Dopo il consueto TG Raggi Fotonici delle 13.00, che include una bizzarra lettura teatrale del programma del festival, partiamo a cannone con i corti.
Riflettendo su ciò che vedevamo una decina di anni fa in questo e altri festival, la qualità generale si è senza dubbio alzata spaventosamente. Trovare qualcosa con una fotografia d'impatto era raro tanto quanto trovare al giorno d'oggi un corto che non abbia un’illuminazione di alto livello. L’abbassamento dei costi e la diffusione delle competenze ha creato standard molto elevati, anche se a volte pare che la febbre dell’eccellenza abbia infettato solo gli ambiti strettamente tecnici, abbandonando purtroppo lo storytelling e la direzione attoriale a una crescita più lenta.
Difficile non immaginare il malesiano Cargo in veste di lungometraggio, perché i presupposti ci sono tutti. Il mistero di una pietra trovata nella giungla si tramuta presto in orrore quando una creatura sbuca fuori durante il trasporto. Il ragazzino protagonista è perfetto e possiamo solo sperare che la storia sia sviluppata ed estesa, come avviene talvolta quando qualcuno con il grano in tasca si accorge delle potenzialità di un progetto.
Consume, con la sua estetica retrogaming, colpisce per simpatia e simbolismo. Il protagonista passa la giornata in un loculo, connesso a giochi virtuali e alimentato a junk food. Unico suo desiderio: vincere ai danni di un altro giocatore. Ci riuscirà, ma solo per rivelarci che la vittoria coincide con l’essere assimilati nel sistema. Un’opera politica e divertente, da confrontare assolutamente con l’imperdibile iDiots.
The purple iris e Raze of the cyborg confermano ciò che dicevamo nella premessa: grande messa in scena, ottima CGI e – nel secondo – pregevoli coreografie. Ma la storia, in tutto questo, sembra essersi persa per strada. Non nominiamo neanche Tooth fairy: due minuti per sfoggiare una creatura in 3D che pare di vent’anni fa.
Il primo film di oggi ci ha colpito. Jumbo è la rara storia di una donna innamorata di… una giostra. Sì, avete capito bene: la tizia si eccita, ride e si confida con un coso molto simile all’Icarus (attrazione di Gardaland di qualche anno fa). Ma la delicatezza del racconto, i dialoghi essenziali (la tipa parla meno di Bruce Willis in Unbreakable) e la fantasia con cui sono girate le scene sulla giostra fanno capire che la pellicola non regge la sua efficacia sulla stranezza e la lieve scabrosità del tema trattato, ma punta ad astrarre le dinamiche relazionali permettendo un’identificazione col personaggio. D’altronde rifletteteci: non vi è mai capitato di amare qualcuno e per qualche motivo non poter esprimere questo sentimento? O di avere una passione che impone dei sacrifici che la famiglia, gli amici o la società stessa ritengono insensati? Seguire il proprio cuore a volte vuol dire andare contro a tutto ciò che dicono gli altri. Ma si può rinunciare ad amare una giostra, che ci fa girar come fossimo bambole?
Coma ha tutti gli elementi per essere un bel film. Ammiccamenti a Inception, buona CGI e qualche buon plot twist. Ma non tutto funziona: gli attori non sono memorabili e l’estetica postatomica è in disaccordo con la “fighetteria” dei personaggi (i costumi sembrano nuovi, cosa disturbante visto il contesto). Il regista Nikita Argunov ha un’indubbia padronanza dello strumento, ma non è chiaro se voglia usare questa competenza per dire davvero qualcosa o fermarsi a una buona rappresentazione di qualche spunto vincente. Perché la trama ha elementi davvero interessanti. Questo limbo in cui le persone in coma vanno è minacciato da esseri neri e cattivi (che paiono lo spettro cattivo di Sospesi nel tempo di Peter Jackson rifatto dallo stesso team di Venom) che a un certo punto si scoprono essere persone tenute in vita dai macchinari. Un’occasione parzialmente sprecata.
Non a caso Maks del team del Trieste Science+Fiction tira in ballo Babadook per introdurre Relic: in entrambi i casi, abbiamo una regista australiana che si confronta con l’horror, riuscendo però a mantenere il focus sulla profondità del tema trattato (se in Babadook era la rielaborazione del lutto, qui ci troviamo di fronte alla demenza senile). Grandi immagini, grandi jump scare, grandi interpretazioni. I dialoghi funzionano e preparano all'orrore, all'interno di un simbolismo chiaro ma non esagerato. In un certo senso paragonabile a The visit dell'ingiustamente deriso M. Night Shyamalan (a cui alcuni blasonati registi potrebbero giusto spazzare il dialetto), il che è un gran complimento, considerato che Natalie Erika James è al primo film. Ma non le mancano i santi in paradiso, visto che Relic è stato prodotto anche da Jake Gyllenhaal e i fratelli Russo, nonché mandato in anteprima al Sundance.
E anche per oggi, dai vostri inviati di Schrödinger – un po' fuori e un po' dentro il festival – è tutto.
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