavano, ad ogni ritorno, il satellite giallo testimone del loro risveglio e delle loro incursioni.
Calavano vertiginosi sulla pianura, dai picchi deserti, formidabili d'impeto e d'ardimento, per la caccia breve e terribile della notte gialla.
Hrn lo sapeva e vigilava. Incastrato nella roccia, ravvolto nelle squame dure della pelle che lo cingeva a protezione, premeva con tutto il suo peso sui due orli del crepaccio, per non scivolare, e attendeva. Passato il pericolo, sarebbe risalito, su, verso l'osservatorio.
Quando fu in sommo, gettò la pelle e si fermò, beato. Sentiva l'aria penetrargli, vaso per vaso, in tutte le fibre, leggera e vivificante. In alto, nella fosforescenza d'oro di mille aloni concentrici, la luna trionfava con bagliori di topazio.
La montagna era ormai una tempesta di splendori gettati alla rinfusa sullo sfondo lontano e nebbioso della pianura. Basso e rotondo l'osservatorio gli stava vicino. Entrò. L'oscurità più profonda custodiva i minuscoli e perfetti apparecchi con cui egli violava i segreti dei mondi.
Si muoveva nel buio senza rumore, esatto e preciso, intento ad un misterioso lavorìo di osservazioni; e guardava le stelle. Non guardava, anzi. Le immagini degli astri gli giungevano, dagli strumenti, direttamente alla coscienza, fuor del tramite dei sensi; comunicavano, soli, nebulose, universi, per vie a noi ignote, con l'essenza stessa della sua vita.
Ed egli, Hrn, pensava.
Nella vastità infinita dell'esistente, nella varietà senza limiti delle vite, una sola energia, una sola immagine attiva ed operante della divinità, accomuna i grandi e gl'infimi, gli arcangeli e gli embrioni: il pensiero. Nato dallo stesso fervore di vitalità, rivolto alla medesima mèta, strumento d'ogni divenire, utensile che la creatura stessa inconsapevolmente si forgia quando la sua legge la spinge ad uscire dal grigio degl'istinti per inoltrarsi lungo le vie della conoscenza, il pensiero lavorava anche lassù, tra lo sfioccar delle nervature e l'intreccio dei vasi, in quello che noi avremmo chiamato il cervello, o quasi, di Hrn. Anch'egli Hrn, pensava; e si volgeva, dal mondo dei tre satelliti, nella notte gialla e silenziosa, all'al di là; oltre i confini della sua coscienza, dove la sua sapienza ammutoliva; e, popolava l'oscurità d'immagini palpitanti e vive, come se la forza del suo desiderio avesse potuto recargli l'ignoto sotto l'angusta volta della cupola, e stracciarne il velo, e offrirglielo.
Un mondo, una stella giallastra, dall'infinita distanza degli spazi, lo chiamava: il Sole; il nostro Sole, l'unico Sole che gli aveva potuto mostrare il gregge intero dei suoi pianeti. E di questi, soltanto di questi, fra i miliardi di fratelli popolanti gli universi, egli aveva potuto, per la posizione del suo osservatorio, penetrare i segreti.
Nettuno, Urano, Giove, Marte, la Terra. Le radiazioni prepotenti del Sole eclissavano il tremolio scintillante degli altri, inferiori. La Terra, ultima Thule, nel pensiero di Hrn, infocata e riarsa da torrenti di luce e di calore, a ottocento diametri di distanza da quella stella che Hrn calcolava otto volte più calda di Alahàbis — il «suo» sole — roteava senza posa. Esseri favolosi l'abitavano. Forse, per il gran calore, catafratti di incombustibili scorze. Forse, per la giovinezza dell'astro, simili a quei mostri che la leggenda diceva scesi dal satellite azzurro, nelle migrazioni pre-vulcaniche dell'antistoria. E il sogno della sua vita, dei primi secoli della sua vita già sul declinare, si riaffacciava alla sua fantasia; il gran sogno orgoglioso per cui s'era macerato tanto a lungo nelle viscere del pianeta, laggiù, lungo i trafori interminabili che conducevano ai sotterranei della sapienza. Il sogno che forse la generazione successiva avrebbe salutato realtà: uscire, balzar fuori dalla sfera dei venti, dalla sfera degli aloni, lasciare il regno di Alahàbis, l'ammasso di cui esso era parte, e sopire la vita per ridestarla laggiù, vicino a quell'altro sole, vicino a quegli altri pianeti…
Non mancava che un anello alla gran catena; l'artificio per il risveglio. E aveva arenato per secoli i sapienti, limitando le esplorazioni entro gli angusti confini della vita: sette, ottocento anni. Al di là non si poteva andare. Per arrivare sulla Terra ne sarebbero occorsi sessantamila.
Ed ecco, dall'ombra profonda il fremito di una cosa viva correr tra gli ordegni precisi, riempire la cavità, disperdersi per il labirinto dei trafori e dei cunicoli che s'insinuavano nel monte; la presenza d'un altro essere nascosto, spossato dallo sforzo della dissimulazione, rivelarsi in un incontenibile sussulto.
Nell'oscurità assoluta Hrn percepì l'intruso.
Un Dàvis, un nemico, uno della razza implacabilmente ostile, contro cui egli e la sua stirpe combattevano già da secoli. Com'era salito lassù? come aveva potuto rintanarsi nell'osservatorio, proprio nel momento in cui la montagna, per il mutar delle lune, era più inaccessibile, e gli stormi dei rapaci calavano dalle vette, ingordi di preda?
Pensò per un attimo che avesse portato con sé il fiore agghiacciante, a cui nessun vivente resiste; ed ebbe un lampo di paura. Ma no. L'intruso era inerme e si sentiva ormai perduto. Il ritmo del suo fremito si faceva grosso ed irregolare, simile al crosciar d'una fiamma percossa dal vento. Era suo. Allora Hrn cautamente s'accostò al più piccolo degli apparati che intercettavano i raggi degli astri infinitamente lontani; e converse in offesa la teoria dei sottili artifici e dei congegni di osservazione. Così, come era stato preparato tanto tempo innanzi, prima che la guerra si fosse scatenata fra i Dàvis e la sua gente, per la prima volta l'osservatorio si tramutò in fortilizio. Ma non toccò i grandi apparecchi, capaci di rigettare per le rupi un esercito; nè le armi mortali; voleva il nemico vivo; vivo e impotente, vivo e vinto per sempre, incapace di muoversi, di agire, di reagire, confitto per tutto il resto della vita nella disperazione.
E, raggiuntolo, afferratolo, immobilizzatolo, gli serrò con tutta la sua forza i néssi fatali. L'altro, conscio della sua sorte, si dibatteva sotto la stretta, lanciando forsennatamente da ogni interstizio fra cellula e cellula fiotti d'aria gelida; e la lotta, nella cavità aerea del monte, tra lo sventagliar delle membrane e lo sfrustar delle fibre, tra gli schiocchi e gli sbattimenti, pareva una battaglia d'aquile. Poi Hrn potè liberarsi un arto, e con un tocco leggero sull'ordegno che aveva accanto, fulminarlo.
Il Dàvis, orrendo, trasfigurato, annaspò l'aria simile ad un drago creato per atterrire; e la disperazione che gli attanagliava lo spirito cercava, folle, un varco nel pianto, nell'ira, nella morte. Ma tutto era finito; il destino si compiva; nulla, al mondo, mai più avrebbe potuto salvarlo dalla dannazione che Hrn gli aveva inflitta. Avrebbe compreso per secoli, con spaventevole lucidità, tutto quel che gli avveniva intorno; ma la coscienza intatta non avrebbe saputo, mai più, dare di sé, all'esterno, altro segno che non fosse di delirio. Finito per gli altri, finito per le cose, avrebbe portato con sé, sino alla fine, il martirio senza soccorso. Neppure avrebbe potuto, come di tutti, come fino dei più umili e dei più miserabili era diritto, darsi, nel giorno della gran chiamata, la morte.
Avrebbe dovuto attendere, rudero inutile e spasimante, che la dissoluzione si compisse.
E Hrn, àlacre e leggero, incurante della vittima, riprese il lavoro interrotto. Soli, pianeti… la Terra. Ultima Thule, la Terra. Dove forse esseri favolosi… Ma no. Forse sulla Terra, nel torrido clima, l'evoluzione s'era compiuta più rapidamente; e gli abitatori di essa, chi sa? più saggi e progrediti, conoscevano i segreti ch'egli perseguiva. La guerra, ogni guerra, laggiù, doveva essere scomparsa da un pezzo.
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